IL PAPA DELLA FEDE

BENEDETTO XVI

E’ TORNATO ALLA CASA DEL PADRE

SABATO 31 DICEMBRE 2022

ALLE ORE 9,34

 

 

 

Habemus Papam

Martedì 19 aprile 2005 (file PDF)

L’ultima omelia da Cardinale (19-4-2005)

 

Prima omelia pronunciata nella Cappella Sistina da Benedetto XVI  ( 20-4-2005)

 

Omelia di inizio del Ministero Petrino     (24-4-2005)

 

La relazione fondamentale del Papa al convegno diocesano ( 6 giugno 2005)

 

La luce della fede

Deus caritas est  (File Zip)

Litterae Apostolicae “Motu Proprio

 

Prima Enciclica del Papa

Il testo integrale della lettera con cui Benedetto XVI accompagna il Motu proprio di liberalizzazione del Messale del 1962

Sacramentum Caritatis (File Zip)

Esortazione apostolica postsinodale

 

 

Spe Salvi  (File Zip)

Il discorso che il Papa non ha potuto pronunciare alla “Sapienza”

Seconda Enciclica del Papa

 

 

Caritas in Veritate (File Zip)

Terza Enciclica del Papa

Le omelie di Benedetto XVI nella settimana santa del 2008

 

Il Papa ai partecipanti al congresso internazionale organizzato dal Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di studi su matrimonio e famiglia in collaborazione con i "Knights of Columbus" :Divorzio e aborto lasciano ferite da guarire

 

LETTERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
RIGUARDO ALLA REMISSIONE DELLA SCOMUNICA DEI 4 VESCOVI CONSACRATI DALL'ARCIVESCOVO LEFEBVRE

 

 

Pubblicata la Lettera del Papa per l’apertura dell’Anno Sacerdotale (File PDF)

 

La rinuncia al Soglio pontificio ( 11 febbraio 2013) (File PDF)

 

L’ultima udienza del Papa Il testo integrale dell'ultimo discorso di Papa Benedetto XVI -  Mer, 27/02/2013

 

 

Biografia di Papa Benedetto XVI

 

 

La vita, in breve, di Papa Benedetto XVI

 

1927

Nasce a Markt am Inn, in diocesi di Passau il 16 aprile 1927. Il padre, commissario della gendarmeria proveniva da una antica famiglia di agricoltori della Bassa Baviera

1939-1940

Trascorre l’adolescenza a Traunstein

1945

Viene arruolato negli ultimi mesi di guerra nei servizi ausiliari antiaerei

1946-1951

Studia Filosofia e Teologia a Monaco e Frisinga

1951

Ordinato sacerdote il 29 giugno, inizia l’insegnamento

1953-1954

Dottore in Teologia con la tesi << Popolo e casa di Dio nella dottrina della Chiesa di Sant’Agostino >>

1957-1958

Ottiene la docenza con uno studio su << Teologia della Storia in San Bonaventura >>

1959-1969

Insegna a Bon

1962

Consulente dell’ arcivescovo di Colonia al Concilio Vaticano II

1963

Dal 1963 al 1966 insegna a Munster

1964-1965

Fa parte del gruppo dei << Konzilteenager >>, i teologi teeneger del Concilio, che combattono lo status quo della Chiesa

1966

Dal 1066 al 1969 insegna a Tubinga

1968

Pubblica << Introduzione al cristianesimo >>

1969

Professore di Storia dei dogmi a Ratisbona

1970-1971

Riflette sugli effetti dei movimenti post ’68 e comincia a cambiare le sue idee teologiche

1977

Il 24 marzo Paolo VI lo nomina arcivescovo di Monaco e Frisinga. Il 28 maggio è consacrato vescovo, il 27 giugno è creato cardinale. E’ uno dei  più giobami membri dei conclavi che eleggono papa Luciani e poi Karol Wojtyla

1980

Relatore al Sinodo dei vescovi sulla famiglia

1981

Il 25 novembre è nominato da Giovanni Paolo II Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Presidente della Pontificia Commissione biblica e della Pontificia Commissione teologica internazionale

1986

E’ fautore del ritorno al latino, della linea rigida in morale, della distinzione della Chiesa cattolica dalle altre chiese. I detrattori lo chiamano << PanzerKardinal >>

