Giudizi Universali di Castignano e di
Loreto
Aprutino: iconografie a confronto
La riscoperta dell’affresco
raffigurante il Giudizio
Universale nella chiesa dei SS. Pietro
e Paolo di Castignano si deve ad un intervento congiunto fra la
Soprintendenza di Urbino e quella ai Beni Ambientali e Architettonici di
Ancona condotto fra gli anni ’90 e
’93. E’ stato diretto da chi scrive e
realizzato da Fabio Bevilacqua e da Giuliana Veltroni della Coop.
C.R. C di Bologna.
Oggi
visibile sulla parete di destra entrando, l’affresco in precedenza era
nascosto da un altare ligneo sei-settecentesco (f.1)
il cui ancoraggio al muro aveva notevolmente danneggiato la
preesistenza affrescata anche a causa dell’apertura
di una grande nicchia al centro destinata a contenere una statua.
Lo smontaggio dell’altare, previsto entro un precedente intervento della
Soprintendenza di Urbino ( effettuato da Sandro Salemme di Imola) per permettere il consolidamento del legno e la revisione dei
giunti, aveva portato subito a riscoprire sotto lo strato superficiale di malta sulla destra del montante
taluni piccoli brani dell’affresco ( si trattava degli animali
del luogo della resurrezione dei morti)
che riconducevano senz’altro alla stessa mano pittorica da tempo
visibile, sulla sinistra in alto fra l’altare ed il pulpito.Con il senno
di poi, oggi possiamo riconoscerli: si trattava di uno degli angeli che
annunciano il Giudizio, dell Torre del Paradiso con ai piedi i Tre
Patriarchi, e della Psicostasi fatta da San Michele Arcangelo. Al di sopra
della cimasa lignea affiorava appena la testa del Cristo Giudice.La
visione di queste parti fra di loro distanti lasciava presumere l’esistenza
sotto scialbo di un affresco di
discreta estensione, ma non ne era ancora riconoscibile il
soggetto, se questo avesse lo sviluppo unitario di un solo episodio, come
poi si è verificato essere, oppure se fosse un ciclo con diversi
riquadri,ipotesi poi invece smentita. I primi saggi (f.2)
creavano tali aspettative da non potersi soprassedere e, difatti, la
rimozione dello scialbo e degli intonaci debordanti
veniva a rivelare via via l’importanza
dell’affresco riscoperto, sia dal punto di vista artistico e
stilistico, sia da quello dei suoi contenuti.
La
metodologia di questo recupero, e di questa riproposta alla pubblica
fruizione,ha mirato a riconferire il più possibile di unità all’immagine
nonostante le ampie lacune(f.3).
Così si è scelto di chiudere nuovamente la nicchia, con mattoni , e di
trattarla alla pari delle altre mancanze con una stesura uniforme di
intonaco a neutro: la nicchia costituiva infatti un episodio storico
successivo al comparire dell’affresco, era vicenda estranea all’oggetto
ed era dunque da riguardarsi come un danno avvenuto
all’opera ,una lacuna da trattarsi come tale. L’altare ligneo,
nel frattempo, veniva ad essere rimontato sulla parete di fronte,
esattamente a specchio della sua posizione precedente. La stesura dell’intonaco color neutro, fatta per ricucire
i brani pittorici fra di loro slegati,
ha ovviamente scelto di non sovrapporsi agli affreschi
presumibilmente duecenteschi 1)
che erano precedenti e sottostanti al Giudizio e che il nostro frescante
si trovò a dover picchiettare per far aderire il nuovo intonaco.
Chi
era costui ,e quando si mise
all’opera? L’affresco
costituisce una emergenza culturale di pari interesse al ciclo fermano
dell’Oratorio di S.Monica, a quello, in Montegiorgio, della Leggenda
della Vera Croce, alla cappella farfense di Santa Vittoria in Matenano,
e alle numerose Storie e Santi
della parrocchia di Patrignone di Montalto Marche, nei quali episodi
si manifestano tendenze diverse fra di loro,
e nessuno di questi è
immediatamente rapportabile al nostro che è invece da collegarsi,
per ragioni di palese affinità stilistica,
al ciclo presente nel catino absidale di S. Maria della Rocca di
Offida, datato all’anno 1423 nel suo registro inferiore. 2) Il ciclo si deve
alla mano di almeno due pittori, e detta maestranza è stata riconosciuta
da Silvia Dell’Orso come quella
medesima che realizzò i più vasti affreschi della chiesa di S. Maria
in Piano di Loreto Aprutino, a partire dallo stesso anno 1423,
quando il “primo” ed il “secondo maestro di San Tommaso” ne
stesero a fresco le storie, la decorazione riprendendo
nel 1428 con le Storie Mariane e Cristologiche
e, nel 1429, con il Giudizio
Universale(f.4). 3) Risulta
probabile una contemporaneità fra l’episodio di Offida ed il ciclo di
S. Tommaso a Loreto Aprutino , almeno
progettato, se non proprio dipinto esattamente nel 1423, il che porta a
considerare la possibilità di una committenza molteplice all’interno
della medesima maestranza.e di più ramificazioni
pittoriche contemporanee a partire da un medesimo tronco 4).
Resta il fatto di una diversità, ed anzi unicità ,entro il suddetto
contesto, proprio del Giudizio di Castignano: in esso la descrizione naturalistica dell’azione si
sposa con un
gusto cortese dell’eleganza e della bellezza, assai lontani, pur
nell’impronta di un medesimo clichè formale, dalla icasticità di segno, marcato e caricato fino
a raggiungere effetti addirittura antiestetici quali si avvertono
con maggiore nettezza che altrove, ad esempio nei Dottori
dell’abside di S.Maria
della Rocca, dove il contorno dei lineamenti non è nero, ma di un vivo
colore rosso.
Può
essere che questo territorio delle valli
subito parallele o confluenti al Tronto ( dagli affreschi di Atri e
di Campli nel teramano a quelli marchigiani
di Offida) abbia fatto da punto di raccordo e di fusione fra il
tardogotico costiero adriatico ed
emiliano ( Padova ,Ferrara ed Urbino , Bologna e Vignola) e quello
più continentale ed umbro ( Foligno, Perugia), per cui l’improvvisa
concentrazione di quelle culture , dapprima manifestandosi ad Offida
(1423), ebbe poi a rimbalzare
a Loreto Aprutino ( 1423-25) per quindi ritornare a Ripatransone (1426) ,
di qui a Castignano (1427?) e poi di nuovo, lasciando orme ad Atri e a
Campli, a Loreto Aprutino nelle Storie
Mariane (1428) e nel Giudizio (1429). Il quale ultimo affresco, che sa ormai di ricalco
manierato e di un calligrafismo fine a se stesso,è senz’altro di mano
diversa rispetto al nostro di Castignano. Per chi scrive vi è dunque una
priorità cronologica , estetica ed inventiva di
questo rispetto a quello di Loreto Aprutino . Si
crede inoltre che le
identità iconografiche fra l’uno e l’altro non solo servano a
convalidare la recente lettura di quello abruzzese, ma che tale
riconosciuto parallelismo valga a sottolineare la fortuna popolare subito
acquisita dall’affresco marchigiano ed una sua risonanza piuttosto a
vasto raggio.Non conosciamo il nome della sua committenza, ma sono i dati
storici recuperati dalla Dell’Orso
per l’episodio abruzzese a fornirci ,in parallelo,una chiave di lettura
dei motivi del suo comparire anche qui nell’ascolano. Pure il
Giudizio di Castignano -e ne fa fede il tono stranamente intriso di
compunzione, di festa e di paura, nacque, per così dire,fra la chiesa e
la piazza del mercato, fra la predica dal pulpito ed il teatro in piazza. Si trattava di ragioni che, presso la
committenza ecclesiastica potevano essere a quei tempi o di dichiarazione
difensiva del proprio potere temporale o di espressione di autorità per
riguadagnate posizioni politiche e di governo. Per gli affreschi di Loreto
Aprutino la Dell’Orso ci fa
conoscere il nome del committente, quel Francesco II d’Aquino
che nel 1427 veniva nominato Vicerè d’Abruzzo da parte, si noti
bene, non dalla Regina di Napoli Giovanna II d’Angiò, bensì dal papa
Martino V 5), così lasciandoci
scorgere un ricercato compromesso fra
il potere laico e quello religioso. Appena a Nord del confine del Tronto
ed entro il Regno della Chiesa i tentativi di signoria locale
tendenzialmente fomentati da
Napoli contro il governo ecclesiastico venivano altresì ricercati e
strumentalizzati dalla Chiesa stessa
in un gioco di equilibrio fra debolezza e tolleranza ,per ricavare
dai concorrenti alla piccola signoria almeno una alleanza
difensiva. Dopo le incertezze causate dall’alto a motivo della
contesa per l’elezione al soglio pontificio fra i Papi Gregorio XII,
Benedetto XIII, e Giovanni XXIII,le cose parvero tornare al consueto
ordine delle Constitutiones
Aegidiane, quando nel 1426 Pietro Colonna venne nominato Rettore
della Marca, a segno di un nuovo riconoscimento dell’autorità
ecclesiastica. 6) In tal senso risulta abbastanza esplicito, e sembra quindi
inutile dilungarci, come l’immagine
dell’autorità divina che
giudica il singolo individuo e la collettività , fungesse da richiamo,
con le sue valenze di minaccioso monito, all’autorità stessa della
Chiesa. Ma ,oltre che a valere da memento,
un altro potere di suggestione connotava il
Giudizio di Castignano: l’affresco
divenne la pagina sulla quale i cittadini ritenevano di dover registrare
le eclissi, di sole e di luna, sentendole come segnali di una imminente
fine del mondo. Le parole graffite (f.5)
nel luogo della Resurrezione,in basso verso destra, qui seguendone l’ordine
non come dato,ma cronologico:
“1485 die 16 martii oscuratus/fuit
sol (...) maiori parte./ 1505 ...die augusti scurata luna (...) et ubique
(...)
