ESICASMO |
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Quiesce: rimani nella pace interiore |
Introduzione
La
comunità apostolica, riprendendo una tradizione antico-testamentaria, ha
posto, fin dall'inizio, una attenzione tutta particolare per il Nome che ha
assunto il Figlio di Dio al momento della sua incarnazione: Gesù,
che significa Jhwh è salvezza. Inoltre tre testi mettono in
evidenza la venerazione della Chiesa primitiva verso il nome di Gesù: Fil
2,9-10; At 4,10-12; Gv 16,23-24. Tuttavia
la Preghiera del cuore, radicata nel Nuovo Testamento, viene assunta da una
«corrente» propria della spiritualità orien tale
antica che è stata chiamata esicasmo. Il nome proviene dal greco hesychìa che significa: calma, pace, tranquillità, assenza di
preoccupazione. L'esicasmo può essere
definito come un sistema spirituale di orientamento essenzialmente
contemplativo che ricerca la perfezione (deificazione) dell'uomo nella unione
con Dio tramite la preghiera incessante. Tuttavia
ciò che caratterizza tale movimento è sicuramente l'affermazione della
eccellenza o della necessità della stessa hesychia,
della quiete, per raggiungere la pace con Dio. In un documento del
monastero di Iviron del monte Athos, si legge questa definizione: «L'esicasta è colui che solo
parla a Dio solo e lo prega senza posa». Gli
esicasti, inserendosi nella tradizione biblica, esprimeranno l'esperienza
della preghiera. contemplativa attraverso l'invocazione e l'attenzione del
cuore al Nome di Gesù, per camminare alla sua presenza, essere liberati da
ogni peccato e rimanere nel dolce riposo di Dio in ascolto della sua parola
silenziosa. La
storia dell'esicasmo inizia con i monaci del deserto d'Egitto e di Gaza. «A
noi, piccoli e deboli, non ci resta altro da fare che rifugiarci nel Nome di Gesù», dice uno di loro. Si afferma poi al
monastero del Sinai, con san Giovanni Climaco. Un esponente di spicco è
sicuramente Simeone
il Nuovo Teologo.
Rinascerà al Monte Athos nel sec. XIV. Il
termine greco hesychìa viene
tradotto in latino con quies, pax,
tranquillitas, silentium. In
genere esichia significa quiete, ma può anche voler esprimere la pace
profonda del cuore. L'etimologia è incerta: forse il verbo da cui deriva, hèsthai, significa essere assiso,
stare seduto. Nella
letteratura monastica esichia rivela almeno due significati. Prima di tutto
tranquillità, quiete e pace come stato d'animo, e condizione stabile del
cuore necessaria per la contemplazione. Significa ancora distacco dal mondo
nella doppia accezione di solitudine e silenzio. L'esichia
espressa nella pace, quiete, solitudine e silenzio interiore, che viene
raggiunta attraverso la solitudine e il silenzio esteriore, si presenta
tuttavia come un mezzo eccellente per raggiungere il fine dell'unione con Dio nella contemplazione, attraverso la
preghiera o l'orazione ininterrotta.
In quanto mezzo e non fine l'esichia va distinta sia dalla apàtheià degli Stoici, intesa come
assenza e liberazione dalle quattro passioni fondamentali, la tristezza, il
timore, il desiderio e il piacere; sia dall'ataraxia degli Epicurei,che consiste nella libertà dell'anima
dalle preoccupazioni della vita. Questi
movimenti filosofici sottolineano e ricercano la pace e la quiéte dell'animo,
solo come fine ultimo e non come mezzo per una pienezza di vita che solo Dio
può concedere. Nella letteratura monastica al contrario e in particolare
presso i Padri del deserto, l'esichia mantiene sempre una coloritura di mezzo e non di fine. Questa è un mezzo éccellente, un cammino di amore
autentico, vissuto nel silenzio e nella solitudine al fine di raggiungere la
preghiera vera e l'autentica contemplazione. L'esichia in definitiva è l'atteggiamento di chi nel proprio cuore si
pone alla presenza di Dio. Per
cogliere i vari aspetti dell'esichia che il monaco è chiamato ad esprimere
possiamo riferirci alla vita di padre Arsenio, il padre degli anacoreti. Ecco
come viene raccontata la sua vocazione all'esichia: «Abbà
Arsenio, quando ancora abitava nel palazzo imperiale, pregò Dio con queste
parole: "Signore mostrami la strada
che conduce alla salvezza". E una voce si rivolse a lui e gli disse:
"Arsenio fuggi gli uomini e sarai salvato". Lo
stesso, divenuto anacoreta, nella sua condizione di eremita, di nuovo rivolse
a Dio la stessa preghiera, e intese una voce che gli disse: "Arsenio fuggi (il mondo), resta in silenzio e riposa nella pace (esichia).
