Cari
fratelli e sorelle,
ho
accolto molto volentieri l’invito a introdurre con una mia riflessione questo
nostro Convegno Diocesano, anzitutto perché ciò mi dà la possibilità di incontrarvi,
di avere un contatto diretto con voi, e poi anche perché posso aiutarvi ad
approfondire il senso e lo scopo del cammino pastorale che la Chiesa di Roma
sta percorrendo.
Saluto con affetto ciascuno di voi, Vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e
religiose, e in particolare voi laici e famiglie che assumete consapevolmente
quei compiti di impegno e testimonianza cristiana che hanno la loro radice
nel sacramento del battesimo e, per coloro che sono sposati, in quello del
matrimonio. Ringrazio di cuore il Cardinale Vicario e i coniugi Luca e
Adriana Pasquale per le parole che mi hanno rivolto a nome di voi tutti.
Questo Convegno, e l’anno pastorale di cui esso fornirà le linee guida,
costituiscono una nuova tappa del percorso che la Chiesa di Roma ha iniziato,
sulla base del Sinodo diocesano, con la Missione cittadina voluta dal nostro
tanto amato Papa Giovanni Paolo II, in preparazione al Grande Giubileo del
2000. In quella Missione tutte le realtà della nostra Diocesi - parrocchie,
comunità religiose, associazioni e movimenti - si sono mobilitate, non solo
per una missione al popolo di Roma, ma per essere esse stesse “popolo di Dio
in missione”, mettendo in pratica la felice espressione di Giovanni Paolo II
“parrocchia, cerca te stessa e trova te stessa fuori di te stessa”: nei
luoghi cioè nei quali la gente vive. Così, nel corso della Missione
cittadina, molte migliaia di cristiani di Roma, in gran parte laici, si sono
fatti missionari e hanno portato la parola della fede dapprima nelle famiglie
dei vari quartieri della città e poi nei diversi luoghi di lavoro, negli
ospedali, nelle scuole e nelle università, negli spazi della cultura e del
tempo libero.
Dopo l’Anno Santo, il mio amato Predecessore vi ha chiesto di non
interrompere questo cammino e di non disperdere le energie apostoliche
suscitate e i frutti di grazia raccolti. Perciò, a partire dal 2001, il
fondamentale indirizzo pastorale della Diocesi è stato quello di dare forma
permanente alla missione, caratterizzando in senso più decisamente
missionario la vita e le attività delle parrocchie e di ogni altra realtà
ecclesiale. Voglio dirvi anzitutto che intendo confermare pienamente questa
scelta: essa infatti si rivela sempre più necessaria e senza alternative, in
un contesto sociale e culturale nel quale sono all’opera forze molteplici che
tendono ad allontanarci dalla fede e dalla vita cristiana.
Da ormai due anni l’impegno missionario della Chiesa di Roma si è concentrato
soprattutto sulla famiglia, non solo perché questa fondamentale realtà umana
oggi è sottoposta a molteplici difficoltà e minacce e quindi ha particolare
bisogno di essere evangelizzata e concretamente sostenuta, ma anche perché le
famiglie cristiane costituiscono una risorsa decisiva per l’educazione alla
fede, l’edificazione della Chiesa come comunione e la sua capacità di
presenza missionaria nelle più diverse situazioni di vita, oltre che per
fermentare in senso cristiano la cultura diffusa e le strutture sociali. Su
queste linee proseguiremo anche nel prossimo anno pastorale e perciò il tema
del nostro Convegno è “Famiglia e comunità cristiana: formazione della
persona e trasmissione della fede”.
Il presupposto dal quale occorre partire, per poter comprendere la missione
della famiglia nella comunità cristiana e i suoi compiti di formazione della
persona e trasmissione della fede, rimane sempre quello del significato che
il matrimonio e la famiglia rivestono nel disegno di Dio, creatore e
salvatore. Questo sarà dunque il nocciolo della mia riflessione di questa sera,
richiamandomi all’insegnamento dell’Esortazione Apostolica Familiaris consortio (Parte
seconda, nn. 12-16).