1992

Presenta il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica

1993

 Entra a fare parte dell’ordine dei cardinali-vesvovi con titolo di Velletri-Segni

1999

Laurea in Giurisprudenza honoris causa alla LUMSA

2000

Il suo documento << Dominus Jesus  >> solleva polemiche

2002

Il 30 novembre viene eletto Decano del collegio cardinalizio

2003

Presenta più volte le dimissioni, sempre respinte da Giovanni Paolo II

2005

Il 19 aprile viene eletto Papa col nome di Benedetto XVI

2013

L’11 febbraio annuncia la decisione di rinunciare al Ministero del Vescovo di Roma, Successore di San Pietro dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00.

2022

31 Dicembre 2022 muore Joseph Ratzinger papa Benedetto XVI

 

 

 

Omelia del cardinale Joseph Ratzinger alla messa «pro eligendo Romano pontifice». (19-4-2005)

 

In quest'ora di grande responsabilità, ascoltiamo con particolare attenzione quanto il Signore ci dice con le sue stesse parole. Dalle tre letture vorrei scegliere solo qualche passo, che ci riguarda direttamente in un momento come questo. La prima lettura offre un ritratto profetico della figura del Messia - un ritratto che riceve tutto il suo significato dal momento in cui Gesù legge questo testo nella sinagoga di Nazareth, quando dice: «Oggi si è adempiuta questa scrittura». Al centro del testo profetico troviamo una parola che - almeno a prima vista - appare contraddittoria. Il Messia, parlando di sé, dice di essere mandato «a promulgare l'anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio».

Ascoltiamo, con gioia, l'annuncio dell'anno di misericordia: la misericordia divina pone un limite al male - ci ha detto il Santo Padre. Gesù Cristo è la misericordia divina in persona: incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di Dio.

Il mandato di Cristo è divenuto mandato nostro attraverso l'unzione sacerdotale; siamo chiamati a promulgare - non solo a parole ma con la vita, e con i segni efficaci dei sacramenti - «l'anno di misericordia del Signore». 

Ma cosa vuoi dire Isaia quando annuncia il  «giorno della vendetta per il nostro Dio»? Gesù, a Nazareth, nella sua lettura del testo profetico, non ha pronunciato queste parole, ha concluso annunciando l'anno della misericordia. È stato forse questo il motivo dello scandalo realizzatesi dopo la sua predica? Non lo sappiamo. In ogni caso il Signore ha offerto il suo commento autentico a queste parole con la morte di croce. «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce», dice San Pietro. E San Paolo scrive ai Galati: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede».

La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendetta e l'anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto.

Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre, per noi.

 

La maturità di Cristo

 

Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella nostra carne «quello che manca ai patimenti di Cristo».

Passiamo alla seconda lettura, alla lettera agli Efesini. Qui si tratta in sostanza di tre cose: in primo luogo, dei ministeri e dei carismi nella Chiesa, come doni del Signore risorto e asceso al cielo; quindi, della maturazione della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, come condizione e contenuto dell'unità nel corpo di Cristo; e, infine, della comune partecipazione alla crescita del corpo di Cristo, cioè della trasformazione del mondo nella comunione col Signore. Soffermiamoci solo su due punti.

Il primo è il cammino verso «la maturità di Cristo»; così dice, un po' semplificando, il testo italiano. Più precisamente dovremmo, secondo il testo greco, parlare della «misura della pienezza di Cristo», cui siamo chiamati ad arrivare per essere realmente adulti nella fede. Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità. E in che cosa consiste l'essere fanciulli nella fede? Risponde San Paolo: significa essere «sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina». Una descrizione molto attuale!

Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all'altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all'individualismo radicale; dall'ateismo a un vago misticismo religioso; dall'agnosticismo al sincretismo e cosi via.

Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull'inganno degli uomini, sull'astuzia che tende a trarre nell'errore. Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo.

Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare «qua e là da qualsiasi vento di dottrina», appare come l'unico atteggiamento all' altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.

Noi, invece, abbiamo un'altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo. «Adulta» non è una fede che segue le onde della moda e l'ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell'amicizia con Cristo. È quest'amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità.

