1. Domenica delle Palme
16 marzo 2008
Cari fratelli e sorelle, anno dopo anno il brano evangelico della Domenica delle
Palme ci racconta l’ingresso di Gesù in Gerusalemme. Insieme ai suoi
discepoli e ad una schiera crescente di pellegrini, Egli era salito dalla
pianura della Galilea alla Città Santa. Come gradini di questa salita, gli
evangelisti ci hanno trasmesso tre annunzi di Gesù relativi alla sua
Passione, accennando con ciò allo stesso tempo all’ascesa interiore che si
stava compiendo in questo pellegrinaggio. Gesù è in cammino verso il tempio –
verso il luogo, dove Dio, come dice il Deuteronomio, aveva voluto "fissare
la sede" del suo nome (cfr 12, 11; 14, 23). Il Dio che ha creato cielo e
terra si è dato un nome, si è reso invocabile, anzi, si è reso quasi
toccabile da parte degli uomini. Nessun luogo può contenerLo e tuttavia, o
proprio per questo, Egli stesso si dà un luogo e un nome, affinché Lui
personalmente, il vero Dio, possa esservi venerato come il Dio in mezzo a
noi. Dal racconto su Gesù dodicenne sappiamo che Egli ha amato il tempio come
la casa del Padre suo, come la sua casa paterna. Ora viene di nuovo a questo
tempio, ma il suo percorso va oltre: l’ultima meta della sua salita è la
Croce. È la salita che la Lettera agli Ebrei descrive come la salita verso la
tenda non fatta da mani d’uomo, fino al cospetto di Dio. L’ascesa fino al
cospetto di Dio passa attraverso la Croce. È l’ascesa verso "l’amore
sino alla fine" (cfr Gv 13, 1), che è il vero monte di Dio, il
definitivo luogo del contatto tra Dio e l’uomo.
Durante l’ingresso a Gerusalemme, la gente rende omaggio a Gesù come figlio
di Davide con le parole del Salmo 118 [117] dei pellegrini: "Osanna al
figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel
più alto dei cieli!" (Mt 21, 9). Poi Egli arriva al tempio. Ma là dove
doveva esservi lo spazio dell’incontro tra Dio e l’uomo, Egli trova
commercianti di bestiame e cambiavalute che occupano con i loro affari il
luogo di preghiera. Certo, il bestiame lì in vendita era destinato ai
sacrifici da immolare nel tempio. E poiché nel tempio non si potevano usare
le monete su cui erano rappresentati gli imperatori romani che stavano in
contrasto col Dio vero, bisognava cambiarle in monete che non portassero
immagini idolatriche. Ma tutto ciò poteva essere svolto altrove: lo spazio
dove ora ciò avveniva doveva essere, secondo la sua destinazione, l’atrio dei
pagani. Il Dio d’Israele, infatti, era appunto l’unico Dio di tutti i popoli.
E anche se i pagani non entravano, per così dire, nell’interno della
Rivelazione, potevano tuttavia, nell’atrio della fede, associarsi alla
preghiera all’unico Dio. Il Dio d’Israele, il Dio di tutti gli uomini, era in
attesa sempre anche della loro preghiera, della loro ricerca, della loro
invocazione. Ora, invece, vi dominavano gli affari – affari legalizzati
dall’autorità competente che, a sua volta, era partecipe del guadagno dei
mercanti. I mercanti agivano in modo corretto secondo l’ordinamento vigente,
ma l’ordinamento stesso era corrotto. "L’avidità è idolatria", dice
la Lettera ai Colossesi (cfr 3, 5). È questa l’idolatria che Gesù incontra e
di fronte alla quale cita Isaia: "La mia casa sarà chiamata casa di
preghiera" (Mt 21, 13; cfr Is 56, 7) e Geremia: "Ma voi ne fate una
spelonca di ladri" (Mt 21, 13; cfr Ger 7, 11). Contro l’ordine
interpretato male Gesù, con il suo gesto profetico, difende l’ordine vero che
si trova nella Legge e nei Profeti.
Tutto ciò deve oggi far pensare anche noi come cristiani: è la nostra fede
abbastanza pura ed aperta, così che a partire da essa anche i
"pagani", le persone che oggi sono in ricerca e hanno le loro domande,
possano intuire la luce dell’unico Dio, associarsi negli atri della fede alla
nostra preghiera e con il loro domandare diventare forse adoratori pure loro?
La consapevolezza che l’avidità è idolatria raggiunge anche il nostro cuore e
la nostra prassi di vita? Non lasciamo forse in vari modi entrare gli idoli
anche nel mondo della nostra fede? Siamo disposti a lasciarci sempre di nuovo
purificare dal Signore, permettendoGli di cacciare da noi e dalla Chiesa
tutto ciò che Gli è contrario?
Nella purificazione del tempio, però, si tratta di più che della lotta agli
abusi. È preconizzata una nuova ora della storia. Adesso sta cominciando ciò
che Gesù aveva annunciato alla Samaritana riguardo alla sua domanda circa la
vera adorazione: "È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri
adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali
adoratori" (Gv 4, 23). È finito il tempo in cui venivano immolati a Dio
degli animali. Già da sempre i sacrifici di animali erano stati una miserevole
sostituzione, un gesto di nostalgia del vero modo di adorare Dio. La Lettera
agli Ebrei, sulla vita e sull’operare di Gesù ha posto come motto una frase
del Salmo 40 [39]: "Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo
invece mi hai preparato" (Ebr 10, 5). Al posto dei sacrifici cruenti e
delle offerte di vivande subentra il corpo di Cristo, subentra Lui stesso.
Solo "l’amore sino alla fine", solo l’amore che per gli uomini si
dona totalmente a Dio, è il vero culto, il vero sacrificio. Adorare in spirito
e verità significa adorare in comunione con Colui che è la verità; adorare
nella comunione col suo Corpo, nel quale lo Spirito Santo ci riunisce.
Gli evangelisti ci raccontano che, nel processo contro Gesù, si presentarono
falsi testimoni e affermarono che Gesù aveva detto: "Posso distruggere
il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni" (Mt 26, 61). Davanti a
Cristo pendente dalla Croce alcuni schernitori fanno riferimento alla stessa
parola, gridando: "Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre
giorni, salva te stesso!" (Mt 27, 40). La giusta versione della parola,
come uscì dalla bocca di Gesù stesso, ce l’ha tramandata Giovanni nel suo
racconto della purificazione del tempio. Di fronte alla richiesta di un segno
con cui Gesù doveva legittimarsi per una tale azione, il Signore rispose:
"Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Gv
2, 18s). Giovanni aggiunge che, ripensando a quell’evento dopo la
Risurrezione, i discepoli capirono che Gesù aveva parlato del Tempio del suo
Corpo (cfr 2, 21s). Non è Gesù che distrugge il tempio; esso viene
abbandonato alla distruzione dall’atteggiamento di coloro che, da luogo
d’incontro di tutti i popoli con Dio, l’hanno trasformato in una
"spelonca di ladri", in un luogo dei loro affari. Ma, come sempre a
partire dalla caduta di Adamo, il fallimento degli uomini diventa l’occasione
per un impegno ancora più grande dell’amore di Dio nei nostri confronti.