/
1539 die 18 aprilis/ fuit eclipsis solis;
si
collegano in maniera diretta - e con scelte lessicali mirate- al testo
massimamente autorevole della
Sacra Scrittura, il che portava ad identificare senz’altro il portento
inspiegabile della eclisse , totale o parziale che fosse, con la fine del
mondo: “Il quarto angelo suonò la sua tromba: fu colpita la terza parte
del sole, la terza parte della luna e la terza parte delle stelle, in modo
che s’offuscò la terza parte di loro (Apocalisse, 8,12); e ”All’apertura
del sesto sigillo apparve ai miei occhi questa visione: si udì un gran
terremoto; il sole si offuscò da apparire nero come un sacco di crine, la
luna tutta prese il colore del sangue; le stelle del cielo precipitarono
sulla terra ...( Apocalisse,6,12). E, ancora: “Subito dopo la
tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non più darà
la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze terrestri saranno
sconvolte” ( Matteo,24,29).In questi graffiti si legge la paura del
presagio, lo sbigottimento provato alla vista inaspettata di una eclisse;
si immagina allora quale argomento di predica divenissero all’occasione tali
eventi per il sacerdote dal pulpito, specie se aiutato da una estesa e
puntuale illustrazione sulla parete, come quella che si vedeva a
Castignano.
La
lettura iconografica del brano pittorico in esame è complessa, e non solo
in quanto la rappresentazione vi si frantuma e vi si articola
nei tanti episodi della casistica di bontà-premio e di peccato-
contrappasso, ma anche in quanto esso si presenta quale summa
e concentrato di tutta una lunga tradizione immaginifica precedente, sia
letteraria che figurativa, la quale ultima è frequente soprattutto nel
vicino territorio abruzzese.7).
E in questi due esempi, di Loreto Aprutino e di Castignano, la
narrazione pittorica inoltre vi è particolarmente concentrata, in quanto
è come se i due pittori avessero fuso nell’unità
di tempo e di luogo i tempi diversi del Giudizio, quello
individuale che avviene subito dopo la morte, potendo l’anima essere
anche destinata al Purgatorio,e quello collettivo e manifestato, quando
dopo la Resurrezione e alla fine del mondo, avverrà la spartizione netta
dei risorti fra Paradiso ed Inferno.
Ha
apportato sostegno alla ricerca il poter rintracciare,
nell’affresco di Loreto Aprutino, certi elementi iconografici che
a Castignano si sono perduti con la caduta degli intonaci.
Ed il discorso è comunque reciproco: l’affresco abruzzese potrà
avvalersi del nostro per ripensare a certe zone della visione, come ad
esempio a quella Resurrezione dei morti che si è presunto non esservi
stata dipinta, e che invece, essendo presente a Castignano
porta a far dubitare che la sua assenza sia dovuta ad una lacuna -
che compare nella zona in basso al centro- e non a ragioni iconiche.
Si
tenterà questa lettura partendo dall’alto, cioè dalla raffigurazione
del secondo Avvento del Signore.Ci si aspetta subito, sul fondamento della
nostra comunissima conoscenza escatologica, che all’apparire del Cristo
Giudice debba essere qui raffigurata la Resurrezione dei morti con l’andare
immediato dei risorti, chi
al Paradiso e chi all’Inferno. Ma non tutto, come pian piano si
vedrà lungo questa lettura, coinciderà con le nostre aspettative.
In
alto è la Parusia, ovvero il
ritorno del Cristo. La sua rappresentazione attinge alle origini della
cristianità, se nel Vangelo secondo Matteo infatti si legge: “Egli
manderà i suoi angeli, i quali con lo squillo della grande tromba
raduneranno i suoi eletti da quattro venti, da un estremo all’altro dei
cieli”.(Matteo 24,31); “.allora si siederà sul suo trono di gloria, e
davanti a lui saranno condotte tutte le genti; egli separerà gli uni
dagli altri, .... e metterà le pecore alla sua destra, i capri invece
alla sua sinistra.”(Matteo,25,31-33). Anche qui si osserva, come
inderogabilmente in tutti i Giudizi dipinti, la netta spartizione della
grande pagina nei due spazi, l’Inferno alla sinistra del Cristo e il
Paradiso alla sua destra. Al di là di tutte le possibili invenzioni
episodiche e descrittive, si mantengono inalterati il concetto e la
suggestione dell’annuncio improvviso degli angeli con la tromba.(f.6):”
Canet enim tuba et mortui resurgent”, così presagisce S. Paolo nella lettera ai
Corinzi. Le parole che si leggono sul vessillo dell’angelo che vola a
piombo sulla sinistra : “Surgite
mortui/ venite ad iudicem “( o”
ad iudicium”), denotano una derivazione fedele e diretta dai sacri
testi .La scritta sull’altro vessillo non è leggibile, ma possiamo
ipotizzarne i contenuti guardando al corrispondente di Loreto Aprutino,
dove si legge: “Surgite mortui/
percepite regnum”8)
La
frequente mandorla iridata, simbolo dell’Empireo (dai colore bianco,
rosso e verde), viene qui ad essere sostituita da un nastro un tempo
dorato ( simbolo della Nuova Alleanza e della Redenzione). Agli intenti
rappresentativi iconici della divinità eterna ed astratta sono ormai
subentrate finalità schiettamente narrative, come mediate da lungo tempo
e diffuse dall’arte gotica francese, così che qui il Cristo non vi
compare tanto in Maestà, quanto piuttosto nel suo aspetto evangelico e
storico. Scrivendo l’ Elucidarium (inizi
del sec.XII) Onorio d’Autun
dice che il Cristo comparirà nel giorno del Giudizio con lo stesso
aspetto che aveva nel giorno della morte:
nell’affresco Egli è dunque coperto del sudario , siede sul
sarcofago e tende le mani per mostrare le piaghe insanguinate. Al di sotto
del coro di angeli con la veste rossa, che sembrano una palla di fuoco
improvvisamente esplosa per far comparire il Cristo, sostituisce la più
antica Etimasia 9) la Croce con i simboli
della Passione,dati questi ultimi non soltanto dagli oggetti ( il secchio,
la colonna, la frusta, la scala, il piccone, la veste, i chiodi, i dadi,
le tenaglie,la spugna,etc.) ma anche
dalle azioni degli sgherri, come lo sputare o il fare gesti osceni.