San Paolo ci offre a questo proposito - in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde - una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell'esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come «un cembalo che tintinna».

 

La ricchezza del Vangelo

 

Veniamo ora al Vangelo, dalla cui ricchezza vorrei estrarre solo due piccole osservazioni. Il Signore ci rivolge queste meravigliose parole: «Non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamato amici». Tante volte sentiamo di essere - come è vero - soltanto servi inutili. E, ciò nonostante, il Signore ci chiama amici, ci fa suoi amici, ci dona la sua amicizia. Il Signore definisce l'amicizia in un duplice modo. Non ci sono segreti tra amici: Cristo ci dice tutto quanto ascolta dal Padre; ci dona la sua piena fiducia e, con la fiducia, anche la conoscenza. Ci rivela il suo volto, il suo cuore.

Ci mostra la sua tenerezza per noi, il suo amore appassionato che va fino alla follia della croce. Si affida a noi, ci da il potere di parlare con il suo io: «Questo è il mio corpo...», «io ti assolvo...». Affida il suo corpo, la Chiesa, a noi. Affida alle nostre deboli menti, alle nostre deboli mani la sua verità - il mistero del Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; il mistero del Dio che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito». Ci ha reso suoi amici - e noi come rispondiamo?

 

Volontà ribelle

 

II secondo elemento, con cui Gesù definisce l'amicizia, è la comunione   delle  volontà.

«Idem velle - idem nolle», era anche per i Romani la definizione di amicizia. «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando». L'amicizia con Cristo coincide con quanto esprime la terza domanda del Padre nostro: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra».

Nell'ora del Getsemani Gesù ha trasformato la nostra volontà umana ribelle in volontà conforme e unita alla volontà divina. Ha sofferto tutto il dramma della nostra autonomia - e proprio portando la nostra volontà nelle mani di Dio, ci dona la vera libertà: «Non come voglio io, ma come vuoi tu». In questa comunione delle volontà si realizza la nostra redenzione: essere amici di Gesù, diventare amici di Dio. Quanto più amiamo Gesù, quanto più lo conosciamo, tanto più cresce la nostra vera libertà, cresce la gioia di essere redenti. Grazie Gesù, perla tua amicizia!

L'altro elemento del Vangelo - cui volevo accennare - è il discorso di Gesù sul portare frutto: «Vi ho costituito perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga». Appare qui il dinamismo dell'esistenza del cristiano, dell'apostolo: vi ho costituito perché andiate? Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l'inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell'amicizia con Cristo.

 

Il dono della fede

 

In verità, l'amore, l'amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri - siamo sacerdoti per servire altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L'unica cosa, che rimane in eterno, è l'anima umana, l'uomo creato da Dio per l'eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane - l'amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l'anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio.

 

 Il mondo nuovo

 

Ritorniamo infine, ancora una volta, alla lettera agli Efesini.

La lettera dice - con le parole del Salmo 68 - che Cristo, ascendendo in cielo, «ha distribuito doni agli uomini». Il vincitore distribuisce doni. E questi doni sono apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri.

Il nostro ministero è un dono di Cristo agli uomini, per costruire il suo corpo - il mondo nuovo. Viviamo il nostro ministero cosi, come dono di Cristo agli uomini! Ma in questa ora, soprattutto, preghiamo con insistenza il Signore, perché dopo il grande dono di Papa Giovanni Paolo II, ci doni di nuovo un pastore secondo il suo cuore, un pastore che ci guidi alla conoscenza di Cristo, al suo

amore, alla vera gioia. Amen.

 

Joseph Ratzinger

 

 

Prima omelia pronunciata nella Cappella Sistina da papa Benedetto XVI (20-4-2005)

 

Venerati Fratelli Cardinali, carissimi Fratelli e Sorelle in Cristo, voi tutti, uomini e donne di buona volontà!

 

1. Grazia e pace in abbondanza a tutti voi (cfr 1 Pt 1,2)! Nel mio animo convivono in queste ore due sentimenti contrastanti. Da una parte, un senso di inadeguatezza e di umano turbamento per la responsabilità che ieri mi è stata affidata, quale Successore dell'apostolo Pietro in questa Sede di Roma, nei confronti della Chiesa universale. Dall'altra parte, sento viva in me una profonda gratitudine a Dio, che - come ci fa cantare la liturgia - non abbandona il suo gregge, ma lo conduce attraverso i tempi, sotto la guida di coloro che Egli stesso ha eletto vicari del suo Figlio e ha costituito pastori (cfr Prefazio degli Apostoli I).