L’ora del tempio di pietra, l’ora dei sacrifici di animali era superata: il
fatto che ora il Signore scacci fuori i mercanti non solo impedisce un abuso,
ma indica il nuovo agire di Dio. Si forma il nuovo Tempio: Gesù Cristo
stesso, nel quale l’amore di Dio si china sugli uomini. Egli, nella sua vita,
è il Tempio nuovo e vivente. Egli, che è passato attraverso la Croce ed è
risorto, è lo spazio vivente di spirito e vita, nel quale si realizza la
giusta adorazione. Così la purificazione del tempio, come culmine
dell’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme, è insieme il segno della
incombente rovina dell’edificio e della promessa del nuovo Tempio; promessa
del regno della riconciliazione e dell’amore che, nella comunione con Cristo,
viene instaurato oltre ogni frontiera.
San Matteo, il cui Vangelo ascoltiamo in questo anno, riferisce alla fine del
racconto della Domenica delle Palme, dopo la purificazione del tempio, ancora
due piccoli avvenimenti che, di nuovo, hanno un carattere profetico e ancora
una volta rendono a noi chiara la vera volontà di Gesù. Immediatamente dopo
la parola di Gesù sulla casa di preghiera di tutti i popoli, l’evangelista
continua così: "Gli si avvicinarono ciechi e storpi nel tempio ed Egli
li guarì". Inoltre, Matteo ci dice che dei fanciulli ripeterono nel
tempio l’acclamazione che i pellegrini avevano fatto all’ingresso della
città: "Osanna al figlio di Davide" (Mt 21, 14s). Al commercio di
animali e agli affari col denaro Gesù contrappone la sua bontà risanatrice.
Essa è la vera purificazione del tempio. Egli non viene come distruttore; non
viene con la spada del rivoluzionario. Viene col dono della guarigione. Si
dedica a coloro che a causa della loro infermità vengono spinti agli estremi
della loro vita e al margine della società. Gesù mostra Dio come Colui che
ama, e il suo potere come il potere dell’amore. E così dice a noi che cosa
per sempre farà parte del giusto culto di Dio: il guarire, il servire, la
bontà che risana.
E ci sono poi i fanciulli che rendono omaggio a Gesù come figlio di Davide ed
acclamano l’Osanna. Gesù aveva detto ai suoi discepoli che, per entrare nel
Regno di Dio, avrebbero dovuto ridiventare come i bambini. Egli stesso, che
abbraccia il mondo intero, si è fatto piccolo per venirci incontro, per
avviarci verso Dio. Per riconoscere Dio dobbiamo abbandonare la superbia che
ci abbaglia, che vuole spingerci lontani da Dio, come se Dio fosse nostro
concorrente. Per incontrare Dio bisogna divenire capaci di vedere col cuore.
Dobbiamo imparare a vedere con un cuore giovane, che non è ostacolato da
pregiudizi e non è abbagliato da interessi. Così, nei piccoli che con un
simile cuore libero ed aperto riconoscono Lui, la Chiesa ha visto l’immagine
dei credenti di tutti i tempi, la propria immagine.
Cari amici, in questa ora ci associamo alla processione dei giovani di allora
– una processione che attraversa l’intera storia. Insieme ai giovani di tutto
il mondo andiamo incontro a Gesù. Da Lui lasciamoci guidare verso Dio, per
imparare da Dio stesso il retto modo di essere uomini. Con Lui ringraziamo
Dio, perché con Gesù, il Figlio di Davide, ci ha donato uno spazio di pace e
di riconciliazione che abbraccia il mondo. PreghiamoLo, affinché diventiamo
anche noi con Lui e a partire da Lui messaggeri della sua pace, affinché in
noi ed intorno a noi cresca il suo Regno. Amen.
2. Giovedì Santo. Messa del Crisma
20 marzo 2008
Cari fratelli e sorelle, ogni anno la Messa del Crisma ci esorta a rientrare
in quel "sì" alla chiamata di Dio, che abbiamo pronunciato nel
giorno della nostra Ordinazione sacerdotale. "Adsum – eccomi!",
abbiamo detto come Isaia, quando sentì la voce di Dio che domandava:
"Chi manderò e chi andrà per noi?" "Eccomi, manda me!",
rispose Isaia (Is 6, 8). Poi il Signore stesso, mediante le mani del Vescovo,
ci impose le mani e noi ci siamo donati alla sua missione. Successivamente
abbiamo percorso parecchie vie nell’ambito della sua chiamata. Possiamo noi
sempre affermare ciò che Paolo, dopo anni di un servizio al Vangelo spesso
faticoso e segnato da sofferenze di ogni genere, scrisse ai Corinzi: "Il
nostro zelo non vien meno in quel ministero che, per la misericordia di Dio,
ci è stato affidato" (cfr 2 Cor 4, 1)? "Il nostro zelo non vien
meno". Preghiamo in questo giorno, affinché esso venga sempre riacceso,
affinché venga sempre nuovamente nutrito dalla fiamma viva del Vangelo.
Allo stesso tempo, il Giovedì Santo è per noi un’occasione per chiederci
sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto "sì"? Che cosa è questo
"essere sacerdote di Gesù Cristo"? Il Canone II del nostro Messale,
che probabilmente fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive
l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con cui, nel Libro del
Deuteronomio (18, 5. 7), veniva descritta l’essenza del sacerdozio
veterotestamentario: astare coram te et tibi ministrare. Sono quindi due i
compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo
lo "stare davanti al Signore". Nel Libro del Deuteronomio ciò va
letto nel contesto della disposizione precedente, secondo cui i sacerdoti non
ricevevano alcuna porzione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di
Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori necessari per il
sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era "stare
davanti al Signore" – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in
definitiva, la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche
un ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la
terra, della quale viveva anche il sacerdote, così egli manteneva il mondo
aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui. Se questa parola
ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la consacrazione dei
doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò
indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia
come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre.
