LA TRADIZIONE E I PADRI |
Premessa La
preghiera di Gesù ha le sue radici nel Nuovo Testamento, ma, al di là di
esso, affonda nell’ Antica Alleanza. Numerosissimi sono, nei testi biblici, i
riferimenti alla preghiera in genere; qui ci interessano, per così dire, i
germogli di quello che diventerà il metodo esicastico di preghiera. |
Testimonianza delle ScrittureIl nome di DioPresso gli antichi,
nominare una cosa o una persona equivale a donarle l'esistenza. Nominare,
emettere il suono del nome, influisce su ciò che è nominato. Per gli ebrei il
nome di Dio, rappresentato dalle quattro lettere che formano il tetragramma yhwh (Jahvè), era considerato santo.
Una volta l'anno, il giorno del Kippur, il sommo sacerdote lo proclamava in
segreto nel Santo dei santi del tempio. L'esegesi e
l'invocazione dei nomi divini facevano parte delle pratiche esoteriche dei
cabalisti. Nei vangeli è l'angelo, messaggero di Dio, a rivelare il nome di
Gesù a Giuseppe (Mt 1,21) e a Maria (Lc 1,31). L'angelo comunica il nome del
Salvatore e annuncia il suo regno. Per molti secoli in Occidente si è
trascurata la funzione degli angeli nella vita spirituale, ma la loro
presenza svolge un ruolo importantissimo nel cammino dell’uomo verso Dio.
Come ogni termine scritto in ebraico, il nome di Gesù è denso di significati
che si completano tra loro in modo armonico. Di solito lo si traduce con
l'espressione «Jahvè è salvezza». Numerosi passi del
Nuovo Testamento mostrano la venerazione della quale è fatto oggetto il nome
di Gesù. “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo”; (At 2,21). La
potenza salvifica del nome divino è fortemente sottolineata in questo
versetto. Nella lettera ai Romani (10, 9-13) san Paolo fa uso della stessa
formula, dopo aver precisato che il Signore è generoso verso tutti quelli che
lo invocano. Del nome divino egli dice ancora: «lo ha sopraesaltato ed
insignito quel Nome che è superiore ad ogni nome affinché nel nome di Gesù,
si pieghi ogni ginocchio degli esseri celesti, dei terrestri e dei
sotterranei, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è Signore, a gloria di
Dio Padre» (Fil 2,9-11). Ciò riecheggia un passo del bel testo intitolato Il pastore di Erma, scritto anonimo del Il secolo, dove è asserito che il
nome del Figlio di Dio sostiene il mondo intero (3,14). L'autore della lettera
agli Ebrei (Eb 1,4) afferma che il Figlio di Dio è « tanto superiore agli
angeli, quanto più eccellente del loro è il nome che ha ricevuto in eredità». Gesù stesso insegna ai
suoi discepoli l'efficacia dell'invocazione del suo proprio nome: «Quanto
chiederete nel mio nome lo farò affinché il Padre sia glorificato nel figlio.
Se mi chiederete qualche cosa nel mio, io lo farò» Gv,13-14). E ancora: «In
verità, in verità vi dico: cosa chiediate al Padre nel nome mio, nel mio nome
ve la darà. [...] Chiedete e riceverete, in modo che la vostra gioia sia
completa» (Gv16,23-24). L'invocazione del solo
Gesù non contraddice l'insegnamento secondo il quale Dio è Padre, Figlio e
Spirito Santo. Invocando: «Signore
Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me», noi conosciamo il Padre
che fece dire da un angelo a Giuseppe di chiamare il Cristo Gesù (Mt 1,21). E
san Paolo mette in rilievo che «nessuno può dire: "Gesù Signore" se non in virtù dello Spirito Santo» (1Cor
12,3). La preghiera continuaNel vangelo di san
Luca, più volte, ci è possibile vedere Gesù stesso in preghiera: al suo
battesimo (3,21), nel deserto (5,16), sulla
montagna prima di scegliere i Dodici (6,12), sul monte Tabor, prima della
trasfigurazione (9,28-29), prima di insegnare in che modo pregare (11,1).
Gesù invita a pregare incessantemente
(18,1-7): «Raccontò loro una parabola per mostrare che dovevano pregare sempre, senza stancarsi mai.
Dio non farà giustizia dei suoi eletti che lo invocano giorno e notte?