 

Carissimi, questa intima riconoscenza per un dono della divina misericordia prevale malgrado tutto nel mio cuore. E considero questo fatto una grazia speciale ottenutami dal mio venerato Predecessore, Giovanni Paolo II. Mi sembra di sentire la sua mano forte che stringe la mia; mi sembra di vedere i suoi occhi sorridenti e di ascoltare le sue parole, rivolte in questo momento particolarmente a me: «Non avere paura!».

 

La morte del Santo Padre Giovanni Paolo II, e i giorni che sono seguiti, sono stati per la Chiesa e per il mondo intero un tempo straordinario di grazia. Il grande dolore per la sua scomparsa e il senso di vuoto che ha lasciato in tutti sono stati temperati dall'azione di Cristo risorto, che si è manifestata durante lunghi giorni nella corale ondata di fede, d'amore e di spirituale solidarietà, culminata nelle sue solenni esequie.

 

Possiamo dirlo: i funerali di Giovanni Paolo II sono stati un'esperienza veramente straordinaria in cui si è in qualche modo percepita la potenza di Dio che, attraverso la sua Chiesa, vuole formare di tutti i popoli una grande famiglia, mediante la forza unificante della Verità e dell'Amore (cfr Lumen gentium, 1). Nell'ora della morte, conformato al suo Maestro e Signore, Giovanni Paolo II ha coronato il suo lungo e fecondo Pontificato, confermando nella fede il popolo cristiano, radunandolo intorno a sé e facendo sentire più unita l'intera famiglia umana.

 

Come non sentirsi sostenuti da questa testimonianza? Come non avvertire l'incoraggiamento che proviene da questo evento di grazia?

 

2. Sorprendendo ogni mia previsione, la Provvidenza divina, attraverso il voto dei venerati Padri Cardinali, mi ha chiamato a succedere a questo grande Papa. Ripenso in queste ore a quanto avvenne nella regione di Cesarea di Filippo, duemila anni or sono. Mi pare di udire le parole di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente», e la solenne affermazione del Signore: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa... A te darò le chiavi del Regno dei cieli» (Mt 16,15-19).

 

Tu sei il Cristo! Tu sei Pietro! Mi sembra di rivivere la stessa scena evangelica; io, successore di Pietro, ripeto con trepidazione le parole trepidanti del pescatore di Galilea e riascolto con intima emozione la rassicurante promessa del divino Maestro. Se è enorme il peso della responsabilità che si riversa sulle mie povere spalle, è certamente smisurata la potenza divina su cui posso contare : «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Scegliendomi quale Vescovo di Roma, il Signore mi ha voluto suo Vicario, mi ha voluto «pietra» su cui tutti possano poggiare con sicurezza. Chiedo a Lui di supplire alla povertà delle mie forze, perché sia coraggioso e fedele Pastore del suo gregge, sempre docile alle ispirazioni del suo Spirito.

 

Mi accingo a intraprendere questo peculiare ministero, il ministero «petrino» al servizio della Chiesa universale, con umile abbandono nelle mani della Provvidenza di Dio. È in primo luogo a Cristo che rinnovo la mia totale e fiduciosa adesione: «In Te, Domine, speravi; non confundar in aeternum!».

 

A voi, Signori Cardinali, con animo grato per la fiducia dimostratami, chiedo di sostenermi con la preghiera e con la costante, attiva e sapiente collaborazione. Chiedo anche a tutti i Fratelli nell'Episcopato di essermi accanto con la preghiera e col consiglio, perché possa essere veramente il Servus servorum Dei.

Come Pietro e gli altri Apostoli costituirono per volere del Signore un unico Collegio apostolico, allo stesso modo il successore di Pietro e i Vescovi, successori degli Apostoli, - il Concilio lo ha con forza ribadito (cfr Lumen gentium, 22) -, devono essere tra loro strettamente uniti.