Sono le cosiddette Arma Christi,
gli strumenti della redenzione e della vittoria. E, infatti, nella Legenda
Aurea di Jacopo da
Varazze ( Genova, inizi del sec.XIII)
si legge che “al terzo segno” del
secondo Avvento di Cristo, “compariranno le insegne della Passione: la
croce, i chiodi e le ferite, prova della sua gloriosa vittoria.Per questo
i segni della sofferenza appariranno nello splendore della vittoria.”10)
A
questo punto, a giudicare dalla lacuna subito sottostante, la nostra
lettura dovrebbe interrompersi, ma l’affresco di S.Maria in Piano ci
viene in soccorso facendoci
supporre che anche qui l’immagine proseguisse
con la mensa dell’altare (l’Etimasia)
intorno al quale si genuflettono i Santi Agostino, Francesco e Domenico
in rappresentanza dei tre maggiori ordini dei Predicatori (f.7).
Secondo la Dell’Orso 11), il
gruppo dei tre santi in S.Maria in Piano è da interpretarsi quale
richiamo alla speranza del perdono dopo la morte, i fedeli riguardando ad
essi come a riconosciuti ed inveterati ‘patroni dei defunti’, per
così dire. La loro presenza anche nell’affresco di Castignano ( tutta
la composizione circostante lo presume) testimonia di un canone
figurativo dal contenuto ormai riconoscibile e quindi
ormai codificato. I tre Santi potevano essere invocati come
intercessori in quanto il loro apostolato si
era fondato sulla capacità dell’anima
di espiare la colpa, prima in terra e quindi , dopo la morte, in
Purgatorio. S. Agostino era stato il vero inventore del terzo luogo dell’oltretomba,
ponendo le basi di quella sua infernalizzazione - espiazione con il
fuoco-che è nella
visione moderna; fra i Domenicani fu soprattutto S.Tommaso a
soffermarsi sull’ argomento, nel suo Scriptum;
fra i Francescani il tema coinvolse S. Francesco, attirò S. Bonaventura e
, soprattutto da parte dell’ordine francescano cominciò a praticarsi il
nuovo sacramento della confessione, con connessa una penitenza espiatoria
che divenne via via sempre
più proporzionata a tutta una casistica del peccato sempre più
analitica. 12) La Chiesa riconobbe
la realtà del Purgatorio con
il concilio di Lione del 1274 per giungere poi alla sua istituzione
ufficiale con il concilio di Firenze del 1438 e questa data, così vicina
al realizzarsi dei nostri due Giudizi, può giustificare una scelta di
soggetto da parte clericale che traeva motivo, dunque, da una sentita e
dibattuta attualità del tema del perdono e del Giudizio.
Ma
il Purgatorio è il luogo dove il tempo della punizione non ha durata
eterna: esso finisce il giorno del Giudizio, quando, per cessata
attività, verrà a sparire questo luogo che da S. Tommaso in poi il
cristiano immagina essere contiguo all’Inferno.Ma torneremo più oltre
su questo tema che costituì forse l’assunto concettuale di partenza per
l’elaborazione di tutta l’immagine, dopo aver ultimato la descrizione
del Paradiso. 13) Dunque, a
lato e allo stesso livello del Cristo stanno due registri di santi, venuti
ormai a sostituire i 24 vegliardi dell’Apocalisse ( ( Ap. 4,4) , o i 12
Apostoli che,nei Giudizi
medievali, creavano il
consesso del Tribunale 14) .Come
a Loreto Aprutino anche a
Castignano al tono dell’implacabile sentenza è subentrato quello del
fervido perdono: è infatti qui rappresentata, anche se vi compare
lacunosa,la Deesis, ovvero “la
grande preghiera” , nella quale, se i Beati assistono Dio nel suo
giudizio e ne approvano e ne celebrano il volere, la Vergine alla destra
ed il Prodromo, ovvero San Giovanni Battista alla sinistra, avranno fino
all’ultimo il ruolo di impetrare misericordia per gli uomini,( San
Giovanni per quelli dell’Antico Testamento). In tale modo in questi due
Giudizi si manifesta l’espressione
di una fede più fondata
sulla speranza che non sul timore.
15)
La
disposizione dei beati è qui diversa rispetto a Loreto Aprutino, nel
quale affresco compare solo un gremitissimo
registro di personaggi ben abbigliati : essi si collocano ai lati del Cristo
in doppia fila: sulla destra del Cristo sono gli Apostoli, sulla
sinistra i santi fondatori di ordini religiosi, fra cui S. Benedetto. Alle
spalle di questi gruppi, sempre in doppia fila, sono le sante o beate, tra
le quali una distinzione sembra porsi solo fra sante laiche e
sante monache ( in veste grigia).16)
Qui
a Castignano, invece, i registri sono due e l’ordine planimetrico di
quello superiore, per quanto è consentito di leggere nonostante le
lacune, sembra essere dato da gruppi di tre per tre, che disponendosi in
numero di quattro per ciascun lato ( il lato a sinistra del Cristo è del
tutto perduto ma ben possiamo immaginarlo a specchio di quello a destra) ,
fanno risultare il numero di 24, quell’arcano numero dell’Apocalisse,
la cui suggestione quindi persiste, forse qui rappresentandosi l’accoglimento
della sentenza divina da parte di un coro di beati
il cui stare genuflessi reggendo vessilli
suggerisce l’immagine di una rituale esultanza per il compiersi
della giustizia divina. Sono forse i giovani
martiri? Furono pensati dal pittore come vestiti di rosso, in
quanto il rosso è il colore del martirio.? Nel registro inferiore il
numero dei santi , per quanto almeno vediamo alle spalle della Vergine,
doveva essere piuttosto alto, contenendo prima gli Apostoli, e poi
in successione gli altri santi. Dei colori delle vesti, forse
adottati secondo una simbologia agiografica utile alla distinzione dei
santi per categoria, non può tenersi gran conto, a motivo delle abrasioni
superficiali essendo visibili solo il verde, alcune tracce di rosso sulle
relative impronte color rosa, ed il bianco.
Guardando più in basso al di sotto dell’Empireo,
si individuano altre due zone
diverse del Paradiso: subito sotto l’Empireo, che è la dimora dei santi
adibita a luogo del loro
consesso per l’ultimo Giudizio,
è la Torre del Paradiso, ovvero la dimora dei beati, intorno alla quale
è uno spazio che , a causa delle lacune dovendoci confrontare
con l’affresco di Loreto, riusciamo ad immaginare come un uguale
luogo di delizie, ovvero un medesimo refrigerium
circa Paradisum.(f.8) Che cosa il pittore
era tenuto qui a rappresentare, in che cosa egli credeva,perché vi sono
illustrati tre diversi
Paradisi ? Il loro
accesso come viene regolato? La
porta della Torre per i buoni
si aprirà subito dopo la morte, dopo il giudizio individuale,oppure
bisognerà attendere fino al
giorno del Giudizio universale ? Dal
momento che all’angelico squillo di tromba, all’Annuncio, è qui S. Pietro
che apre la porta della celeste
dimora, non sembrano esservi dubbi: coloro che, risorti, meritano la
dimora del Paradiso, vi salgono solamente allora. Essi vi entrano nudi per essere vestiti dagli angeli di una veste rossa ( colore
dell’amore); questo per i laici, mentre per i fraticelli vige invece il
mantenimento del proprio saio,come sembra indicato dalla presenza del
giovane francescano, come subito riconoscibile. Sulla terrazza della
Torre, a giudicare da quanto si vede a Loreto Aprutino, anche a Castignano
dovevano danzare gli eletti nella loro
nuova magnifica veste. Anche loro allacciavano conversazione con quanti ( i risorti? , o le anime?)che ancora si dilettavano
nel circa Paradisum
stando arrampicati sulle palme e sugli alberi ricolmi di frutti del
refrigerium, quell’Eden che si
perde stando al mondo, ma che dai buoni viene
riguadagnato dopo la morte e dopo il giudizio individuale. L’unità
di tempo rappresentata fra due luoghi diversi :del refrigerium ( luogo
dell’attesa del Giudizio) e della Torre ( luogo del premio dopo il
Giudizio) sembra essere una prima contraddizione escatologica che comunque
si manifesta narrativamente felice.