È da queste radici che nasce la possibilità di non peccare"» (Arsenio 1.2). Quest'ultima
frase è all'inizio della vocazione degli esicasti: «Fuge, Tace, Quiesce:
Fuggi, Taci, Riposa». La
fuga dal mondo, il silenzio e la pace interiore sono i tre atteggiamenti che
danno forma allo stato di vita del monaco, in particolare dell' anacoreta. Il
monaco autentico è chiamato a vivere prima di tutto la solitudine. I Padri
del deserto, sottolineano con grande forza la fuga dagli uomini, la necessità
cioè di ridurre al minimo il contatto con essi. Si racconta in proposito: «Il
beato arcivescovo Teofilo, si recò una volta dal padre Arsenio in compagnia
di un magistrato. Chiese all'anziano di udire da lui una parola. Dopo un
attimo di silenzio, egli rispose loro: "E se ve la dico, la
osserverete?". Promisero di farlo. Disse loro l'anziano: "Dovunque
sappiate che ci sia Arsenio, non avvicinatevi"» (Àrsenio 7). «Il
padre Marco disse al padre Arsenio: "Perché ci sfuggi?". L'anziano
gli dice: "Dio sa che vi amo. Ma non posso essere contemporaneamente con
Dio e con gli uomini. Le schiere celesti che sono migliaia hanno un'unica
volontà, mentre gli uomini ne hanno tante. Perciò non posso lasciare Dio per
venire dagli uomini"» (Arsenio 13).
Alcuni
contatti discreti con il mondo possono essere anche vantaggiosi. Tuttavia
solo per quei monaci che hanno acquisito una grande maturità spirituale e ai
quali è comandato espressamente da Dio. Ma per lo più il monaco è invitato a
garantirsi una zona di calma, di silenzio, di solitudine per ricevere la
formazione da parte di Dio e abituarsi alla sua silenziosa presenza. L'esichia
come solitudine non vuol dire solo fuga dal mondo, ma indica pure una certa
stabilità in un determinato luogo solitario. Questa esigenza è espressa con
un famosa formula che poi è divenuta tradizionale: «Rimani nella tua cella, resta nel tuo eremo, ed essa ti insegnerà
ogni cosa» (Mosè 6). «Insegnerà ogni cosa» è la stessa frase che troviamo in
bocca a Gesù quando preannunzia la venuta dello Spirito (Gv 14,26). Rimanere
nella solitudine della cella è allora apertura allo Spirito, al suo fuoco e
alla sua luce. L'abbà Macario l'Egiziano lega insieme la fuga dagli uoniini e
il restare in cella: «Il padre Isaia chiese al padre Macario: "Dinnni
una parola". E l'anziano gli dice: 'Fuggi gli uomini! ,. E il padre
Isaia a lui: "Che cosa,significa fuggire gli uomini?". L'anziano
gli disse: "Significa rimanere nella tua celia e piangere i tuoi
peccati" » (Macario E. 27). E
rivolgendosi all'abbà Aio gli dirà: «Fuggi gli uomini, rimani nella tua cella
a piangere i tuoi peccati, e non amare la conversazione con gli uomini. E ti
salverai» (Macario E. 41). Infatti
la celia è l'ambiente per l'esichia, dirà lo stesso Antonio il grande: «Come
i pesci muoiono se restano sulla terra secca, così i monaci che si attardano
fuori della cella o si trattengono con la gente, perdono la forza necessaria
all'esichia. Come dunque il pesce al mare così noi dobbiamo correre alla
cella; perché non accada che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire
il di dentro» (Antonio 10). La
solitudine può esprimersi pure in un atteggiamento di continuo pellegrinaggio
da un luogo ad un altro. Ogni luogo infatti deve essere estraneo al monaco.