Questa comunione collegiale, pur nella diversità dei ruoli e delle funzioni del Romano Pontefice e dei Vescovi, è a servizio della Chiesa e dell'unità nella fede, dalla quale dipende in notevole misura l'efficacia dell'azione evangelizzatrice nel mondo contemporaneo. Su questo sentiero, pertanto, sul quale hanno avanzato i miei venerati predecessori, intendo proseguire anch'io, unicamente preoccupato di proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo.

 

3. Mi sta dinanzi, in particolare, la testimonianza del Papa Giovanni Paolo II. Egli lascia una Chiesa più coraggiosa, più libera, più giovane. Una Chiesa che, secondo il suo insegnamento ed esempio, guarda con serenità al passato e non ha paura del futuro. Col Grande Giubileo essa si è introdotta nel nuovo millennio recando nelle mani il Vangelo, applicato al mondo attuale attraverso l'autorevole rilettura del Concilio Vaticano II. Giustamente il Papa Giovanni Paolo II ha indicato il Concilio quale «bussola» con cui orientarsi nel vasto oceano del terzo millennio (cfr Lett. ap. Novo millennio ineunte, 57-58). Anche nel suo Testamento spirituale egli annotava: «Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito» (17.III.2000).

 

Anch'io, pertanto, nell'accingermi al servizio che è proprio del successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell'impegno di attuazione del Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei predecessori e in fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa. Ricorrerà proprio quest'anno il 40° anniversario della conclusione dell'Assise conciliare (8 dicembre 1965). Col passare degli anni, i documenti conciliari non hanno perso di attualità; i loro insegnamenti si rivelano anzi particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata.

 

4. In maniera quanto mai significativa, il mio Pontificato inizia mentre la Chiesa sta vivendo lo speciale anno dedicato all'Eucaristia. Come non cogliere in questa provvidenziale coincidenza un elemento che deve caratterizzare il ministero al quale sono stato chiamato? L'Eucaristia, cuore della vita cristiana e sorgente della missione evangelizzatrice della Chiesa, non può non costituire il centro permanente e la fonte del servizio petrino che mi è stato affidato.

 

L’Eucaristia rende costantemente presente il Cristo risorto, che a noi continua a donarsi, chiamandoci a partecipare alla mensa del suo Corpo e del suo Sangue. Dalla piena comunione con Lui scaturisce ogni altro elemento della vita della Chiesa, in primo luogo la comunione tra tutti i fedeli, l'impegno di annuncio e di testimonianza del Vangelo, l'ardore della carità verso tutti, specialmente verso i poveri e i piccoli.

 

In questo anno, pertanto, dovrà essere celebrata con particolare rilievo la solennità del Corpus Domini. L’Eucaristia sarà poi al centro, in agosto, della Giornata mondiale della gioventù a Colonia e, in ottobre, dell'Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi, che si svolgerà sul tema: «L'Eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa». A tutti chiedo di intensificare nei prossimi mesi l'amore e la devozione a Gesù Eucaristia e di esprimere in modo coraggioso e chiaro la fede nella presenza reale del Signore, soprattutto mediante la solennità e la correttezza delle celebrazioni.

 

Lo chiedo in modo speciale ai sacerdoti, ai quali penso in questo momento con grande affetto. Il sacerdozio ministeriale è nato nel cenacolo, insieme con l'Eucaristia, come tante volte ha sottolineato il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II.

«L'esistenza sacerdotale deve avere a speciale titolo una forma eucaristica», ha scritto nella sua ultima lettera per il giovedì santo (n. 1). A tale scopo contribuisce innanzitutto la devota celebrazione quotidiana della santa Messa, centro della vita e della, missione di ogni sacerdote.

 

5. Alimentati e sostenuti dall'Eucaristia, i cattolici non possono non sentirsi stimolati a tendere a quella piena unità che Cristo ha ardentemente auspicato nel cenacolo. Di questo supremo anelito del Maestro divino il successore di Pietro sa di doversi fare carico in modo del tutto particolare. A lui infatti è stato affidato il compito di confermare i fratelli (cfr Lc 22,32).

 

Con piena consapevolezza, pertanto, all'inizio del suo ministero nella Chiesa di Roma che Pietro ha irrorato col suo sangue, l'attuale suo successore si assume come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere. Egli è cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione ulteriore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell'ecumenismo.