La prima lettura del Giudizio di S.Maria in Piano proposta da Rasetti fra i molti meriti
ebbe quella di aver identificato la fonte di questo circa Paradisum entro la letteratura visionaria sull’aldilà e
nello specifico della Visione di Alberico di Settefrati.17)
La bontà del riscontro, almeno per questa parte dell’affresco,
è stata poi suffragata dalla Dell’Orso, per cui pare inoppugnabile il
persistere anche nell’affresco di Castignano della remota tradizione
della Visione
del monaco benedettino Alberico di Settefrati: Egli immaginava che , dopo
il giudizio individuale i buoni dovevano giungere ad un bel campo “...e
quanto qual campo sia splendido , soave, adorno...nessun discorso può
dire....nel mezzo di questo campo vi è il Paradiso, in cui le anime dei giusti non possono entrare fino al giorno del Giudizio,
ma riposano tutto all’intorno di quel campo”18)
E
in questo circa Paradisum, anzi
si direbbe che ne siano l’insegna,
stanno i Tre Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, dal cui “seno”,
l’arcaica definizione tratta dal Vangelo di Luca e dalla parabola
di Lazzaro col ricco
Epulone (Lc 16,22) , e che si traduce nel
lembo di manto che ciascuno di essi solleva come a cesta o a culla,
sembrano emergere teste di uomini o di bambini. Si tratta delle anime dei
giusti dell’Antico Testamento, che la tradizione iconografica vede
tornare fanciulli, ma l’idea forse qui si combina con una
più verosimile immagine: forse ormai
i Tre Patriarchi indicavano il limbo degli infanti che, morti senza
battesimo appena nati, non sono passibili di un giudizio. Nell’affresco
di Loreto Aprutino i Tre sembrano discorrere fra di loro , l’uno facendo
quel gesto di indicare la Torre del Paradiso
che nel Giudizio di
Castignano è fatto invece da San Michele Arcangelo, qui ancora visto
nella sua primitiva funzione di Santo ‘psicopompo’.
L’accenno
appena fatto al refrigerium dei
buoni , luogo di attesa fino al Giudizio collettivo, si collega ad un
altro elemento iconografico dal contenuto eccentrico , esso stesso
presente nella Visione di
Alberico, ed indagato recentemente dalla Dell’Orso nel suo secondo
saggio sul ciclo di Loreto Aprutino19).
Il “ponte della prova”, altresì chiamato “ponte del Purgatorio”
nell’immaginario religioso antico si assottigliava tanto da comprovare
se l’anima del defunto fosse così leggera da poterlo superare, oppure
ancora così pesante di peccati da dover ricadere nel sottostante fiume di
pece. Se nella Visio Sancti Pauli
(VI sec.) S. Paolo accompagnato da S. Michele
incontrerà il ponte durante il suo viaggio all’Inferno, nella Visione
di Alberico il ponte è sì ancora al varco per l’inferno, ma si è
ormai arricchito di una nuova funzione: permette infatti di replicare più
volte la prova del suo superamento ( pena del Purgatorio), fino all’espiazione
finale e alla salvezza. Nel
Giudizio di Loreto Aprutino il ponte della prova
( f.9), che si assottiglia fino a divenire “ponte del capello” 20) rappresenta, anche per via della sua posizione centrale, il
discrimine, lo snodo certo fra la strada che porta all’Inferno e quella
per il Paradiso. E il
S.Michele, con la pesa delle anime, assegnerà a ciascuno dei buoni lì
ormai giunti, il proprio posto in Paradiso.21)
Anche a Castignano il
ponte era stato dipinto ,ma ne resta solo un tratto sulla sinistra dell’arcata
a gradini. Su di questa parte è un risorto che, ancora
pauroso di cadere, viene subito sostenuto dall’angelo vestito di
rosso che si sporge con vivissima sollecitudine verso di lui (
f.10). Guardando insieme alle due prove, del ponte e della bilancia,
ci sembra che il loro significato qui a Castignano sia diverso rispetto a
Loreto Aprutino. Il S.Michele infatti nel nostro affresco fa l’azione di contrappesare con l’eletto il
disperatissimo dannato, così da mantenere il suo ruolo arcaico e più
autentico di giudice deputato alla spartizione fra il bene e il male 22). Anche per la vicinanza fra i due esami, sembra doversi
intendere che la Psicostasi nell’affresco di Castignano si ponga come
seconda prova, dopo la prima del superamento del ponte. E’ come se il
frescante, o chi per lui,credesse in un secondo test di sicurezza per
taluni risorti , nell’eventualità che tra di loro vi sia qualche
equilibrista particolarmente
abile o furbo. Dunque, il ricorso a questo elemento delle fantasie
popolari sull’aldilà, nonostante il suo titolo tradizionale, non
sembra al momento dover indicare per forza, nell’ affresco di
Castignano,la presenza del luogo del Purgatorio. Ma il concetto del terzo
luogo è tuttavia sotteso a tutta quanta la figurazione, dove il ponte del
Purgatorio ne costituisce il baricentro, o la chiave di volta: potrà
superarlo chi risorgerà ormai del tutto mondo, avendo già espiato i
propri trascorsi peccati dentro al tempo del divenire, con i ripetuti
lavacri al fiume. Il risorto che non sia in grado di superarlo, subito
risalirà invece la corrente per essere portato dalla barca di “Caron
dimonio” alla propria eterna dimora infernale. Nei due affreschi in
argomento il ponte ha ormai perso il proprio significato di strumento
purgatorio, dato che nel giorno del Giudizio lo si usa piuttosto quale
strumento di discrimine definitivo nella scelta fra Paradiso ed Inferno.
Infatti,come può esistere il Purgatorio ancora alla fine del mondo? Ma
pittore però non se ne mise tanto quanto chi scrive a tentare un ordine
in sequenza temporale dei diversi momenti della rappresentazione. Egli
procedette senz’altro a dare questa fantastica unità di tempo e luogo a
“un vero e proprio assemblaggiodi motivi di origine diversa in parte
desunti dal vastissimo repertorio onirico-visionario (...) ed in parte
dalla tradizione figurativa abruzzese del Giudizio Universale” 23).