Nell’inno della Liturgia delle Ore che durante la quaresima introduce
l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era
recitato durante l’ora della veglia notturna davanti a Dio e per gli uomini –
uno dei compiti della quaresima è descritto con l’imperativo: arctius
perstemus in custodia – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella
tradizione del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come
"coloro che stanno in piedi"; lo stare in piedi era l’espressione
della vigilanza. Ciò che qui era considerato compito dei monaci, possiamo con
ragione vederlo anche come espressione della missione sacerdotale e come
giusta interpretazione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve
essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze
incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che
sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità.
Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere
sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il
Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve
essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità,
del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto ad
incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli
Apostoli: essi erano "lieti di essere stati oltraggiati per amore del
nome di Gesù" (5, 41).
Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo
dell’Antico Testamento – "stare davanti a te e a te servire". Il
sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta
dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire. Nel testo veterotestamentario
questa parola ha un significato essenzialmente rituale: ai sacerdoti
spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire
secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di
servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere
svolte. Con l’assunzione della parola "servire" nel Canone, questo
significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato –
conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in
quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un
servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al
Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in
questo servizio il sacerdote deve inserirsi. Così la parola
"servire" comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte
innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere,
compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre
di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva
familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana.
È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’ars celebrandi,
l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Se
la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la
preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e
sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi.
Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio,
dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano
e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. "Servire il
Signore" – il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a
conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che
Egli ci affida.
Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così
vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più
privata della sua vita. In questo senso "servire" significa
vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un
pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi
abitudine. Si spegne così il timor riverenziale. Condizionati da tutte le
abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli
stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla
realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza
tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che
vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa
vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza. Il servo sta sotto la
parola: "Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!" (Lc 22, 42). Con
questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva
contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo
consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e
non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere
totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che
solo così noi saremmo liberi; che solo grazie ad una simile libertà senza
limiti l’uomo sarebbe completamente uomo. Ma proprio così ci poniamo contro
la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà
con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro. Questa
libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò
che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di
Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini: un
essere non da sé e solo per se stessi, diventa ancora più concreta nel
sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non
potevamo ideare da soli. Annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo
nella comunione del suo Corpo. La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa,
un pensare e parlare con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo
sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: "Sarai portato dove non
volevi". Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione
essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un
tale essere guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti,
sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore di Dio.
"Stare davanti a Lui e servirLo": Gesù Cristo come il vero Sommo
Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità prima
inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto
diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva
previsto. Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del
suo sommo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi. Con il gesto
dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del
suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende
capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa
dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua
elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino
alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera
"elevazione" dell’uomo. "Stare davanti a Lui e servirLo"
– ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo di Dio. L’Eucaristia
come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al
di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo.
Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso
nuovamente il nostro "sì" alla sua chiamata: "Eccomi. Manda
me, Signore" (Is 6, 8). Amen.
3. Giovedì Santo. Messa "in coena Domini"
20 marzo 2008
Cari fratelli e sorelle, san Giovanni inizia il suo racconto sul come Gesù
lavò i piedi ai suoi discepoli con un linguaggio particolarmente solenne,
quasi liturgico. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la
sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano
nel mondo, li amò sino alla fine” (13, 1). È arrivata l’“ora” di Gesù, verso
la quale il suo operare era diretto fin dall’inizio. Ciò che costituisce il
contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio
(metabainein, metabasis) ed "agape" – amore. Le due parole si
spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e
risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di
Dio, come un “passare” dal mondo al Padre. Non è come se Gesù, dopo una breve
visita nel mondo, ora semplicemente ripartisse e tornasse al Padre. Il
passaggio è una trasformazione. Egli porta con sé la sua carne, il suo essere
uomo. Sulla Croce, nel donare se stesso, Egli viene come fuso e trasformato
in un nuovo modo d’essere, nel quale ora è sempre col Padre e
contemporaneamente con gli uomini. Trasforma la Croce, l’atto dell’uccisione,
in un atto di donazione, di amore sino alla fine. Con questa espressione
“sino alla fine” Giovanni rimanda in anticipo all’ultima parola di Gesù sulla
Croce: tutto è portato a termine, “è compiuto” (19, 30). Mediante il suo
amore la Croce diventa "metabasis", trasformazione dell’essere uomo
nell’essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione Egli
coinvolge tutti noi, trascinandoci dentro la forza trasformatrice del suo
amore al punto che, nel nostro essere con Lui, la nostra vita diventa
“passaggio”, trasformazione. Così riceviamo la redenzione – l’essere
partecipi dell’amore eterno, una condizione a cui tendiamo con l’intera
nostra esistenza.
Questo processo essenziale dell’ora di Gesù viene rappresentato nella lavanda
dei piedi in una specie di profetico atto simbolico. In essa Gesù evidenzia
con un gesto concreto proprio ciò che il grande inno cristologico della
Lettera ai Filippesi descrive come il contenuto del mistero di Cristo. Gesù
depone le vesti della sua gloria, si cinge col “panno” dell’umanità e si fa
schiavo. Lava i piedi sporchi dei discepoli e li rende così capaci di
accedere al convito divino al quale Egli li invita. Al posto delle
purificazioni cultuali ed esterne, che purificano l’uomo ritualmente,
lasciandolo tuttavia così com’è, subentra il bagno nuovo: Egli ci rende puri
mediante la sua parola e il suo amore, mediante il dono di se stesso. “Voi
siete già mondi per la parola che vi ho annunziato”, dirà ai discepoli nel
discorso sulla vite (Gv 15, 3). Sempre di nuovo ci lava con la sua parola.
Sì, se accogliamo le parole di Gesù in atteggiamento di meditazione, di
preghiera e di fede, esse sviluppano in noi la loro forza purificatrice.
Giorno dopo giorno siamo come ricoperti di sporcizia multiforme, di parole
vuote, di pregiudizi, di sapienza ridotta ed alterata; una molteplice
semifalsità o falsità aperta s’infiltra continuamente nel nostro intimo.
Tutto ciò offusca e contamina la nostra anima, ci minaccia con l’incapacità
per la verità e per il bene. Se accogliamo le parole di Gesù col cuore
attento, esse si rivelano veri lavaggi, purificazioni dell’anima, dell’uomo
interiore. È, questo, ciò a cui ci invita il Vangelo della lavanda dei piedi:
lasciarci sempre di nuovo lavare da quest’acqua pura, lasciarci rendere
capaci della comunione conviviale con Dio e con i fratelli. Ma dal fianco di
Gesù, dopo il colpo di lancia del soldato, uscì non solo acqua, bensì anche
sangue (Gv 19, 34; cfr1 Gv 5, 6. 8). Gesù non ha solo parlato, non ci ha
lasciato solo parole. Egli dona se stesso. Ci lava con la potenza sacra del
suo sangue, cioè con il suo donarsi “sino alla fine”, sino alla Croce. La sua
parola è più di un semplice parlare; è carne e sangue “per la vita del mondo”
(Gv 6, 51). Nei santi Sacramenti, il Signore sempre di nuovo s’inginocchia
davanti ai nostri piedi e ci purifica. PreghiamoLo, affinché dal bagno sacro
del suo amore veniamo sempre più profondamente penetrati e così veramente
purificati!