Una tale estraneità - xenitèia -
indica una sorta di esilio volontario lontano dalle cose mondane. Afferma san
Nilo: «Il primo dei grandi combattimenti consiste nella xenitèia, cioè nell'emigrare solo spogliandosi come un atleta,
,,della propia patria, della propria razza, dei propri beni». Il passare da
un luogo ad un altro è imitare il cammino di Gesù, come dimostra la storiella
seguente: «Del
padre Agatone raccontavano che impiegò molto tempo assieme ai suoi discepoli
per costruire una cella. Quando l'ebbero finita, cominciarono ad abitarvi, ma
già dalla prima settimana vide qualcosa che gli pareva non giovasse e disse
ai suoi discepoli: "Alzatevi andiamo via di qui" (Gv 1,3l). Ne
furono molto turbati e dissero: "Se proprio avevi l'intenzione di
andartène perché abbiamo tanto faticato per costruire la cella? La gente si
scandalizzerà di nuovo e dirà: Ecco, questi instabili, che se ne vanno di
nuovo". Vedendoli così avviliti, egli disse loro: "Se anche alcuni
si scandalizzeranno, altri, a loro volta, saranno edificati e diranno: Beati
costoro che per amore di Dio se ne sono andati disprezzando tutto. Comunque
chi vuole venire venga. Io adesso vado. Allora si gettarono a terra, pregando
che permettesse loro di partire con lui» (Agatone
6; cf. anche Amoe 5). Questi
ultimi apoftegmi ci permettono di sottolineare l'aspetto itinerante della
esichia. Certamente la cella è importante; ma non si può rimanere in essa con
lo spirito del proprietario. Il monaco sa di essere straniero su questa terra
e così abbandona tutto ciò che può distoglierlo dal servizio di Dio, vivendo
nel nascondimento e nell'attesa, sperando ardentemente nel ritorno del
Signore glorioso. La solitudine esteriore è certamente importante, ma più
necessaria è la solitudine del cuore. Qui si gioca l'autentica esichia,
ovvero l'eremitismo o l'anacoresi interiore, il monachesimo del cuore, il solo che può condurre alla Preghiera di Gesù. Nella
solitudine il monaco è chiamato a vivere il silenzio. La voce che Arsenio
aveva udita si era infatti espressa nei termini che sappiamo: fuge, tace, quiesce. Il
silenzio che esprimono i Padri del deserto, come giustamente è stato detto,
«è un silenzio dai mille nomi e dai mille volti dove ogni cosa è al suo
posto, è un silenzio prezioso per l'anima, un silenzio che sta dalla parte
della trascendenza. Dai vari apoftegmi emerge che il silenzio dei Padri del
deserto è il silenzio dell'umiltà, del tacere di se stessi, è il silenzio che
toglie le parole all'egoismo, alla superbia, all'amor proprio, è il silenzio
di chi si fa pellegrino e straniero, ma è anche il silenzio dell'amore, il
silenzio di chi non giudica il prossimo, di chi non parla o sparla degli
altri, infine è il silenzio della fede, di chi si fida del Totalmente Altro,
di chi si è messo completamente nelle sue mani». Consideriamo
alcuni particolari di questo grande silenzio. La
preghiera perpetua è il problema
pratico fondamentale che viene dibattuto molto nei primi secoli cristiani. I
monaci avevano il dovere di realizzare questo comando della Scrittura, più di
tutti gli altri cristiani. Il loro amore per il silenzio è senz'altro la
forma, il clima, la dialettica stessa della preghiera ininterrotta Il
silenzio è come una cella e una sorta di eremo portatile da cui l'uomo di
preghiera non uscirà mai anche quando per motivi di carità, dovrà andarsene
dalla sua cella visibile. Afferma il grande Poemen «Se tu sarai nel silenzio
tu otterrai il riposo in qualsiasi luogo abiterai» (Poemen 84). Custodire
il silenzio, quando si presenta l'occasione di parlare, è la vera fuga dagli
uomini: «Dominare la propria lingua ecco la vera estraneità - xenitèia -»,
afferma abbà Titoes;(veD 84). «Il
padre Giovanni era fervente nello Spirito. Venne un tale a visitarlo e lodò
il suo lavoro: stava lavorando alla corda, e rimase in silenzio. Tentò una
seconda volta di farlo parlare, ma egli continuava a tacere. La terza volta
disse al visitatore: "Da quando sei venuto qui, hai allontanato da me