La
spigliatezza del frescante nell’affrontare l’arduo tema escatologico
è pari alla sua spigliatezza descrittiva. Ad esempio, rispetto alla Psicostasi
di Loreto Aprutino ,che si
osserva essere maggiormente codificata nel rappresentare solo l’azione
del pesare le anime, qui l’immagine si presenta assai più ricca di
notazioni psicologiche e sentimentali: il dannato che , come già
detto,piange sul piatto della bilancia, più stizzito che avvilito; il
buono che non sta più nella
pelle per la gioia e che deliziato bacia S. Michele, il quale indica con
il dito dove sta la porta del Paradiso e sembra strizzargli l’occhio; l’angelo
che con tale minuziosa attenzione e così chino da sembrare miope e con
la lingua tra di denti, scrive sul registro del
conto finale il peso delle anime. Chiude poi la scena S.Giorgio, il santo
difensore contro il male che, fra S. Michele , il prevosto del Paradiso e
San Pietro, che ne è il portinaio, con piglio baldanzoso avanza la gamba
destra ed impugna lo scudo quale custode della
dimora celeste ( e certuni vecchi alberghi ad esempio, in Belgio o
in Inghilterra, sono appunti intitolati a San Giorgio) . Se a Loreto
Aprutino il San Michele sta seduto su di una semplice cattedra, qui sembra
stare come al banco di un piccolo elegante chiosco . Su di una modestissima sedia impagliata sta invece
quel vecchio barbuto, ammantato ed incappucciato che, insieme con i due
personaggi che stanno giungendo in barca sullo stesso fiume del Purgatorio
(f.11), costituisce l’episodio
più interessante , ed anzi il più sorprendente di tutto l’affresco per
la sua rarità e precocità iconografica. Anche solo una povera
conoscenza scolastica della Divina Commedia fa subito sospettare
,alla vista di queste tre figure, di trovarci inaspettatamente di fronte
al celebre passo del Purgatorio ( canto I ) in cui Virgilio
presenta Dante a Catone l’Uticense. E questo ci viene confermato
dalla scritta che può leggersi col sistema della riflettografia ai raggi
infrarossi(f.12)sul biglietto da visita del vegliardo, ovvero sul suo
cartiglio, il quale dice “ CATO/ IUSTICIARIUS PURGATORII”.24) Indubbia è allora l’identità
del raffigurato, quel Catone l’Uticense che Dante pone a custode
della montagna del Purgatorio.
Il vecchio è sulla sponda del Lete, ma parrebbe inutile,
nonostante la scritta, cercare il Purgatorio alle sue spalle, non solo
,per quanto già detto, della sua contraddizione temporale con il giorno
della resurrezione e del Giudizio, ma in
quanto il ruolo dell’Uticense, guardando più addentro alla
scritta,potrebbe essere non tanto quello dantesco di custodedel
Purgatorio, ma quello virgiliano ( Eneide, VIII, 670) di giudice (iusticiarius)
delle anime pie, di quelle cioè che avendo già espiato (purgatorii), possono accedere al Paradiso.
Eppure
alle sue spalle e proprio al di sotto di quella figura lacunosa che per
essere abbigliata in una lunga veste bianca sembra essere un angelo
compagno di quelli che dimorano entro la Torre, è leggibile la scritta:
“...qui venite nondum (...)”( ..o voi, che venite non ancora...)
( f.13) . Sembra balzante allora il riferimento a chi ancora non si
sia purificato, così da obbligarci a pensare che alle spalle di Catone vi
fosse raffigurato davvero il Purgatorio, esso medesimo giardino,
sottostante ma subito confinante con il vero e proprio refrigerium.
E’ da notarsi infatti la sua prossimità alla Torre, appena al di
qua del seno di Abramo, ovvero del limbo dei giusti non battezzati. Così
che il nondum potrebbe anche riferirisi al luogo delle anime non ancora
battezzate, ma sembra più convincente ammettere, nonostante tutto, l’illustrazione
di questo piccolo Purgatorio,così che il titolo di iusticiarius
con cui Catone si presenta sta a significare il suo incarico di assegnare
a ciascuno il posto e la pena che gli spetta in Purgatorio.
Se
il vecchio è Catone, risulta d’obbligo riconoscere negli altri due
personaggi lo stesso Dante con Virgilio, e viene poi conseguente il
confrontare l’illustrazione affrescata (f.13)
con la descrizione dantesca sia
dell’aspetto fisico di Catone:“Lunga la barba e di pel bianco mista/
portava a’ suoi capegli
simigliante,/ de’ quai cadeva al petto doppia lista. ( Purgatorio,I,
34-36), sia dell’azione svolta: “ Lo duca mio allor mi die’ di
piglio,/ e con parole e con mani e con cenni/ reverenti mi fe’ le gambe
e il ciglio “ ( ibidem,
49-51). Lo stesso presentarsi di Dante e di Virgilio su di una barca se
esula da una illustrazione esatta e letterale del testo dantesco, lascia
intendere tuttavia una contaminazione interpretativa
dall’immagine di quella
“navicella del mio ingegno”(Purgatorio,I,2) con cui Dante inizia la
sua seconda cantica.
Le
coincidenze vi appaiono
calzanti, e d’altra parte, la Divina Commedia cominciò subito a
diffondersi, non appena
scritta.25) L’ importanza dell’episodio è tuttavia tale
da farci agire con molta circospezione, consigliandoci di avanzare
qualche dubbio: se, quanto al vecchio che con manto e con cappello ornati
di ermellino e con il libro in mano ( vi sussiste una grafia gotica non
ancora interpretata, probabile titolo della sua opera più nota) è da
riconoscersi Virgilio, la figura di Dante non corrisponde per niente alle
immagini dantesche della nostra consuetudine visiva quali cominciarono ad
essere miniate nelle Commedie
manoscritte fra i secoli XIV e XV. Dette
immagini risalgono a quel primo modello dato dal celebre ritratto
fiorentino di scuola
giottesca con il quale Dante si trovò ad essere per sempre
caratterizzato, oltre che dalla ‘importanza’del naso, dal tipico
berretto dottorale con cuffia bianca aderente e con cappuccio a gote,
lasciandosi poi indovinare vestito di quella sopravveste, detta lucco
,che era conforme alla sua posizione di letterato. Qui invece il giovane
personaggio ha una berretta in capo, distintivo allora del il libero
cittadino, e una veste corta
alle ginocchia , detta la cioppa
(giubba), che era allora tipica della condizione artigiana , come anche
dei famigli o servitori , se
cioppetta. Non sarà per caso che qui, in fondo all’affresco, il
pittore abbia voluto alludere a se stesso, autoritraendosi in veste di
...Dante ? In fondo, come
Dante con il suo poema, anche lui con quella pittura, illustrava il suo
viaggio nell’aldilà. Non
credo che questa eventuale
similitudine sia da addebitarsi al pittore quale megalomania, l’esagerazione
dovendo proporzionarsi ad un peso culturale della figura di Dante non
ancora gravata da secoli di critica accademica; segnala piuttosto una
conoscenza della Divina Commedia diffusa a tutti i livelli ,una notevole
confidenza con la grande opera anche da parte della gente comune, ed una
assunzione divertita ed ammiccante degli episodi letterari entro un
registro narrativo ‘romanzato’, da calarsi entro il contesto delle
attese del pubblico di allora. E questo inserto così personale nel grande
affresco, vi si pone come a postilla, o meglio, come a prologo o ad
epilogo finale. La grande scena dipinta obbedisce infatti al concetto di
una disposizione paratattica , di tutta una serie di scenette che si
trovano in successione temporale come viste eseguite sulla scena di un
teatro o come cantate da un cantastorie. Per il sacerdote ,dal suo
pulpito, era facilissimo trovare sempre
nuove raccomandazioni morali guardando a questo affresco,
il cui vivace naturalismo narrativo ci fa immaginare una
proporzionale icasticità ed accoretezza di eloquio, risonante nell’alta
doppia navata della chiesa di Castignano.