 

Il dialogo teologico è necessario, l'approfondimento delle motivazioni storiche di scelte avvenute nel passato è pure indispensabile. Ma ciò che urge maggiormente è quella «purificazione della memoria», tante volte evocata da Giovanni Paolo II, che sola può disporre gli animi ad accogliere la piena verità di Cristo. È davanti a Lui, supremo giudice di ogni essere vivente, che ciascuno di noi deve porsi, nella consapevolezza di dovere un giorno a Lui rendere conto di quanto ha fatto o non ha fatto nei confronti del grande bene della piena e visibile unità di tutti i suoi discepoli.

 

L'attuale successore di Pietro si lascia interpellare in prima persona da questa domanda ed è disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell'ecumenismo. Sulla scia dei suoi predecessori, egli è pienamente determinato a coltivare ogni iniziativa che possa apparire opportuna per promuovere i contatti e l'intesa con i rappresentanti delle diverse Chiese e comunità ecclesiali. Ad essi, anzi, invia anche in questa occasione il più cordiale saluto in Cristo, unico Signore di tutti.

 

6. Torno con la memoria, in questo momento, all'indimenticabile esperienza vissuta da noi tutti in occasione della morte e dei funerali del compianto Giovanni Paolo II. Attorno alle sue spoglie mortali, adagiate sulla nuda terra, si sono raccolti i capi delle nazioni, persone d'ogni ceto sociale, e specialmente giovani, in un indimenticabile abbraccio di affetto e di ammirazione. A lui ha guardato con fiducia il mondo intero. È sembrato a molti che quella intensa partecipazione, amplificata sino ai confini del pianeta dai mezzi di comunicazione sociale, fosse come una corale richiesta di aiuto rivolta al Papa da parte dell'odierna umanità che, turbata da incertezze e timori, si interroga sul suo futuro.

 

La Chiesa di oggi deve ravvivare in se stessa la consapevolezza del compito di ripropone al mondo la voce di Colui che ha detto: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). Nell'intraprendere il suo ministero il nuovo Papa sa che suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo.

 

Con questa consapevolezza mi rivolgo a tutti, anche a coloro che seguono altre religioni o che semplicemente cercano una risposta alle domande fondamentali dell'esistenza e ancora non l'hanno trovata. A tutti mi rivolgo con semplicità e affetto, per assicurare che la Chiesa vuole continuare a tessere con loro un dialogo aperto e sincero, alla ricerca del vero bene dell'uomo e della società.

 

Invoco da Dio l'unità e la pace per la famiglia umana e dichiaro la disponibilità di tutti i cattolici a cooperare per un autentico sviluppo sociale, rispettoso della dignità d'ogni essere umano.

 

Non risparmierò sforzi e dedizione per proseguire il promettente dialogo avviato dai miei venerati predecessori con le diverse civiltà, perché dalla reciproca comprensione scaturiscano le condizioni di un futuro migliore per tutti.

 

Penso in particolare ai giovani. A loro, interlocutori privilegiati del Papa Giovanni Paolo II, va il mio affettuoso abbraccio nell'attesa, se piacerà a Dio, di incontrarli a Colonia in occasione della prossima Giornata mondiale della gioventù. Con voi, cari giovani, futuro e speranza della Chiesa e dell'umanità, continuerò a dialogare, ascoltando le vostre attese nell'intento di aiutarvi a incontrare sempre più in profondità il Cristo vivente, l'eternamente giovane.

 

7. Mane nobiscum, Domine! Resta con noi Signore! Quest'invocazione, che forma il tema dominante della Lettera apostolica di Giovanni Paolo II per l'anno dell'Eucaristia, è la preghiera che sgorga spontanea dal mio cuore, mentre mi accingo a iniziare il ministero a cui Cristo mi ha chiamato. Come Pietro, anch'io rinnovo a Lui la mia incondizionata promessa di fedeltà. Lui solo intendo servire dedicandomi totalmente al servizio della sua Chiesa.

 

A sostegno di questa promessa invoco la materna intercessione di Maria Santissima, nelle cui mani pongo il presente e il futuro della mia persona e della Chiesa. Intervengano con la loro intercessione anche i santi apostoli Pietro e Paolo e tutti i santi.