Dio"» (Giovanni Nano 32). «A
Scete il grande abbà Macario, quando si scioglieva l'assemblea, diceva:
"Fuggite, fratelli". Uno degli anziani gli chiese: "Dove
possiamo fuggire di più che in questo deserto?" Egli poneva il dito
sulla bocca dicendo: "Questo fuggite!" e entrato nella sua cella,
chiudeva la porta e si sedeva (si poneva in esichia)» (Macario E. 16). Il
silenzio a cui invitano i Padri del deserto è anche testimonianza. Secondo la
loro esperienza è necessario parlare con le opere e non con la lingua. E il
proprio cammino di fede che opera, le parole sono spesso inutili. «Un
fratello chiese al padre Sisoes: "Dimmi una parola". Gli disse:
"Perché mi costringi a parlare inutilmente? Ecco, fa' ciò che
vedi"» (Sisoes 45). «Un
fratello chiese al padre Poemen: "Dei fratelli vivono con me; vuoi che
dia loro ordini?". "No - gli dice l'anziano - fa' il tuo lavoro tu,
prima di tutto; e se vogliono vivere penseranno a se stessi". Il
fratello gli dice: "Ma sono proprio loro, padre, a volere che io dia
loro ordini". Dice a lui l'anziano: "No! Diventa
per loro un modello, non un legislatore"» (Poemen
174). L'abate
Isaia disse ancora: «Non deve essere la tua lingua a parlare, ma le tue
opere, e le tue parole siano più umili delle tue opere. Non pensare senza
intelligenza, non insegnare senza
umiltà, affinché la terra possa ricevere il tuo seme». I
frutti del silenzio secondo i Padri del deserto sono molteplici. Il silenzio
dona la quiete (Poemen 84); genera
la castità (Detti V,25); è di aiuto
contro gli empi (Detti XI, 7);
conserva l'animo nella pace (Matoes 11);
il silenzio è umiltà (Detti XV,76);
il silenzio aiuta a non giudicare il prossimo, a non condannare nessuno, è
rimedio contro la maldicenza; è scuola di tolleranza e benevolenza verso
tutti (Ammone 8). Tuttavia
un tale silenzio richiede molto coraggio. Afferma Poemen: «La prima volta
fuggi, la seconda fuggi, la terza diventa
una spada» (Poemen 140). Quiesce: rimani nella pace interiore Solitudine
e silenzio praticati concretamente, rappresentano dunque per i Padri del
deserto, il momento fondamentale dell'esichia del corpo, dell'esichia
esteriore. Una quiete che seppure esterna è fondamentale. Infatti, come
afferma Macario: «Nessuno può avere l'esichia dell'anima, se non si è
assicurato dapprima quella del corpo». Certamente
però è 1' esichia interiore il cardine essenziale della spiritualità
monastica orientale. Dalla solitudine e dall'assenza di parole il monaco è
chiamato a passare al silenzio profondo attivo e creativo. E questo è
tutt'altro che quietismo. Al contrario è «ricerca della sola quiete
possibile, che è la pace di Cristo, la pace esultante di Dio nel fondo del
cuore». Il
monaco si consacra per vocazione a perseguire unicamente l'unione con Dio,
attraverso la preghiera, che a sua volta presuppone il totale distacco, la
perfetta purificazione, la rinuncia a tutto ciò che potrebbe rallentare il
suo cammino spirituale. I
Padri del deserto «hanno spesso ricordato che Gesù, anche dopo il primo
ritiro nel deserto, ha spesse volte cercato la solitudine. La solitudine pone
dunque il monaco al centro stesso del mistero della redenzione, in una
configurazione al Cristo che tocca l'apice più doloroso, ma anche il più
fecondo della sua opera di salvezza. In, questo modo il legame tra solitudine
e preghiera prolungata, estasi e sofferenza viene solidamente affermato» La ricerca cristiana della solitudine, del silenzio e della pace interiore potrebbe anche apparire una sofisticata spinta egoistica. Ma non è così. «Consacrare interamente la propria vita terrena perché Dio sia tutto in tutte le cose è precisamente l'opposto dell'egoismo. E partecipare nel modo più generoso possibile, dopo il martirio, alla grande opera di Dio-Carità» . (tratto
da: M. BRUNINI: La preghiera del cuore nella spiritualità orientale, ed.
Messaggero - Padova, testo di riferimento in ambito cattolico per quanti si
accostano per la prima volta allo studio dell'esicasmo e della preghiera del
cuore). |