Alle
spalle del gruppo dantesco, subito al di qua del Lete,avviene la
resurrezione dei morti L’aspetto tutto uguale e la medesima età dei risorti fa presumere il perdurare nella cultura
tre-quattrocentesca della visione del
già ricordato Onorio di’Autun (Elucidarium),
il quale previde che tutti rinasceremo alla stessa età della morte del
Cristo. I morti qui resuscitano
in una piccola valle, anzi in una fossa ( è il remoto tramando della Ge’enna
biblica) abitata da taluni animali certamente allusivi
del luogo cimiteriale della
resurrezione dei morti : il cane, che ancora fruga fra le ossa dei
cadaveri, il corvo, il cui verso “cras cras” ( domani, domani),
prevede l’implacabilità e della morte e del Giudizio,il leone,
dall’antichissima valenza cristologica di salvazione e di resurrezione.26)
E ancora altri, come forse la donnola o la iena.27)
I
risorti poi risalgono verso il fiume e verso il ponte del Purgatorio tutti
con grande compunzione e tutti in atteggiamento orante, per quanto ci sia
dato di vedere. Sembra quindi che sul
pittore in quel momento agisse la memoria del Vangelo di San Luca, dove si
dice che solo ai giusti sarà concesso di risorgere ( spunto figurativo
dunque contradditorio, ma entro un contesto che , abbiamo visto, non
pretende di essere del tutto logico). La biforcazione definitiva fra buoni
e cattivi viene data, si è visto, dalla Psicostasi, ma in che modo i
dannati ritornino indietro verso la terra,e quale cammino compiano per
inoltrarsi al loro Inferno,
non ci è dato di vedere. Forse risalgono la sponda del fiume, dove, ad un
certo punto, divenuto questo l’Acheronte,
sarà Caronte ad attenderli per traghettarli sull’altra riva (f.15).Osservando
infatti in alto a destra, dentro a quella la nave a remi che, per l’analitica
descrizione suggestiva dell’antica tecnologia
e per il pesante carico dei dannati evidenziati dalle grosse teste,
ricorda tanto da vicino le affini invenzioni
del famoso scultore Valeriano Trubbiani, sta seduto sul ponte il
nocchiero “Caron dimonio”. Una ricerca sui primi codici illustrati
della Divina Commedia , che comparvero a partire da circa il 1335 ( il
codice Trivulziano 1080 di Milano è del 1337) , fa notare una notevole
affinità fra il nostro Caronte e, ad esempio, quello presente nel Ms.
Additional 19587 della
British Library di Londra, riferibile all’area angioina della fine del
‘300. La rappresentazione tutta umana
del celebre dimonio
come visto da Dante, qui viene trasformata nel senso non solo del
mostruoso antropomorfo che è di tutta l’arte gotica, ma anche di quello
zoomorfo. Per gli altri diavoli che qui all’Inferno prestano con grande
zelo il loro servizio, l’ aspetto e l’ azione si rapportano al
concetto del punire per contrappasso ogni peccato. La cosa non è rara
nella rappresentazione degli Inferni, ed è nota soprattutto per essere stata adottata da Giovanni da
Modena nella cappella Bolognini del San Petronio di Bologna.
L’indagine
interpretativa dell’Inferno, entro le cui bolge si svolge l’azione
dell’eterno supplizio,
è
sempre quella più interessante e coinvolgente, forse a motivo della
nostra educazione giovanile sul testo dantesco, forse a motivo di nostre
abitudini cristiane a più
approfonditi esami di coscienza o per via di paure ancestrali, e si sa che
...la lingua batte dove il dente duole. I peccati qui furono scritti al di
sotto di ogni scena rappresentata, ma le lacune non lasciano più
riconoscere le scritture, se non in modo molto parziale28),
e a Loreto Aprutino la scena dell’Inferno è andata completamente
perduta.
“La
storia dell’aldilà per quanto concerne giudizio e punizioni è
stranamente parallela alla storia della giustizia umana”.Così ha
recentemente detto J.Minois.29)
E viene da chiederci se sia possibile che questi nostri dannati, puniti
fino a quando durerà la resistenza di questo affresco, ancora ci comunichino qualche cosa dei principi morali che
reggevano la vita di allora. Insomma, qui a Castignano, intorno al 1430
,quali erano le azioni da considerarsi
soprattutto riprovevoli? Nel
Medio Evo i vizi capitali erano due, la superbia e la cupidigia. Dal
Duecento in poi, affinandosi la pratica della confessione, ecco affinarsi
la casistica del peccato, aggiungendosi alla superbia l’ira,l’ invidia
e l’ accidia ,e alla cupidigia sostituendosi la gola, l’avarizia
e la lussuria.(f.16)
Per
questo Inferno al pittore vennero in mente modi diversi di rappresentare
il peccato : usò l’azione simbolica, ove è il peccatore a ripetere il
peccato; e vi osservò la
legge del contrappasso, per la quale non è il dannato che
ripete il peccato, ma è lui che diviene vittima del peccato
compiutogli contro, dai diavoli. Taluni di questi episodi sono
riconducibili all’azione simbolo: si tratta del peccato della vanità ,
simbolo di lussuria, con la donna che si mira allo specchio; ma, subito al
disotto, simbolo ancora della lussuria, è il sodomita il quale subisce
l’amplesso (contappasso) da parte di un immondo diavolo. (f.17)
Ancora troviamo la
rappresentazione attiva del contrappasso nel diavolo che, mutatosi in nero
porco o cinghiale, rosicchia golosamente il capo del dannato ( la gola); l’ira qui
si puntualizza in una manifestazione particolare, quella della bestemmia,
e questa immagine credo sia tra le invenzioni più efficaci, per traslato
allusivo, di tutto l’affresco: è un gruppo di dannati
che fuggono e che si tappano le orecchie al “fuoco” della bestemmia su
di loro sputato dal demonio, l’unico, almeno fra
quelli ancora visibili ,che si abbigli come un uomo di allora
con un buffo cappello, da biroccio oggi si direbbe ,o da taverna. L’avarizia
è qui rappresentata dal
peccatore ladro, il quale ha la mano tagliata dal diavolo non tanto
per contrappasso, quanto per più ovvia punizione del danno. Non si
ritiene che vi venga qui raffigurata la colpa dell’ira, che talora
veniva descritta con un corpo
fatto a pezzi da parte del demonio, bensì
l’universale
concetto islamico dell’”occhio per occhio , dente per dente”.(f.18)
Resterebbero così da riconoscere i fatti di superbia, di invidia, ed
accidia. Ma forse quest’ultimo è da vedersi nel’omino nudo in alto,
che, inerme,come svegliato improvvisamente, viene afferrato per i capelli
da un diavolo per essere scagliato dall’alto della nave sulla
nuova terra infernale.( e in Dante, fra l’altro, gli accidiosi e gli
ignavi costituiscono il primo girone dell’Inferno)
La superbia è forse da leggersi in quell’uomo che ,chino ,deve
sopportare il peso del diavolo che lo sta cavalcando, contenendolo, lui l’ambizioso,
con il morso del freno, salvo non essere questa coppia un’altra
allusione all’ira; (f.19)l’invidioso - ma l’immagine è lacunosa-
è forse colui che viene bastonato dal diavolo che gli sta in
groppa, mentre una accetta (?) , sembra lo stia affettando (la motivazione
morale infatti affina l’invidia). Altra
immagine resta da spiegare, quella del giovane che tiene un sacchetto in
mano , mentre il diavolo gli sta sopra
a cavalcioni e gli versa la pece (?) nei capelli,ma sappiamo che il
peccatore con la borsa in mano sta sempre a significare il peccato dell’usura.
L’usura,
la gola, la vanità, sia di per sé come indizio di costume,
sia per la maniera della loro raffigurazione ( ad esempio la bella
donna della vanità con l’elaborata capigliatura e
con l’eleganza dello specchio) (f.20), ci rievocano
un mondo di cultura decisamente più cittadina che contadina, così
da farci immaginare un tenore di vita pari fra città e ‘castello’ e
così da riproporci un ambiente qui niente affatto paesano - la differenza
fra città e paese, è forse un solco scavato dalla storia- ma che ,entro
la piccola cerchia delle mura, indipendentemente dalla misura del suo
perimetro,ambiva e sapeva
confrontarsi con le città
maggiori. Durante il governo delle Constitutiones
Aegidiane il piccolo castello agiva infatti
in posizione di alleanza , anche se solo detta, e mai di
sudditanza, anche se poi reale alla resa dei fatti.
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Note
3)
S. Dell’Orso, Considerazioni
intorno agli affreschi di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino, in
“ Bollettino d’Arte”,1988,pp.63 e segg.