 

Con questi sentimenti imparto a voi, venerati fratelli cardinali, a coloro che partecipano a questo rito e a quanti sono in ascolto mediante la televisione e la radio una speciale, affettuosa Benedizione.

 

Benedetto XVI

 

L'OMELIA DI INIZIO DEL MINISTERO PETRINO (Piazza San Pietro 24.4.2005)

"Signori Cardinali, venerati Fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, distinte Autorità e Membri del Corpo diplomatico, carissimi Fratelli e Sorelle!".

"Per ben tre volte, in questi giorni così intensi, il canto delle litanie dei santi ci ha accompagnato: durante i funerali del nostro Santo Padre Giovanni Paolo II; in occasione dell'ingresso dei Cardinali in Conclave, ed anche oggi, quando le abbiamo nuovamente cantate con l'invocazione: 'Tu illum adiuva' - sostieni il nuovo successore di San Pietro. Ogni volta in un modo del tutto particolare ho sentito questo canto orante come una grande consolazione. Quanto ci siamo sentiti abbandonati dopo la dipartita di Giovanni Paolo II!".

"Il Papa che per ben 26 anni è stato nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo tempo. Egli varcava la soglia verso l'altra vita - entrando nel mistero di Dio. Ma non compiva questo passo da solo. Chi crede, non è mai solo - non lo è nella vita e neanche nella morte. In quel momento noi abbiamo potuto invocare i santi di tutti i secoli - i suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che sarebbero stati il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato nell'aldilà, fino alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo era atteso. Ora sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente a casa sua".

"Di nuovo, siamo stati consolati compiendo il solenne ingresso in conclave, per eleggere colui che il Signore aveva scelto. Come potevamo riconoscere il suo nome? Come potevano 115 Vescovi, provenienti da tutte le culture ed i paesi, trovare colui al quale il Signore desiderava conferire la missione di legare e sciogliere? Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo che non siamo soli, che siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. Ed ora, in questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l'intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E la Vostra preghiera, cari amici, la Vostra indulgenza, il Vostro amore, la Vostra fede e la Vostra speranza mi accompagnano. Infatti alla comunità dei santi non appartengono solo le grandi figure che ci hanno preceduto e di cui conosciamo i nomi".

"Noi tutti siamo la comunità dei santi, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue di Cristo, per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e renderci simili a se medesimo. Sì, la Chiesa è viva - questa è la meravigliosa esperienza di questi giorni. Proprio nei tristi giorni della malattia e della morte del Papa questo si è manifestato in modo meraviglioso ai nostri occhi: che la Chiesa è viva. E la Chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro. La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi. La Chiesa è viva - essa è viva, perché Cristo è vivo, perché egli è veramente risorto. Nel dolore, presente sul volto del Santo Padre nei giorni di Pasqua, abbiamo contemplato il mistero della passione di Cristo ed insieme toccato le sue ferite. Ma in tutti questi giorni abbiamo anche potuto, in un senso profondo, toccare il Risorto. Ci è stato dato di sperimentare la gioia che egli ha promesso, dopo un breve tempo di oscurità, come frutto della sua resurrezione".

"La Chiesa è viva - così saluto con grande gioia e gratitudine voi tutti, che siete qui radunati, venerati Confratelli Cardinali e Vescovi, carissimi sacerdoti, diaconi, operatori pastorali, catechisti. Saluto voi, religiosi e religiose, testimoni della trasfigurante presenza di Dio. Saluto voi, fedeli laici, immersi nel grande spazio della costruzione del Regno di Dio che si espande nel mondo, in ogni espressione della vita. Il discorso si fa pieno di affetto anche nel saluto che rivolgo a tutti coloro che, rinati nel sacramento del Battesimo, non sono ancora in piena comunione con noi; ed a voi fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di Dio. Il mio pensiero, infine - quasi come un'onda che si espande - va a tutti gli uomini del nostro tempo, credenti e non credenti".

"Cari amici! In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo. Qualche tratto di ciò che io considero mio compito, ho già potuto esporlo nel mio messaggio di mercoledì 20 aprile; non mancheranno altre occasioni per farlo. Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due segni con cui viene rappresentata liturgicamente l'assunzione del Ministero Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò che viene proclamato nelle letture di oggi".