Se ascoltiamo il Vangelo con attenzione, possiamo scorgere nell’avvenimento
della lavanda dei piedi due aspetti diversi. La lavanda che Gesù dona ai suoi
discepoli è anzitutto semplicemente azione sua – il dono della purezza, della
“capacità per Dio” offerto a loro. Ma il dono diventa poi un modello, il
compito di fare la stessa cosa gli uni per gli altri. I Padri hanno
qualificato questa duplicità di aspetti della lavanda dei piedi con le parole
"sacramentum" ed "exemplum". "Sacramentum"
significa in questo contesto non uno dei sette sacramenti, ma il mistero di
Cristo nel suo insieme, dall’incarnazione fino alla croce e alla risurrezione:
questo insieme diventa la forza risanatrice e santificatrice, la forza
trasformatrice per gli uomini, diventa la nostra "metabasis", la
nostra trasformazione in una nuova forma di essere, nell’apertura per Dio e
nella comunione con Lui. Ma questo nuovo essere che Egli, senza nostro merito,
semplicemente ci dà deve poi trasformarsi in noi nella dinamica di una nuova
vita. L’insieme di dono ed esempio, che troviamo nella pericope della lavanda
dei piedi, è caratteristico per la natura del cristianesimo in genere. Il
cristianesimo, in rapporto col moralismo, è di più e una cosa diversa.
All’inizio non sta il nostro fare, la nostra capacità morale. Cristianesimo è
anzitutto dono: Dio si dona a noi – non dà qualcosa, ma se stesso. E questo
avviene non solo all’inizio, nel momento della nostra conversione. Egli resta
continuamente Colui che dona. Sempre di nuovo ci offre i suoi doni. Sempre ci
precede. Per questo l’atto centrale dell’essere cristiani è l’Eucaristia: la
gratitudine per essere stati gratificati, la gioia per la vita nuova che Egli
ci dà.
Con ciò, tuttavia, non restiamo destinatari passivi della bontà divina. Dio
ci gratifica come partner personali e vivi. L’amore donato è la dinamica
dell’“amare insieme”, vuol essere in noi vita nuova a partire da Dio. Così
comprendiamo la parola che, al termine del racconto della lavanda dei piedi,
Gesù dice ai suoi discepoli e a tutti noi: “Vi do un comandamento nuovo: che
vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli
uni gli altri” (Gv 13, 34). Il “comandamento nuovo” non consiste in una norma
nuova e difficile, che fino ad allora non esisteva. Il comandamento nuovo
consiste nell’amare insieme con Colui che ci ha amati per primo. Così
dobbiamo comprendere anche il Discorso della montagna. Esso non significa che
Gesù abbia allora dato precetti nuovi, che rappresentavano esigenze di un
umanesimo più sublime di quello precedente. Il Discorso della montagna è un
cammino di allenamento nell’immedesimarsi con i sentimenti di Cristo (cfr Fil
2, 5), un cammino di purificazione interiore che ci conduce a un vivere
insieme con Lui. La cosa nuova è il dono che ci introduce nella mentalità di
Cristo. Se consideriamo ciò, percepiamo quanto lontani siamo spesso con la
nostra vita da questa novità del Nuovo Testamento; quanto poco diamo
all’umanità l’esempio dell’amare in comunione col suo amore. Così le restiamo
debitori della prova di credibilità della verità cristiana, che si dimostra
nell’amore. Proprio per questo vogliamo tanto maggiormente pregare il Signore
di renderci, mediante la sua purificazione, maturi per il nuovo comandamento.
Nel Vangelo della lavanda dei piedi il colloquio di Gesù con Pietro presenta
ancora un altro particolare della prassi di vita cristiana, a cui vogliamo
alla fine rivolgere la nostra attenzione. In un primo momento, Pietro non
aveva voluto lasciarsi lavare i piedi dal Signore: questo capovolgimento
dell’ordine, che cioè il maestro – Gesù – lavasse i piedi, che il padrone
assumesse il servizio dello schiavo, contrastava totalmente con il suo timor
riverenziale verso Gesù, con il suo concetto del rapporto tra maestro e
discepolo. “Non mi laverai mai i piedi”, dice a Gesù con la sua consueta
passionalità (Gv 13, 8). È la stessa mentalità che, dopo la professione di
fede in Gesù, Figlio di Dio, a Cesarea di Filippo, lo aveva spinto ad opporsi
a Lui, quando aveva predetto la riprovazione e la croce: “Questo non ti
accadrà mai!”, aveva dichiarato Pietro categoricamente (Mt 16, 22). Il suo
concetto di Messia comportava un’immagine di maestà, di grandezza divina.
Doveva apprendere sempre di nuovo che la grandezza di Dio è diversa dalla
nostra idea di grandezza; che essa consiste proprio nel discendere,
nell’umiltà del servizio, nella radicalità dell’amore fino alla totale
auto-spoliazione. E anche noi dobbiamo apprenderlo sempre di nuovo, perché
sistematicamente desideriamo un Dio del successo e non della Passione; perché
non siamo in grado di accorgerci che il Pastore viene come Agnello che si
dona e così ci conduce al pascolo giusto.
Quando il Signore dice a Pietro che senza la lavanda dei piedi egli non
avrebbe potuto aver alcuna parte con Lui, Pietro subito chiede con impeto che
gli siano lavati anche il capo e le mani. A ciò segue la parola misteriosa di
Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi” (Gv
13, 10). Gesù allude a un bagno che i discepoli, secondo le prescrizioni
rituali, avevano già fatto; per la partecipazione al convito occorreva ora
soltanto la lavanda dei piedi. Ma naturalmente si nasconde in ciò un significato
più profondo. A che cosa si allude? Non lo sappiamo con certezza. In ogni
caso teniamo presente che la lavanda dei piedi, secondo il senso dell’intero
capitolo, non indica un singolo specifico Sacramento, ma il "sacramentum
Christi" nel suo insieme – il suo servizio di salvezza, la sua discesa
fino alla croce, il suo amore sino alla fine, che ci purifica e ci rende
capaci di Dio. Qui, con la distinzione tra bagno e lavanda dei piedi,
tuttavia, si rende inoltre percepibile un’allusione alla vita nella comunità
dei discepoli, alla vita nella comunità della Chiesa – un’allusione che
Giovanni forse vuole consapevolmente trasmettere alle comunità del suo tempo.