4)
L’iter del Maestro di Loreto Aprutino, ovvero della sua maestranza, così
come si legge in Considerazioni cit:
fu il seguente: nel 1423 è il Maestro dell’abside di S.Maria della
Rocca il primo a comparire, ovvero il medesimo che poi affrescherà le Storie mariane e cristologiche del 1428 in S.Maria del Piano. Ma qui
non sarà solo, dato che infatti vi compare accompagnato dal Secondo
Maestro di San Tommaso,che già aveva dipinto la maggior parte del ciclo
di San Tommaso sempre a Loreto. Nel 1429 vi è poi la volta di altro
pittore ancora, cioè del Maestro del Giudizio. Nel 1426, nelle Marche,
ovvero nella chiesetta di S.Maria della Petrella nei pressi di
Ripatransone , era stata
dipinta una Madonna in trono e santi molto prossim a ai modi , sembra a
chi scrive,del Secondo Maestro di San Tommaso. E’ difficile pertanto
distinguere quanti e chi fossero.Resta
indubbio che la loro vicinanza stilisticamnte più certa è
al pittore miniatore storicamnte documentato, Ugolino di Vanne di
Milano che a Fermo firma e
data 1436
il Missale De Firmonibus
.
5)
v. S. Dell’Orso, Considerazioni
cit.,p.63.
6)
S.Balena -A. Rodilossi, Castignano.Storia
... cit.I, 1984,pp.140.141. Il Vicariato fu alta magistratura
ecclesiastica atta a mantenere la giurisdizione civile.
7)
G.Rasetti, Il Giudizio Universale in
arte e la pittura medievale
abruzzese, Pescara 1935.
8)
S. Dell’Orso , Il “Ponte della
prova”. Un affresco nella chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto
Aprutino e la rappresentazione del “Purgatorio”, in “Arte
Cristiana” 1988,p 334.
9)L’Etimasia
è l’attesa del Giudizio, in antico rappresentata dal trono vuoto con
sopra la Croce ed il Libro. Si muterà poi nella sola Croce adorata dai
due Arcangeli , come in Giotto nella Cappella degli Scrovegni, e quindi
nella esposizione delle Arma Christi.
10)
Iacopo da Varazze, Legenda Aurea
, ed. cons. a cura di A.e L. Vitale Brovarone,Einaudi 1995, p.12
11)
S. Dell’Orso, Il “Ponte della
prova”... cit.
12)
Traggo questo più che succinto compendio agiografico dalla più estesa
spiegazione fornitaci dalla Dell’Orso, in
Il “Ponte..”cit. pp. 329.330; e note 27, 28,29, p.337. Per San
Francesco , v. S. Gieben, San
Francesco nell’arte popolare, in San
Francesco d’Assisi nella storia, Atti del Convegno (VIII Centenario
della nascita).
13)
Sul tema del Purgatorio è fondamentale il famoso testo di J. Le Goff, La
nascita del Purgatorio, Paris 1981, ed. it. Einaudi 1982; in
particolare egli estrapola riferimenti dagli scritti dei tre santi sopra
ricordati, per prendere in
esame l’origine dell’idea del Purgatorio.
14) cfr. L. Réau, Iconographie de l’art chretien, 3 voll., Paris 1955-59. Vol
.I.
15)
Il che spiega allora come
nell’abside di Santa Maria a piè di Chienti di Montecosaro Scalo (MC)
si raffiguri un Cristo in Maestà
con un San Giovanni Battista
ed una Madonna , divenuta della
Misericordia, con essa immagine calcando, in quell’anno 1447, su di
un significato che certamente derivava da una qualche vicina Deesis,
e forse, proprio da questa di Castignano.
16)
La descrizione a mappa del Giudizio di Santa Maria in Piano si legge in G.
Rasetti, 1935 cit, pp.121-128; e ancora nel suo saggio La visione di Alberico e un affresco del secolo XIII (sic), in
“Tempo Nostro”, Pescara 15 giugno 1932; 2° ed. Roma 1959.
17)
G: Rasetti, La visione cit.
18)
La Visione di Alberico fu
pubblicato da P.M. Iguanez in “Miscellanea Cassinese”,XI,
1932,pp.88-103.
19)
S. Dell’Orso, vedi nota in questo testo, n.11
20)
v. E.Marighetto, Santa Maria in
Piano, 1996,pp. 96-98, “Appendice”, pp.125-127,
nella quale ultima si riferisce
dello studio di Anita Seppilli, La
sacralità dell’acqua e il sacrilegio dei ponti, Sellerio ed.,
1977/1990, 2° ed., traendone un succinto
ma efficace riassunto.
Sempre
rammentando gli argomenti contenuti nello
specifico saggio della Dell’Orso (Il “Ponte”, cit), è per comodità di lettura che
dall’Appendice cit. estrapoliamo le osservazioni da ritenersi le più
interessanti in rapporto alla nostra figurazione. Il “ponte della
prova”, dunque, è altrimenti detto il “ ponte del capello” ed è
presente nella letteratura persiana fin dal secolo VI a.C., dove è
chiamato “Cinvat-pererhu”,
ovvero “ponte che raduna”.Nella letteratura cirstiana il ponte è
presente la prima volta nella Visio
di San Paolo che, in origine
descritta entro una Apocalisse apocrifa del IV secolo, sarebbe poi satata
redatta diverse volte fra il IX e il XIII secolo. Ancora del ponte parla
la Visione di Tungdal, scritta in Irlanda nel XII secolo. Quasi tutte le
religioni antiche si rappresentano il passaggio dalla terra al cielo
tramite il ponte, che tutti varcano,
oppure che raduna per
il tragitto alla salvezza solamente i saggi.Aggiungo al catalogo
iconografico del “ponte” quale già raccolto dalla Dell’Orso, la
notizia che ancora agli inizi del Cinquecento si faceva ricorso a questa
immagine. Ad esempio, da parte di Amico Aspertini nel 1514 si affrescava
nella Biblioteca di San Michele in Bosco a Bologna un Giudizio Universale
cun un ponte sulla cui cima era una stanga in bilico che lanciava
verso l’alto i buoni e che faceva ricadere nell’abisso i cattivi ( v.
G.C. Malvasia, Felsina pittrice,
ed. a cura di Zanotti ,
Bologna 1841, I, p.116)
21)
E.Marighetto cit,p.96
22)La
Psicostasi risale alla religione
dell’antico Egitto, secondo i cui miti il cuore del defunto, dopo la
morte, viene pesato da Ambris, mentre Thot ne fa trascrivere il risultato
sul libro dei morti, da leggersi, da parte dell’’imputato’ davanti
al Tribunale di Osiride. Nell’immaginario religioso del mazdeismo, e
nella dottrina di Zoroastro, l’anima dopo il Giudizio dovrà sottoporsi
ad entrambe le prove: prima le sue azioni verranno pesate con una bilancia
d’oro, poi dovrà tentare di percorrere il “ponte del pagatore”. (da
G. Minois, Breve storia
dell’inferno, Paris 1994, ed. it. Il Mulino, 1996)
23)
S.Dell’Orso, Il “Ponte...”
cit.,p.329. Il libro divulgativo citato, recentemente (1996) dedicato a
lla chiesa di Santa Maria in Piano
a Loreto Aprutino dal suo parroco , Don Elio Marighetto,intitola
l’affresco del Giudizio “La grande visione
dell’oltretomba”, dato che in esso la regola iconica antica, di
derivazione bizantina, nel
rappresentare questo tema riassorbe la varietà delle fantasie popolari
sull’oltretomba cristiano.
24)
Debbo la lettura alla eccellente D.ssa Maria Parenti della Soprintendenza
Archivistica di Bologna.
25)
V. in proposito M.G.Ciardi Duprè Dal Poggetto, Narrar Dante attraverso le immagini: le prime illustrazioni della
“Commedia”, in
Pagine di Dante. Le edizioni
della Divina Commedia dal torchio al computer, cat. della mostra
(Foligno, Ravenna, Firenze) a cura di R. Rusconi, Milano 1989, pp.81 -102.