Il fondamento antropologico della
famiglia
Matrimonio e famiglia non sono in realtà una costruzione sociologica casuale,
frutto di particolari situazioni storiche ed economiche. Al contrario, la
questione del giusto rapporto tra l’uomo e la donna affonda le sue radici
dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta
soltanto a partire da qui. Non può essere separata cioè dalla domanda antica
e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? cosa è l’uomo? E questa
domanda, a sua volta, non può essere separata dall’interrogativo su Dio:
esiste Dio? e chi è Dio? qual è veramente il suo volto? La risposta della
Bibbia a questi due quesiti è unitaria e consequenziale: l’uomo è creato ad
immagine di Dio, e Dio stesso è amore. Perciò la vocazione all’amore è ciò
che fa dell’uomo l’autentica immagine di Dio: egli diventa simile a Dio nella
misura in cui diventa qualcuno che ama.
Da questa fondamentale connessione tra Dio e l’uomo ne consegue un’altra: la
connessione indissolubile tra spirito e corpo: l’uomo è infatti anima che si
esprime nel corpo e corpo che è vivificato da uno spirito immortale. Anche il
corpo dell’uomo e della donna ha dunque, per così dire, un carattere
teologico, non è semplicemente corpo, e ciò che è biologico nell’uomo non è
soltanto biologico, ma è espressione e compimento della nostra umanità.
Parimenti, la sessualità umana non sta accanto al nostro essere persona, ma
appartiene ad esso. Solo quando la sessualità si è integrata nella persona,
riesce a dare un senso a se stessa.
Così, dalle due connessioni, dell’uomo con Dio e nell’uomo del corpo con lo
spirito, ne scaturisce una terza: quella tra persona e istituzione. La
totalità dell’uomo include infatti la dimensione del tempo, e il “sì”
dell’uomo è un andare oltre il momento presente: nella sua interezza, il “sì”
significa “sempre”, costituisce lo spazio della fedeltà. Solo all’interno di
esso può crescere quella fede che dà un futuro e consente che i figli, frutto
dell’amore, credano nell’uomo. La libertà del “sì” si rivela dunque libertà
capace di assumere ciò che è definitivo: la più grande espressione della
libertà non è allora la ricerca del piacere, senza mai giungere a una vera
decisione; è invece la capacità di decidersi per un dono definitivo, nel
quale la libertà, donandosi, ritrova pienamente se stessa.
In concreto, il “sì” personale e reciproco dell’uomo e della donna dischiude
lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e al tempo
stesso è destinato al dono di una nuova vita. Perciò questo “sì” personale
non può non essere un “sì” anche pubblicamente responsabile, con il quale i
coniugi assumono la responsabilità pubblica della fedeltà. Nessuno di noi
infatti appartiene esclusivamente a se stesso: pertanto ciascuno è chiamato
ad assumere nel più intimo di sé la propria responsabilità pubblica. Il
matrimonio come istituzione non è quindi una indebita ingerenza della società
o dell’autorità, l’imposizione di una forma dal di fuori; è invece esigenza
intrinseca del patto dell’amore coniugale.
Le varie forme odierne di dissoluzione del matrimonio, come le unioni libere
e il “matrimonio di prova”, fino allo pseudo-matrimonio
tra persone dello stesso sesso, sono invece espressioni di una libertà
anarchica, che si fa passare a torto per vera liberazione dell’uomo. Una tale
pseudo-libertà si fonda su una banalizzazione del
corpo, che inevitabilmente include la banalizzazione dell’uomo. Il suo
presupposto è che l’uomo può fare di sé ciò che vuole: il suo corpo diventa
così una cosa secondaria dal punto di vista umano, da utilizzare come si
vuole. Il libertinismo, che si fa passare per
scoperta del corpo e del suo valore, è in realtà un dualismo che rende
spregevole il corpo, collocandolo per così dire fuori dall’autentico essere e
dignità della persona.