"Il primo segno è il Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può essere considerato come un'immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. E questa volontà non è per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che Dio vuole, conoscere qual è la via della vita - questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio".

"Questa è anche la nostra gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica - magari in modo anche doloroso - e così ci conduce a noi stessi. In tal modo, non serviamo soltanto Lui ma la salvezza di tutto il mondo, di tutta la storia. In realtà il simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d'agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per i Padri della Chiesa un'immagine del mistero di Cristo e della Chiesa. L'umanità - noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare l'umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce. La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi - Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore. Il Pallio dice innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci invita a portarci l'un l'altro. Così il Pallio diventa il simbolo della missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo".

"La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell'abbandono, della solitudine, dell'amore distrutto. Vi è il deserto dell'oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell'uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell'edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione".

"La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l'amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza. Il simbolo dell'agnello ha ancora un altro aspetto. Nell'Antico Oriente era usanza che i re designassero se stessi come pastori del loro popolo. Questa era un'immagine del loro potere, un'immagine cinica: i popoli erano per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a suo piacimento. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi".

"Proprio così Egli si rivela come il vero pastore: 'Io sono il buon pastore. Io offro la mia vita per le pecore, dice Gesù di se stesso (Gv 10, 14s). Non è il potere che redime, ma l'amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell'umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall'impazienza degli uomini".

"Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova. 'Pasci le mie pecore, dice Cristo a Pietro, ed a me, in questo momento. Pascere vuol dire amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento. Cari amici - in questo momento io posso dire soltanto: pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge - voi, la Santa Chiesa, ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri, perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli altri".

"Il secondo segno, con cui viene rappresentato nella liturgia odierna l'insediamento nel Ministero Petrino, è la consegna dell'anello del pescatore. La chiamata di Pietro ad essere pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito alla narrazione di una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le reti senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto. Egli comanda loro di tornare a pescare ancora una volta ed ecco che la rete diviene così piena che essi non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci: 'E sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò' (Gv 21, 11). Questo racconto, al termine del cammino terreno di Gesù con i suoi discepoli, corrisponde ad un racconto dell'inizio: anche allora i discepoli non avevano pescato nulla durante tutta la notte; anche allora Gesù aveva invitato Simone ad andare al largo ancora una volta. E Simone, che ancora non era chiamato Pietro, diede la mirabile risposta: Maestro, sulla tua parola getterò le reti! Ed ecco il conferimento della missione: 'Non temere! D'ora in poi sarai pescatore di uomini' (Lc 5, 1-11)".

"Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo - a Dio, a Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento molto particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce, creato per l'acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all'uomo. Ma nella missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita".

"È proprio così - nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. È proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell'evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l'amicizia con lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo".

"Vorrei qui rilevare ancora una cosa: sia nell'immagine del pastore che in quella del pescatore emerge in modo molto esplicito la chiamata all'unità. 'Ho ancora altre pecore, che non sono di questo ovile; anch'esse io devo condurre ed ascolteranno la mia voce e diverranno un solo gregge e un solo pastore' (Gv 10, 16), dice Gesù al termine del discorso del buon pastore. E il racconto dei 153 grossi pesci termina con la gioiosa constatazione: 'sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò' (Gv 21, 11). Ahimè, amato Signore, essa ora si è strappata! vorremmo dire addolorati. Ma no - non dobbiamo essere tristi! Rallegriamoci per la tua promessa, che non delude, e facciamo tutto il possibile per percorrere la via verso l'unità, che tu hai promesso. Facciamo memoria di essa nella preghiera al Signore, come mendicanti: sì, Signore, ricordati di quanto hai promesso. Fa' che siamo un solo pastore ed un solo gregge! Non permettere che la tua rete si strappi ed aiutaci ad essere servitori dell'unità!".

"In questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: 'Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!' Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell'arbitrio. Ma non avrebbe portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell'uomo, alla sua dignità, all'edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani".

"Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui - paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell'angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla - assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest'amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest'amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest'amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall'esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo - e troverete la vera vita. Amen".

Benedetto XVI