26)
Fu Il fisiologo ( scritto in
Alessandria fra il II ed il V secolo d.C.) ad essere il fondamento di
tuttii successivi bestiari, ovvero dei testi di antica zoologia
allegorica. Nel Fisiologo si
legge, a proposito della natura del leone e del suo significato: “ Terza
natura del leone. Quando la leonessa genera il suo piccolo, lo genera
morto, e custodisce il figlio, finchè il terzo giorno giungerà il padre,
gli soffierà sul volto e lo desterà. Così anche il Dio nostro
onnipotente, il Padre di tutte le cose, il terzo giorno ha risuscitato dai
morti il suo Figlio primogenito di tutte le creature, il Signore nostro
Gesù Cristo, affinchè salvasse il genere umano smarrito.”( da Il
fisiologo, ed. a cura di F.Zamboni, Adelphi, Milano 1975,p.40)
27)
La scarsità della documentazione illustrativa
entro la bibliografia anche recentemente dedicata ai
Bestiari medievali impedisce di riconoscere con certezza gli
animali rappresentati in questo affresco- e la lettura vi è difficoltosa
anche a motivo dello stato di conservazione - , con
comprensione incerta della loro simbologia. Su questa antica
letteratura didattica, fra scientifica ed etico-allegorica, cfr. la
recente antologia a cura di Luigina Morini, Bestiari medievali, Torino 1996. Non è privo di interesse il fatto
che poco più di un secolo prima, nella vicina Ascoli Piceno, Cecco
d’Ascoli vi avesse composto quel poema,L’Acerba,
da identificarsi, appunto, come uno dei non molti bestiari scritti in
suolo italiano. In esso la donnola ( Acerba,XXX)
è vista come simbolo della vita contro la morte; la jena vi è simbolo
contrario, di morte contro la vita: “ Cava li morti dalla sepultura/
ienna e contrafà l’umana voce/ per devorar l’umana criatura/....sicchè,
peccando,divora noi morti/ se di risuscitar non siamo accorti”( ibidem,XLI)
28)
Oltre alle scritte il cui commento è già stato utilizzato in questo
testo, indico in nota quelle che sono riuscita a leggere: al di sotto
dell’angelo che scrive nel registro dei risorti è il nome
AGNEL ( = ANGEL) MICH (...); al di sotto della peccatrice che nella
bolgia della lussuria ‘ avvolta da un serpentello teniato e che brucia
tra le fiamme , si legge parzialmente GITA
ALABISSO. Al di sotto della seconda coppia dei risorti a partire da
sinistra: (...) DA LIMITE (...);
29)G.
Minois , Breve storia cit.,
p.55.
Daniela Ferriani
La
tecnica antica. Il restauro.
Il
dipinto è tecnicamente un affresco: sul muro steso in mattoni è steso un
primo strato di malta, il cosiddetto arriccio, servito per regolare la
superficie muraria. In parte furonno utilizzati per questo gli intonaci di
dipinti murali più antichi, picchiettandone la superficie per fare meglio
aderire il secondo strato di intonaco, il cosiddetto intonachino.
Gli
strati di intonaco che troviamo applicati sono essenzialmente due; la
malta è composta di un inerte in sabbia di cava di colore giallastro
molto ricca di impurità argillose, miscelata con legante a calce aerea.
Sia
l’intonaco d’arriccio che l’intonachino di finitura sono molto
simili nella composizione: la caratteristica tecnica che li differenzia
è che nell’intonaco di finitura sono addizionati alla malta dei
frustoli vegetali che servirono al pittore per rallentare l’asciugatura
dell’intonaco . I due intonaci formano uno spessore che varia dai 2 ai 3
cm. su tutta la superficie.
Sull’arriccio,
in molte zone scoperto e non più recante l’intonaco dipinto, si sono
riscontrati alcuni segni e linee, eseguite col filo battuto, tanto da far
pensare ad una sinopia a partizione geometrica, senza tracce di un abbozzo
generale della composizione. Sull’intonachino, invece, sono state
riscontrate incisioni dirette
e indirette con l’uso del cartone per il trasporto dei disegni ( vedi:
trono e mandorla del Cristo, parti dell’architettura, e alcuni diavoli).
Le
aureole dei beati e del Cristo sono state realizzate con l’intonaco in
rilievo, quindi trattate con foglia d’argento e di stagno e ,di
conseguenza, poi meccate. Tale tecnica è stata utilizzata largamente
nelle finiture delle vesti e nelle armature degli angeli musicanti, nel
cielo con stelle ( non più visibili) e nella mandorla del Cristo.
I
colori applicati quando l’intonaco era ancora fresco con il processo di
carbonatazione creato dalla calce, sono inglobati formando un tutt’uno
resistentissimo.
La
composizione dipinta si può articolare in due fasi esecutive principali:
il cielo con i Santi, i Beati il Cristo in trono e gli angeli musicanti,
ha un fondo di colore bruno scuro ad affresco sul quale era applicato a
secco, con un adesivo di origine animale, l’azzurrite che si presenta
oggi solo in tracce e che è totalmente scomparsa perché bruciata dalla
calce applicata nei vari scialbi e intonaci che poi ricoprirono ildipinto.
Nell’esecuzione delle rocce dei canali dell’Inferno si fa largo uso di
terra verde, addizionata a nero di vite e a bianco San Giovanni, il che
crea un aspetto generale molto lucido , levigato e compatto nei tratti
rimasti. In generale il dipinto aveva varie finiture a secco che si sono
mal conservate come,ad esempio, le
scritte in caratteri gotici che etichettavano i peccati o gli avvenimenti
che avvenivano nel grande “manifesto dipinto”
Nell’affresco
in modo frammentario sono state ritrovate le giunte di giornata con
estensioni più ampie nella zona superiore della composizione e più
piccole in quella inferiore.
La
parete dove risiede il dipinto ha subito le più svariate modifiche e
manomissioni , fino alla creazione di una nicchia che ne ha bucato la
muratura con conseguente applicazione di un altare ad ancona lignea. Il
dipinto in tal modo è stato per lungo tempo occultato anche da intonaci e
coloriture a calce fino alla sua riscoperta, dopo una serie di saggi
stratigrafici che hanno permesso di verificarne la consistenza e
l’estensione.
La
scopertura dell’affresco è stata eseguita contemporaneamente al
consolidamento dell’intonaco che versava in cattivo stato di adesione al
supporto murario. Tale intervento è stato eseguito con iniezioni collanti
di calce a basso contenuto di sali (P.L.M.) asportando meccanicamente gli
intonaci sovrammessi e le parti di intonaco a calce e gesso che
integravano le parti mancanti nella muratura.
Dopo
una asportazione parziale degli scialbi si è operato ammorbidendoli con
l’ausilio di impacchi alcalini a carbonato d’ammonio ed E.D.T.A al 10%
in soluzione acquosa supportati con polpa di carta ( Arbocel 1000).
Il
consolidamento degli intonaci e la pulitura delle superfici dipinte sono
state le operazioni più complesse di tutto il restauro.In senso
strutturale sono state risarcite a mattoni
le bucature insieme con la grande nicchia; quindi si è integrato
con un intonaco del colore di quello originale le parti mancanti cercando
di ridare una lettura dell’intero alla zona del dipinto.
Per
le parti più piccole e per le zone dove era possibile integrare, si è
operato in due direzioni, velando con colori ad acquerello le parti di
pittura abrasa, o integrando a selezione cromatica su stuccatura a
polyfilla le mancanze di piccole dimensioni.
Il
fissaggio di alcune porzioni di dipinto , fase conclusiva
dell’intervento di restauro, è stato eseguito a resina acrilica a
solvente al 2,5%.
Fabio Bevilacqua
Giuliana
Veltroni
(C.R.C.Restauri - Bologna),
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