Matrimonio e famiglia nella storia
della salvezza
La verità del matrimonio e della famiglia, che affonda le sue radici nella verità
dell’uomo, ha trovato attuazione nella storia della salvezza, al cui centro
sta la parola: “Dio ama il suo popolo”. La rivelazione biblica, infatti, è
anzitutto espressione di una storia d’amore, la storia dell’alleanza di Dio
con gli uomini: perciò la storia dell’amore e dell’unione di un uomo ed una
donna nell’alleanza del matrimonio ha potuto essere assunta da Dio quale
simbolo della storia della salvezza. Il fatto inesprimibile, il mistero
dell’amore di Dio per gli uomini, riceve la sua forma linguistica dal
vocabolario del matrimonio e della famiglia, in positivo e in negativo:
l’accostarsi di Dio al suo popolo viene presentato infatti nel linguaggio
dell’amore sponsale, mentre l’infedeltà di Israele, la sua idolatria, è
designata come adulterio e prostituzione.
Nel Nuovo Testamento Dio radicalizza il suo amore
fino a divenire Egli stesso, nel suo Figlio, carne della nostra carne, vero
uomo. In questo modo l’unione di Dio con l’uomo ha assunto la sua forma
suprema, irreversibile e definitiva. E così viene tracciata anche per l’amore
umano la sua forma definitiva, quel “sì” reciproco che non può essere
revocato: essa non aliena l’uomo, ma lo libera dalle alienazioni della storia
per riportarlo alla verità della creazione. La sacramentalità
che il matrimonio assume in Cristo significa dunque che il dono della
creazione è stato elevato a grazia di redenzione. La grazia di Cristo non si
aggiunge dal di fuori alla natura dell’uomo, non le fa violenza, ma la libera
e la restaura, proprio nell’innalzarla al di là dei suoi propri confini. E
come l’incarnazione del Figlio di Dio rivela il suo vero significato nella
croce, così l’amore umano autentico è donazione di sé, non può esistere se
vuole sottrarsi alla croce.
Cari fratelli e sorelle, questo legame profondo tra Dio e l’uomo, tra l’amore
di Dio e l’amore umano, trova conferma anche in alcune tendenze e sviluppi
negativi, di cui tutti avvertiamo il peso. Lo svilimento dell’amore umano, la
soppressione dell’autentica capacità di amare si rivela infatti, nel nostro
tempo, l’arma più adatta e più efficace per scacciare Dio dall’uomo, per
allontanare Dio dallo sguardo e dal cuore dell’uomo. Analogamente, la volontà
di “liberare” la natura da Dio conduce a perdere di vista la realtà stessa
della natura, compresa la natura dell’uomo, riducendola a un insieme di
funzioni, di cui disporre a piacimento per costruire un presunto mondo
migliore e una presunta umanità più felice.
I figli
Anche nella generazione dei figli il matrimonio riflette il suo modello divino,
l’amore di Dio per l’uomo. Nell’uomo e nella donna la paternità e la
maternità, come il corpo e come l’amore, non si lasciano circoscrivere nel
biologico: la vita viene data interamente solo quando con la nascita vengono
dati anche l’amore e il senso che rendono possibile dire sì a questa vita.
Proprio da qui diventa del tutto chiaro quanto sia contrario all’amore umano,
alla vocazione profonda dell’uomo e della donna, chiudere sistematicamente la
propria unione al dono della vita, e ancora più sopprimere o manomettere la
vita che nasce.
