Questa rubrica, che accompagnerà i
lettori per diversi numeri della Voce delle Egadi, ha lo scopo di
far conoscere ai giovani, attraverso la descrizione delle
arti, dei mestieri e dei giochi antichi, come vivevano i nostri
padri, non tanto per metterci a confronto (in quanto ognuno è
costretto a vivere nella sua epoca) quanto per far capire che la
vita va vissuta in tutte le sue manifestazioni e che solo
conoscendo il proprio passato è possibile crearsi un futuro.
Molti mestieri che un tempo erano presenti sull’isola oggi sono
scomparsi: u siggiaru, u firraru, u carritteri,
u stagnataru e tanti altri che, sicuramente, avremo modo di
trattare in seguito. Dovendo incominciare, parleremo del
pirriaturi (il cavatufo), uno dei mestieri più diffusi
nella Favignana di ieri (a praticare questo mestiere, infatti, era
circa 1/4 della popolazione lavorativa).
Non esiste nessuna notizia di quando il primo uomo diede il primo
colpo di mannàra, cominciando così l’escavazione delle
pirrere (cave di tufo); i primi tentativi di scavi risalgono
sicuramente a tempi remoti, allo scopo di creare delle piccole
grotte da usare come alloggi (vedi zona S. Nicola).
Successivamente, si cominciò a cavare il tufo per poter ottenere
quei parallelepipedi a noi tanto noti che in dialetto si chiamano
cantuni.
Le misure di un cantuni standard sono 50 cm di lunghezza
per 25 cm di spessore; esistono tuttavia tufi di altre dimensioni
che, pertanto, cambiano nome: alle misure di 50 x 30 corrisponde
la chiappetta, a quelle di 50 x 40 corrisponde la
chiappa. E’ poi possibile tagliare u cantuni in fette che
vanno da uno spessore di 6 a 12 cm e si chiamano timpagnoli.
Il tufo più piccolo veniva chiamato misura antica, mentre
il tufo realizzato secondo le esigenze dei costruttori, ed
utilizzato nella realizzazione delle opere d’arte, veniva chiamato
pezzu.
Immaginando un ipotetico giro turistico in una vecchia cava, gli
strumenti in cui sicuramente ci imbatteremmo sono: a mannàra,
u picuni, u zappuni, a pala, a cardareddra
e u manganeddru.
A mannàra, attrezzo principe nella cava, permetteva di
tagliare la pietra; tra i pirriaturi era anche chiamata
a cruci, sia per la forma sia perché, alzata ed abbassata
tutto il santo giorno, richiedeva un ingente sforzo e tanto
sudore, per questo i pirriaturi sicuramente ripensavano a Gesù con
la sua croce sulle spalle per le vie di Gerusalemme. Per
intraprendere questo mestiere bisognava essere forti nel fisico e
nel carattere, capaci cioè di sopportare sforzi sovraumani
(specialmente sotto il cocente sole estivo, chiusi tra quattro
pareti e ad una profondità che in alcuni casi raggiungeva i 30
m.). Si diventava “apprendisti pirriaturi” molto presto,
sotto la guida del padre o di un parente; u picciottu
cominciava a lavorare alle prime luci dell’alba e, sebbene
remunerato con degli spiccioli, aveva dei compiti molto gravosi.
Doveva mantenere pulita la cava spalando la terra e doveva
controllare il livello d’acqua nelle quartare e se questo
era molto basso doveva correre a riempire queste rocche d’argilla
al pozzo più vicino. Nel pomeriggio aveva invece l’arduo compito
di incucciare (legare) ad una corda i tufi che venivano poi
issati in superficie dalle braccia possenti dei pirriaturi
adulti e sistemati a pila (cioè a gruppi di 12, per
facilitarne la conta). Per lavorare senza alcun impedimento questi
uomini indossavano come unico indumento i causi ri tila
(mutande) accompagnate, d’inverno, da una maglia di lana che
veniva cambiata diverse volte al giorno.
Dopo il tramonto ancora un ultimo compito aspettava u picciottu:
portare gli attrezzi dal fabbro ferraio perché fossero pronti per
il giorno successivo, anche a costo di lunghe code.
A. Grammatico |
Padre Damiano carissimo, abbiamo appreso con rammarico della sua
partenza da Favignana. Non trovo le parole per ringraziarla a nome
di noi detenuti per esserci stato vicino nei momenti difficili del
nostro cammino e per averci dato quel conforto spirituale
indispensabile per continuare a sperare in Dio.
Le siamo riconoscenti per gli sforzi fatti per superare le
difficoltà che purtroppo sono la regola di questi luoghi e per
esserci stato vicino il più possibile, organizzando anche attività
sportive e teatrali nel tentativo di alleviare le sofferenze di
noi detenuti e di reinserirci nella società.
Nell’augurarLe un mondo di bene e serenità nella nuova sede a cui
è stato assegnato, volevamo dirle che la ricorderemo sempre nelle
nostre preghiere affinché Dio possa darle forza e coraggio per
continuare ad adoperarsi per i bisognosi e per chi soffre. Che il
Signore possa esserle sempre vicino come Lei lo è stato con noi.
V.
D’Angelo
Detenuto della Casa di reclusione di
Favignana
Caro Damiano, il lungo tempo è trascorso come un istante.
Il tuo congedo dalla Comunità Cristiana di Favignana ha lasciato
nei nostri cuori il vuoto generatore di solitudine che pervade
l’anima quando si allontana non solo un amico ma soprattutto una
guida, luce per lo spirito.
I tuoi insegnamenti basati sul buon esempio hanno alimentato il
messaggio cristiano che, ben radicato nelle antiche tradizioni del
nostro popolo, ha trovato in te un instancabile uomo al servizio
di Dio.
Ti terremo nei nostri cuori con la tua saggezza e con la modestia
nell’adattarti alla nostra mentalità! Le tue parole ed i tuoi
fatti resteranno indelebili a sancire il successo della tua
missione che ad immagine di Gesù ha fatto proseliti nei cuori dei
Favignanesi.
Ci mancherai. Ma ogni volta che il nostro pensiero si eleverà
verso i temi essenziali della vita, sentiremo alto il pulsare del
tuo grande amore con noi in un unico canto di alleluia.
L. Marcantonio
SAN
JUSEPPE
San Juseppe,
San Juseppe
Siti chinu di carità
Aiutatimi, assistitimi
‘na sta vita e nall’eternità.
O Patriarca custodi e amatu
Siti sposu di Maria
Proteggiti l’anima mia
Siti bonu e nun diniati
Pirdunati i me’ peccati
San Juseppe siti lu Patri
Siti virgini comu la Matri.
Maria è rosa,
Giuseppe è lu gigliu
Datimi aiutu pani e cunsigghiu.
San Juseppi è prutitturi
Picchì è patri di nostru Signuri |
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