Allora sembra chiaro che il bagno che ci purifica definitivamente e non deve
essere ripetuto è il Battesimo – l’essere immersi nella morte e risurrezione
di Cristo, un fatto che cambia la nostra vita profondamente, dandoci come una
nuova identità che rimane, se non la gettiamo via come fece Giuda. Ma anche
nella permanenza di questa nuova identità, per la comunione conviviale con
Gesù abbiamo bisogno della “lavanda dei piedi”. Di che cosa si tratta? Mi
sembra che la Prima Lettera di san Giovanni ci dia la chiave per
comprenderlo. Lì si legge: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo
noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli
che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa”
(1, 8s). Abbiamo bisogno della “lavanda dei piedi”, della lavanda dei peccati
di ogni giorno, e per questo abbiamo bisogno della confessione dei peccati.
Come ciò si sia svolto precisamente nelle comunità giovannee, non lo
sappiamo. Ma la direzione indicata dalla parola di Gesù a Pietro è ovvia: per
essere capaci a partecipare alla comunità conviviale con Gesù Cristo dobbiamo
essere sinceri. Dobbiamo riconoscere che anche nella nostra nuova identità di
battezzati pecchiamo. Abbiamo bisogno della confessione come essa ha preso
forma nel Sacramento della riconciliazione. In esso il Signore lava a noi
sempre di nuovo i piedi sporchi e noi possiamo sederci a tavola con Lui.
Ma così assume un nuovo significato anche la parola, con cui il Signore
allarga il "sacramentum" facendone l’"exemplum", un dono,
un servizio per il fratello: “Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i
vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,
14). Dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri nel quotidiano servizio
vicendevole dell’amore. Ma dobbiamo lavarci i piedi anche nel senso che
sempre di nuovo perdoniamo gli uni agli altri. Il debito che il Signore ci ha
condonato è sempre infinitamente più grande di tutti i debiti che altri
possono avere nei nostri confronti (cfr Mt 18, 21-35). A questo ci esorta il
Giovedì Santo: non lasciare che il rancore verso l’altro diventi nel profondo
un avvelenamento dell’anima. Ci esorta a purificare continuamente la nostra
memoria, perdonandoci a vicenda di cuore, lavando i piedi gli uni degli
altri, per poterci così recare insieme al convito di Dio.
Il Giovedì Santo è un giorno di gratitudine e di gioia per il grande dono
dell’amore sino alla fine, che il Signore ci ha fatto. Vogliamo pregare il
Signore in questa ora, affinché gratitudine e gioia diventino in noi la forza
di amare insieme con il suo amore. Amen.
4. Venerdì Santo. Via Crucis
21 marzo 2008
Cari fratelli e sorelle, anche quest'anno abbiamo ripercorso il cammino della
croce, la Via Crucis, rievocando con fede le tappe della Passione di Cristo.
I nostri occhi hanno rivisto la sofferenza e l'angoscia che il nostro
Redentore ha dovuto sopportare nell'ora del grande dolore, che ha segnato il
culmine della sua missione terrena. Gesù muore in croce e giace nel sepolcro.
La giornata del Venerdì Santo, così impregnata di umana mestizia e di religioso
silenzio, si chiude nel silenzio della meditazione e della preghiera.
Tornando a casa, anche noi come coloro che assistettero al sacrificio di
Gesù, ci "percuotiamo il petto", ripensando a quanto è accaduto (cf
Lc 23, 48). Si può forse restare indifferenti dinanzi alla morte di un Dio?
Per noi, per la nostra salvezza si è fatto uomo ed è morto in croce.
Fratelli e sorelle, i nostri sguardi spesso distratti da dispersivi ed
effimeri interessi terreni, oggi volgiamoli verso Cristo; fermiamoci a contemplare
la sua Croce. La Croce è sorgente di vita immortale, è scuola di giustizia e
di pace, è patrimonio universale di perdono e di misericordia; è prova
permanente di un amore oblativo e infinito che ha spinto Dio a farsi uomo
vulnerabile come noi sino a morire crocifisso. Le sue braccia inchiodate si
aprono per ciascun essere umano e ci invitano ad accostarci a Lui certi che
ci accoglie e ci stringe in un abbraccio di infinita tenerezza: "Quando
sarò elevato da terra – aveva detto – attirerò tutti a me" (Gv 12, 32).
Attraverso il cammino doloroso della croce gli uomini di ogni epoca,
riconciliati e redenti dal sangue di Cristo, sono diventati amici di Dio,
figli del Padre celeste. "Amico!", così Gesù chiama Giuda e gli
rivolge l'ultimo drammatico appello alla conversione; amico chiama ognuno di
noi perché è amico vero di tutti. Purtroppo non sempre gli uomini riescono a
percepire la profondità di quest'amore sconfinato che Iddio nutre per le sue
creature. Per Lui non c'è differenza di razza e cultura. Gesù Cristo è morto
per affrancare l'intera umanità dalla ignoranza di Dio, dal cerchio di odio e
vendetta, dalla schiavitù del peccato. La Croce ci rende fratelli.
Ci domandiamo: ma che abbiamo fatto di questo dono? Che abbiamo fatto della
rivelazione del volto di Dio in Cristo, della rivelazione dell'amore di Dio
che vince l'odio? Tanti, anche nella nostra epoca, non conoscono Dio e non
possono trovarlo nel Cristo crocifisso; tanti sono alla ricerca di un amore e
di una libertà che escluda Dio; tanti credono di non aver bisogno di Dio.
Cari amici, dopo aver vissuto insieme la passione di Gesù, lasciamo questa
sera che il suo sacrificio sulla Croce ci interpelli; permettiamo a Lui di
porre in crisi le nostre umane certezze; apriamogli il cuore: Gesù è la
Verità che ci rende liberi di amare. Non temiamo! Morendo il Signore ha
salvato i peccatori, cioè tutti noi. Scrive l'apostolo Pietro: Gesù
"portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non
vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe
siete stati guariti" (1Pt 2, 24).
Questa è la verità del Venerdì Santo: sulla croce il Redentore ci ha
restituito la dignità che ci appartiene, ci ha resi figli adottivi di Dio che
ci ha creati a sua immagine e somiglianza. Restiamo dunque in adorazione
davanti alla Croce. O Cristo, Re crocifisso, donaci la vera conoscenza di Te,
la gioia a cui aneliamo, l'amore che colmi il nostro cuore assetato
d'infinito. Così Ti preghiamo questa sera, Gesù, Figlio di Dio, morto per noi
in Croce e risorto il terzo giorno. Amen!
5. Veglia pasquale
22 marzo 2008
Cari fratelli e sorelle, nel suo discorso d’addio, Gesù ha annunciato ai
discepoli la sua imminente morte e risurrezione con una frase misteriosa.