Nessun uomo e nessuna donna, però, da soli e unicamente con le proprie forze,
possono dare ai figli in maniera adeguata l’amore e il senso della vita. Per
poter infatti dire a qualcuno “la tua vita è buona, per quanto io non conosca
il tuo futuro”, occorrono un’autorità e una credibilità superiori a quello
che l’individuo può darsi da solo. Il cristiano sa che questa autorità è
conferita a quella famiglia più vasta che Dio, attraverso il Figlio suo Gesù
Cristo e il dono dello Spirito Santo, ha creato nella storia degli uomini,
cioè alla Chiesa. Egli riconosce qui all’opera quell’amore
eterno e indistruttibile che assicura alla vita di ciascuno di noi un senso
permanente. Per questo motivo l’edificazione di ogni singola famiglia
cristiana si colloca nel contesto della più grande famiglia della Chiesa, che
la sostiene e la porta con sé. E reciprocamente la Chiesa viene edificata
dalle famiglia, “piccole Chiese domestiche”, come le ha chiamate il Concilio
Vaticano II (Lumen gentium, 11; Apostolicam
actuositatem, 11), riscoprendo un’antica
espressione patristica (San Giovanni Crisostomo, In Genesim
serm. VI,2; VII,1). Nel medesimo senso la Familiaris consortio afferma
che “Il matrimonio cristiano… è il luogo naturale nel quale si compie
l’inserimento della persona umana nella grande famiglia della Chiesa” (n.
14).
La famiglia e la Chiesa
Da tutto ciò scaturisce una conseguenza evidente: la famiglia e la Chiesa, in
concreto le parrocchie e le altre forme di comunità ecclesiale, sono chiamate
alla più stretta collaborazione per quel compito fondamentale che è
costituito, inseparabilmente, dalla formazione della persona e dalla
trasmissione della fede. Sappiamo bene che per un’autentica opera educativa
non basta una teoria giusta o una dottrina da comunicare. C’è bisogno di
qualcosa di molto più grande e umano, di quella vicinanza, quotidianamente
vissuta, che è propria dell’amore e che trova il suo spazio più propizio
anzitutto nella comunità familiare, ma poi anche in una parrocchia, o
movimento o associazione ecclesiale, in cui si incontrino persone che si
prendono cura dei fratelli, in particolare dei bambini e dei giovani, ma
anche degli adulti, degli anziani, dei malati, delle stesse famiglie, perché,
in Cristo, vogliono loro bene. Il grande Patrono degli educatori, San
Giovanni Bosco, ricordava ai suoi figli spirituali che “l’educazione è cosa
del cuore e che Dio solo ne è il padrone” (Epistolario, 4,209).
Centrale nell’opera educativa, e specialmente nell’educazione alla fede, che
è il vertice della formazione della persona e il suo orizzonte più adeguato,
è in concreto la figura del testimone: egli diventa punto di riferimento
proprio in quanto sa rendere ragione della speranza che sostiene la sua vita
(cfr 1 Pt 3,15), è personalmente
coinvolto con la verità che propone. Il testimone, d’altra parte, non rimanda
mai a se stesso, ma a qualcosa, o meglio a Qualcuno più grande di lui, che ha
incontrato e di cui ha sperimentato l’affidabile bontà. Così ogni educatore e
testimone trova il suo modello insuperabile in Gesù Cristo, il grande
testimone del Padre, che non diceva nulla da se stesso, ma parlava così come
il Padre gli aveva insegnato (cfr Gv 8,28).
Questo è il motivo per il quale alla base della formazione della persona
cristiana e della trasmissione della fede sta necessariamente la preghiera,
l’amicizia con Cristo e la contemplazione in Lui del volto del Padre. E la
stessa cosa vale, evidentemente, per tutto il nostro impegno missionario, in
particolare per la pastorale familiare: la Famiglia di Nazareth sia dunque,
per le nostre famiglie e per le nostre comunità, oggetto di costante e
fiduciosa preghiera, oltre che modello di vita.
Cari fratelli e sorelle, e specialmente voi, cari sacerdoti, conosco la
generosità e la dedizione con cui servite il Signore e la Chiesa. Il vostro
lavoro quotidiano per la formazione alla fede delle nuove generazioni, in
stretta connessione con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, come anche
per la preparazione al matrimonio e per l’accompagnamento delle famiglie nel
loro spesso non facile cammino, in particolare nel grande compito
dell’educazione dei figli, è la strada fondamentale per rigenerare sempre di
nuovo la Chiesa e anche per vivificare il tessuto sociale di questa nostra
amata città di Roma.