Dice: "Vado e vengo da voi" (Gv 14, 28). Il morire è un andare via.
Anche se il corpo del deceduto rimane ancora – egli personalmente è andato
via verso l’ignoto e noi non possiamo seguirlo (cfr Gv 13, 36). Ma nel caso
di Gesù c’è una novità unica che cambia il mondo. Nella nostra morte l’andare
via è una cosa definitiva, non c’è ritorno. Gesù, invece, dice della sua
morte: "Vado e vengo da voi". Proprio nell’andare via, Egli viene.
Il suo andare inaugura un modo tutto nuovo e più grande della sua presenza.
Col suo morire Egli entra nell’amore del Padre. Il suo morire è un atto
d’amore. L’amore, però, è immortale. Per questo il suo andare via si
trasforma in un nuovo venire, in una forma di presenza che giunge più nel
profondo e non finisce più. Nella sua vita terrena Gesù, come tutti noi, era
legato alle condizioni esterne dell’esistenza corporea: a un determinato
luogo e a un determinato tempo. La corporeità pone dei limiti alla nostra
esistenza. Non possiamo essere contemporaneamente in due luoghi diversi. Il
nostro tempo è destinato a finire. E tra l’io e il tu c’è il muro
dell’alterità. Certo, nell’amore possiamo in qualche modo entrare
nell’esistenza dell’altro. Rimane, tuttavia, la barriera invalicabile
dell’essere diversi. Gesù, invece, che ora mediante l’atto dell’amore è totalmente
trasformato, è libero da tali barriere e limiti. Egli è in grado di passare
non solo attraverso le porte esteriori chiuse, come ci raccontano i Vangeli
(cfr Gv 20, 19). Può passare attraverso la porta interiore tra l’io e il tu,
la porta chiusa tra l’ieri e l’oggi, tra il passato ed il domani. Quando, nel
giorno del suo ingresso solenne in Gerusalemme, un gruppo di Greci aveva
chiesto di vederLo, Gesù aveva risposto con la parabola del chicco di grano
che, per portare molto frutto, deve passare attraverso la morte. Con ciò
aveva predetto il proprio destino: Non voleva allora semplicemente parlare
con questo o quell’altro Greco per qualche minuto. Attraverso la sua Croce,
mediante il suo andare via, mediante il suo morire come il chicco di grano,
sarebbe arrivato veramente presso i Greci, così che essi potessero vederLo e
toccarLo nella fede. Il suo andare via diventa un venire nel modo universale
della presenza del Risorto, in cui Egli è presente ieri, oggi ed in eterno;
in cui abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi. Ora può oltrepassare anche
il muro dell’alterità che separa l’io dal tu. Questo è avvenuto con Paolo, il
quale descrive il processo della sua conversione e del suo Battesimo con le
parole: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,
20). Mediante la venuta del Risorto, Paolo ha ottenuto un’identità nuova. Il
suo io chiuso si è aperto. Ora vive in comunione con Gesù Cristo, nel grande
io dei credenti che sono divenuti – come egli definisce tutto ciò – "uno
in Cristo" (Gal 3, 28).
Cari amici, così appare evidente, che le parole misteriose di Gesù nel
Cenacolo ora – mediante il Battesimo – si rendono per voi di nuovo presenti.
Nel Battesimo il Signore entra nella vostra vita per la porta del vostro
cuore. Noi non stiamo più uno accanto all’altro o uno contro l’altro. Egli
attraversa tutte queste porte. È questa la realtà del Battesimo: Egli, il
Risorto, viene, viene a voi e congiunge la vita sua con quella vostra,
tenendovi dentro al fuoco aperto del suo amore. Voi diventate un’unità, sì,
una cosa sola con Lui, e così una cosa sola tra di voi. In un primo momento
questo può sembrare assai teorico e poco realistico. Ma quanto più vivrete la
vita da battezzati, tanto più potrete sperimentare la verità di questa
parola. Le persone battezzate e credenti non sono mai veramente estranee
l’una per l’altra. Possono separarci continenti, culture, strutture sociali o
anche distanze storiche. Ma quando ci incontriamo, ci conosciamo in base allo
stesso Signore, alla stessa fede, alla stessa speranza, allo stesso amore,
che ci formano. Allora sperimentiamo che il fondamento delle nostre vite è lo
stesso. Sperimentiamo che nel più profondo del nostro intimo siamo ancorati
alla stessa identità, a partire dalla quale tutte le diversità esteriori, per
quanto grandi possano anche essere, risultano secondarie. I credenti non sono
mai totalmente estranei l’uno all’altro. Siamo in comunione a causa della
nostra identità più profonda: Cristo in noi. Così la fede è una forza di pace
e di riconciliazione nel mondo: è superata la lontananza, nel Signore siamo
diventati vicini (cfr Ef 2, 13).
Questa intima natura del Battesimo come dono di una nuova identità viene
rappresentata dalla Chiesa nel Sacramento mediante elementi sensibili.
L’elemento fondamentale del Battesimo è l’acqua; accanto ad essa c’è in
secondo luogo la luce che, nella Liturgia della Veglia Pasquale, emerge con
grande efficacia. Gettiamo solo uno sguardo su questi due elementi. Nel
capitolo conclusivo della Lettera agli Ebrei si trova un’affermazione su
Cristo, nella quale l’acqua non compare direttamente, ma che, per il suo
collegamento con l’Antico Testamento, lascia tuttavia trasparire il mistero
dell’acqua e il suo significato simbolico. Là si legge: "Il Dio della
pace ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore in virtù del
sangue di un’alleanza eterna" (cfr 13, 20). In questa frase echeggia una
parola del Libro di Isaia, nella quale Mosè viene qualificato come il pastore
che il Signore ha fatto uscire dall’acqua, dal mare (cfr 63, 11). Gesù appare
come il nuovo Pastore, quello definitivo che porta a compimento ciò che Mosè
aveva fatto: Egli ci conduce fuori dalle acque mortifere del mare, fuori
dalle acque della morte. Possiamo in questo contesto ricordarci che Mosè
dalla madre era stato messo in un cestello e deposto nel Nilo. Poi, per la
provvidenza di Dio, era stato tirato fuori dall’acqua, portato dalla morte
alla vita, e così – salvato egli stesso dalle acque della morte – poteva
condurre gli altri facendoli passare attraverso il mare della morte. Gesù è
per noi disceso nelle acque oscure della morte. Ma in virtù del suo sangue,
ci dice la Lettera agli Ebrei, è stato fatto tornare dalla morte: il suo
amore si è unito a quello del Padre e così dalla profondità della morte Egli
ha potuto salire alla vita. Ora eleva noi dalla morte alla vita vera. Sì, è
ciò che avviene nel Battesimo: Egli ci tira su verso di sé, ci attira dentro
la vera vita. Ci conduce attraverso il mare spesso così oscuro della storia,
nelle cui confusioni e pericoli non di rado siamo minacciati di sprofondare.
Nel Battesimo ci prende come per mano, ci conduce sulla via che passa
attraverso il Mar Rosso di questo tempo e ci introduce nella vita duratura,
in quella vera e giusta. Teniamo stretta la sua mano! Qualunque cosa succeda
o ci venga incontro, non abbandoniamo la sua mano! Camminiamo allora sulla
via che conduce alla vita.
In secondo luogo c’è il simbolo della luce e del fuoco. Gregorio di Tours
racconta di un’usanza che qua e là si è conservata a lungo, di prendere per
la celebrazione della Veglia Pasquale il fuoco nuovo per mezzo di un
cristallo direttamente dal sole: si riceveva, per così dire, luce e fuoco
nuovamente dal cielo per accendere poi da essi tutte le luci e i fuochi
dell’anno. È questo un simbolo di ciò che celebriamo nella Veglia Pasquale.
Con la radicalità del suo amore, nel quale il cuore di Dio e il cuore
dell’uomo si sono toccati, Gesù Cristo ha veramente preso la luce dal cielo e
l’ha portata sulla terra – la luce della verità e il fuoco dell’amore che
trasforma l’essere dell’uomo. Egli ha portato la luce, ed ora sappiamo chi è
Dio e come è Dio. Così sappiamo anche come stanno le cose riguardo all’uomo;
che cosa siamo noi e per che scopo esistiamo. Venir battezzati significa che
il fuoco di questa luce viene calato giù nel nostro intimo. Per questo, nella
Chiesa antica il Battesimo veniva chiamato anche il Sacramento
dell’illuminazione: la luce di Dio entra in noi; così diventiamo noi stessi
figli della luce. Questa luce della verità che ci indica la via, non vogliamo
lasciare che si spenga. Vogliamo proteggerla contro tutte le potenze che
intendono estinguerla per rigettarci nel buio su Dio e su noi stessi. Il
buio, di tanto in tanto, può sembrare comodo. Posso nascondermi e passare la mia
vita dormendo. Noi però non siamo chiamati alle tenebre, ma alla luce. Nelle
promesse battesimali accendiamo, per così dire, nuovamente anno dopo anno
questa luce: sì, credo che il mondo e la mia vita non provengono dal caso, ma
dalla Ragione eterna e dall’Amore eterno, sono creati dal Dio onnipotente.
Sì, credo che in Gesù Cristo, nella sua incarnazione, nella sua croce e
risurrezione si è manifestato il Volto di Dio; che in Lui Dio è presente in
mezzo a noi, ci unisce e ci conduce verso la nostra meta, verso l’Amore
eterno. Sì, credo che lo Spirito Santo ci dona la Parola di verità ed
illumina il nostro cuore; credo che nella comunione della Chiesa diventiamo
tutti un solo Corpo col Signore e così andiamo incontro alla risurrezione e
alla vita eterna. Il Signore ci ha donato la luce della verità. Questa luce è
insieme anche fuoco, forza da parte di Dio, una forza che non distrugge, ma
vuole trasformare i nostri cuori, affinché noi diventiamo veramente uomini di
Dio e affinché la sua pace diventi operante in questo mondo.
Nella Chiesa antica c’era la consuetudine, che il Vescovo o il sacerdote dopo
l’omelia esortasse i credenti esclamando: "Conversi ad Dominum" –
volgetevi ora verso il Signore. Ciò significava innanzitutto che essi si
volgevano verso Est – nella direzione del sorgere del sole come segno del
Cristo che torna, al quale andiamo incontro nella celebrazione
dell’Eucaristia. Dove, per qualche ragione, ciò non era possibile, essi in
ogni caso si volgevano verso l’immagine di Cristo nell’abside o verso la
Croce, per orientarsi interiormente verso il Signore. Perché, in definitiva,
si trattava di questo fatto interiore: della conversio, del volgersi della
nostra anima verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente, verso la luce
vera. Era collegata con ciò poi l’altra esclamazione che ancora oggi, prima
del Canone, viene rivolta alla comunità credente: "Sursum corda" –
in alto i cuori, fuori da tutti gli intrecci delle nostre preoccupazioni, dei
nostri desideri, delle nostre angosce, della nostra distrazione – in alto i
vostri cuori, il vostro intimo! In ambedue le esclamazioni veniamo in qualche
modo esortati ad un rinnovamento del nostro Battesimo: Conversi ad Dominum –
sempre di nuovo dobbiamo distoglierci dalle direzioni sbagliate, nelle quali ci
muoviamo così spesso con il nostro pensare ed agire. Sempre di nuovo dobbiamo
volgerci verso di Lui, che è la Via, la Verità e la Vita. Sempre di nuovo
dobbiamo diventare dei "convertiti", rivolti con tutta la vita
verso il Signore. E sempre di nuovo dobbiamo lasciare che il nostro cuore sia
sottratto alla forza di gravità, che lo tira giù, e sollevarlo interiormente
in alto: nella verità e l’amore. In questa ora ringraziamo il Signore, perché
in virtù della forza della sua parola e dei santi Sacramenti Egli ci orienta
nella direzione giusta e attrae verso l’alto il nostro cuore. E lo preghiamo
così: Sì, Signore, fa che diventiamo persone pasquali, uomini e donne della
luce, ricolmi del fuoco del tuo amore. Amen.
6. Domenica di Pasqua
23 marzo 2008
"Resurrexi, et adhuc tecum sum. Alleluia! - Sono risorto, sono sempre
con te. Alleluia!". Cari fratelli e sorelle, Gesù crocifisso e risorto
ci ripete oggi quest'annuncio di gioia: è l'annuncio pasquale. Accogliamolo
con intimo stupore e gratitudine!
"Resurrexi et adhuc tecum sum – Sono risorto e sono ancora e sempre con
te". Queste parole, tratte da un'antica versione del Salmo 138 (v. 18b),
risuonano all'inizio dell'odierna Santa Messa. In esse, al sorgere del sole
di Pasqua, la Chiesa riconosce la voce stessa di Gesù che, risorgendo da
morte, si rivolge al Padre colmo di felicità e d'amore ed esclama: Padre mio,
eccomi! Sono risorto, sono ancora con te e lo sarò per sempre; il tuo Spirito
non mi ha mai abbandonato. Possiamo così comprendere in modo nuovo anche
altre espressioni del Salmo: "Se salgo in cielo, là tu sei, / se scendo
negli inferi, eccoti. / ... / Nemmeno le tenebre per te sono oscure, / e la
notte è chiara come il giorno; / per te le tenebre sono come luce" (Sal
138, 8.12). È vero: nella solenne veglia di Pasqua le tenebre diventano luce,
la notte cede il passo al giorno che non conosce tramonto. La morte e
risurrezione del Verbo di Dio incarnato è un evento di amore insuperabile, è
la vittoria dell'Amore che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato e della
morte. Ha cambiato il corso della storia, infondendo un indelebile e
rinnovato senso e valore alla vita dell'uomo.