La minaccia del relativismo
Continuate dunque, senza lasciarvi scoraggiare dalle difficoltà che
incontrate. Il rapporto educativo è per sua natura una cosa delicata: chiama
in causa infatti la libertà dell’altro che, per quanto dolcemente, viene pur
sempre provocata a una decisione. Né i genitori, né i sacerdoti o i
catechisti, né gli altri educatori possono sostituirsi alla libertà del
fanciullo, del ragazzo o del giovane a cui si rivolgono. E specialmente la
proposta cristiana interpella a fondo la libertà, chiamandola alla fede e
alla conversione. Oggi un ostacolo particolarmente insidioso all’opera
educativa è costituito dalla massiccia presenza, nella nostra società e
cultura, di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come definitivo,
lascia come ultima misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto
l’apparenza della libertà diventa per ciascuno una prigione. Dentro a un tale
orizzonte relativistico non è possibile, quindi, una vera educazione: senza
la luce della verità; prima o poi ogni persona è infatti condannata a
dubitare della bontà della sua stessa vita e dei rapporti che la
costituiscono, della validità del suo impegno per costruire con gli altri
qualcosa in comune.
E’ chiaro dunque che non soltanto dobbiamo cercare di superare il relativismo
nel nostro lavoro di formazione delle persone, ma siamo anche chiamati a
contrastare il suo predominio nella società e nella cultura. E’ molto
importante perciò, accanto alla parola della Chiesa, la testimonianza e
l’impegno pubblico delle famiglie cristiane, specialmente per riaffermare
l’intangibilità della vita umana dal concepimento fino al suo termine
naturale, il valore unico e insostituibile della famiglia fondata sul
matrimonio e la necessità di provvedimenti legislativi e amministrativi che
sostengano le famiglie nel compito di generare ed educare i figli, compito
essenziale per il nostro comune futuro. Anche per questo impegno vi dico un
grazie cordiale.
Sacerdozio e vita consacrata
Un ultimo messaggio che vorrei affidarvi riguarda la cura delle vocazioni al
sacerdozio e alla vita consacrata: sappiamo tutti quanto la Chiesa ne abbia
bisogno! Perché queste vocazioni nascano e giungano a maturazione, perché le
persone chiamate si mantengano sempre degne della loro vocazione, è decisiva
anzitutto la preghiera, che non deve mai mancare in ciascuna famiglia e
comunità cristiana. Ma è anche fondamentale la testimonianza di vita dei
sacerdoti, dei religiosi e delle religiose, la gioia che essi esprimono per
essere stati chiamati dal Signore. Ed è ugualmente essenziale l’esempio che i
figli ricevono all’interno della propria famiglia e la convinzione delle
famiglie stesse che, anche per loro, la vocazione dei propri figli è un
grande dono del Signore. La scelta della verginità per amore di Dio e dei
fratelli, che è richiesta per il sacerdozio e la vita consacrata, sta infatti
insieme con la valorizzazione del matrimonio cristiano: l’uno e l’altra, in
due maniere differenti e complementari, rendono in qualche modo visibile il mistero
dell’alleanza tra Dio e il suo popolo.
Cari fratelli e sorelle, vi affido queste riflessioni come contributo al
vostro lavoro nelle serate del Convegno e poi durante il prossimo anno
pastorale. Chiedo al Signore di darvi coraggio ed entusiasmo, perché questa
nostra Chiesa di Roma, ciascuna parrocchia, comunità religiosa, associazione
o movimento partecipi più intensamente alla gioia e alle fatiche della
missione e così ogni famiglia e l’intera comunità cristiana riscopra
nell’amore del Signore la chiave che apre la porta dei cuori e che rende
possibile una vera educazione alla fede e formazione delle persone. Il mio
affetto e la mia benedizione vi accompagnano oggi e per il futuro.
06/06/2005
Sua
Santità Benedetto XVI
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