"Sono risorto e sono ancora e sempre con te". Queste parole ci
invitano a contemplare Cristo risorto, facendone risuonare nel nostro cuore
la voce. Con il suo sacrificio redentore Gesù di Nazareth ci ha resi figli
adottivi di Dio, così che ora possiamo inserirci anche noi nel dialogo
misterioso tra Lui e il Padre. Ritorna alla mente quanto un giorno Egli ebbe
a dire ai suoi ascoltatori: "Tutto mi è stato dato dal Padre mio;
nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non
il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11,27). In
questa prospettiva, avvertiamo che l'affermazione rivolta oggi da Gesù
risorto al Padre, – "Sono ancora e sempre con te" – riguarda come
di riflesso anche noi, "figli di Dio e coeredi di Cristo, se veramente
partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare alla sua gloria" (cfr
Rm 8,17). Grazie alla morte e risurrezione di Cristo, pure noi quest'oggi
risorgiamo a vita nuova, ed unendo la nostra alla sua voce proclamiamo di
voler restare per sempre con Dio, Padre nostro infinitamente buono e
misericordioso.
Entriamo così nella profondità del mistero pasquale. L'evento sorprendente
della risurrezione di Gesù è essenzialmente un evento d'amore: amore del
Padre che consegna il Figlio per la salvezza del mondo; amore del Figlio che
si abbandona al volere del Padre per tutti noi; amore dello Spirito che
risuscita Gesù dai morti nel suo corpo trasfigurato. Ed ancora: amore del
Padre che "riabbraccia" il Figlio avvolgendolo nella sua gloria;
amore del Figlio che con la forza dello Spirito ritorna al Padre rivestito
della nostra umanità trasfigurata. Dall'odierna solennità, che ci fa rivivere
l'esperienza assoluta e singolare della risurrezione di Gesù, ci viene dunque
un appello a convertirci all'Amore; ci viene un invito a vivere rifiutando
l'odio e l'egoismo e a seguire docilmente le orme dell'Agnello immolato per
la nostra salvezza, a imitare il Redentore "mite e umile di cuore",
che è "ristoro per le nostre anime" (cfr Mt 11,29).
Fratelli e sorelle cristiani di ogni parte del mondo, uomini e donne di animo
sinceramente aperto alla verità! Che nessuno chiuda il cuore all'onnipotenza
di questo amore che redime! Gesù Cristo è morto e risorto per tutti: Egli è
la nostra speranza! Speranza vera per ogni essere umano. Oggi, come fece con
i suoi discepoli in Galilea prima di tornare al Padre, Gesù risorto invia
anche noi dappertutto come testimoni della sua speranza e ci rassicura: Io
sono con voi sempre, tutti i giorni, fino alla fine del mondo (cfr Mt 28,20).
Fissando lo sguardo dell'animo nelle piaghe gloriose del suo corpo
trasfigurato, possiamo capire il senso e il valore della sofferenza, possiamo
lenire le tante ferite che continuano ad insanguinare l'umanità anche ai
nostri giorni. Nelle sue piaghe gloriose riconosciamo i segni indelebili
della misericordia infinita del Dio di cui parla il profeta: Egli è colui che
risana le ferite dei cuori spezzati, che difende i deboli e proclama la
libertà degli schiavi, che consola tutti gli afflitti e dispensa loro olio di
letizia invece dell'abito da lutto, un canto di lode invece di un cuore mesto
(cfr Is 61,1.2.3). Se con umile confidenza ci accostiamo a Lui, incontriamo
nel suo sguardo la risposta all'anelito più profondo del nostro cuore:
conoscere Dio e stringere con Lui una relazione vitale, che colmi del suo
stesso amore la nostra esistenza e le nostre relazioni interpersonali e
sociali. Per questo l'umanità ha bisogno di Cristo: in Lui, nostra speranza,
"noi siamo stati salvati" (cfr Rm 8,24).
Quante volte le relazioni tra persona e persona, tra gruppo e gruppo, tra
popolo e popolo, invece che dall'amore, sono segnate dall'egoismo,
dall'ingiustizia, dall'odio, dalla violenza! Sono le piaghe dell'umanità,
aperte e doloranti in ogni angolo del pianeta, anche se spesso ignorate e
talvolta volutamente nascoste; piaghe che straziano anime e corpi di
innumerevoli nostri fratelli e sorelle. Esse attendono di essere lenite e
guarite dalle piaghe gloriose del Signore risorto (cfr 1 Pt 2,24-25) e dalla solidarietà di quanti, sulle sue orme e in suo
nome, pongono gesti d'amore, si impegnano fattivamente per la giustizia e
spargono intorno a sé segni luminosi di speranza nei luoghi insanguinati dai
conflitti e dovunque la dignità della persona umana continua ad essere
vilipesa e conculcata. L’auspicio è che proprio là si moltiplichino le
testimonianze di mitezza e di perdono!
Cari fratelli e sorelle, lasciamoci illuminare dalla luce sfolgorante di
questo Giorno solenne; apriamoci con sincera fiducia a Cristo risorto, perché
la forza rinnovatrice del mistero pasquale si manifesti in ciascuno di noi,
nelle nostre famiglie, nelle nostre città e nelle nostre nazioni. Si
manifesti in ogni parte del mondo. Come non pensare in questo momento, in
particolare, ad alcune regioni africane, quali il Darfur e la Somalia, al
martoriato Medio Oriente, e specialmente alla Terra Santa, all'Iraq, al Libano,
e infine al Tibet, regioni per le quali incoraggio la ricerca di soluzioni
che salvaguardino il bene e la pace! Invochiamo la pienezza dei doni
pasquali, per intercessione di Maria che, dopo aver condiviso le sofferenze
della passione e crocifissione del suo Figlio innocente, ha sperimentato
anche la gioia inesprimibile della sua risurrezione. Associata alla gloria di
Cristo, sia Lei a proteggerci e a guidarci sulla via della fraterna
solidarietà e della pace. Sono questi i miei auguri pasquali, che rivolgo a
voi qui presenti e agli uomini e alle donne di ogni nazione e continente a
noi uniti attraverso la radio e la televisione. Buona Pasqua!
|