Tarderà ad aiutarli?. L'ingiunzione è chiara: bisogna pregare giorno e notte,
rimanere vigili, così da poter dire: « Io dormivo, ma il mio cuore era
desto...» (Ct 5,2). Il capitolo 18 del
vangelo di san Luca offre al lettore la formula originaria della preghiera
del cuore. Nella parabola del fariseo e del pubblicano, quest'ultimo grida: «O Dio, sii benigno con me, peccatore»
(18,13); a Gerico, il cieco supplica: «Gesù,
figlio di Davide, abbi pietà di me! » (18,38). È il Kyrie elèison (Signore
abbi pietà), che costituirà la forma primitiva della preghiera ripetuta
costantemente nelle liturgie orientali. Quanto al «figlio di Davide», i
cristiani diranno ovviamente « Figlio di Dio». L'esortazione a pregare
senza interruzione Gesù nelle lettere di san Paolo. “Pregate senza interruzione” (lTs 5,17). Non si potrebbe essere
più precisi nella brevità. « Mossi
dallo Spirito, pregate incessantemente con ogni sorta di preghiera e
supplica; vegliate e siate assidui nell'orazione per tutti i santi» (Ef
6,18). In ogni momento del giorno o della notte, l'invocazione fiduciosa
purificherà il cuore di colui che prega nell' attesa dell'aurora spirituale. I testi dell'Antica
Alleanza fanno sovente riferimento all'ascolto: «Ascolta, Israele» (Dt 4,1);
con la Nuova Alleanza, Dio diviene visibile e sfolgorante di gloria sul monte
Tabor (Lc 9, 29-32). Egli ci invita nel suo regno (lTs 2,12), questo “regno dei cieli che è in noi” (Lc
17,21) e non nel mondo o nel tempo, dato che « Il mio regno non è di questo
mondo». Nel vangelo apocrifo di
Tomaso, Gesù risponde a quanti lo interrogano: «Se coloro che vi dirigono vi
dicono: Ecco, il regno di Dio è in cielo! Allora gli uccelli del cielo vi
precederanno. Se vi dicono: E nel mare! Allora i pesci del mare vi
precederanno. Il regno è invece dentro di voi e fuori di voi. Quando vi conoscerete,
allora sarete conosciuti e saprete che voi siete i figli del Padre che
vive » Dai tempi degli Apostoli ai padri del deserto Si hanno scarse
informazioni sulla natura delle pratiche spirituali alle quali si dedicavano
i primi cristiana. Senza dubbio essi usavano recitare, passi delle Scritture
conosciuti a memoria col cuore ; quanto all'invocazione costante del nome di
Gesù, non se ne trova traccia anteriormente al IV secolo. Le prime generazioni di
cristiani non conobbero in alcun modo la fuga nel deserto, l'« anacoresi ». È
alla fine del III secolo, e soprattutto nel IV, dopo che il cristianesimo era
stato dichiarato religione di Stato, che ha luogo un esodo di massa verso i
deserti d'Egitto, della Palestina, della Siria e della Mesopotamia La Chiesa
incomincia ad assumere una posizione stabile nella storia, sembra che possa
aver termine la testimonianza di sacrificio del martire (testimone, in
greco). La perfezione del martire ed il suo conflitto col mondo, che non lo
respinge più ma anzi rischia di opprimerlo, assumono così un nuovo aspetto.
Nel deserto, immensa arena senza gradini, lontano dalle città, dagli sguardi
e dai troppi rumori, sede di una sfida infiammata dal fervore della rinuncia,
tomba del vecchio uomo e culla dei figli della luce, lo Sposo divino attira
la sposa per parlare al suo cuore (Os 2,16), perché dall'arida terra germogli
un giardino (Is 35,1). « I padri che si
recavano nel deserto non avevano sete perché erano nel deserto, ma andavano
nel deserto perché avevano sete » (Jean Brun) Non fuggivano nel deserto per
salvarsi, ma per esservi salvati. Insieme alle Vite, sono le raccolte di Apoftegmi, di detti memorabili, che ci
informano sulle pratiche spirituali dei padri del deserto. Da quelle
memorabili parole, nate dalla profondità del silenzio, si desume che alcuni
monaci si dedicavano alla preghiera continua e a quello che essi definivano
«il ricordo di Dio e riposo in Dio » Il padre (abbà) è un
anziano, cioè un uomo esperto nell'ascesi, fine conoscitore dell'anima, ma
non necessariamente un vecchio. La sentenza espressa dall'abate ha un valore
anzitutto individuale: le giuste parole, al momento opportuno, costituiscono
un viatico per quando i monaci si trovano disorientati nel dubbio o
nell'accidia. La preghiera breve e continuaI padri non sono tenuti
a rivelare il segreto della loro preghiera personale, né a fornire
indicazioni precise intorno al modo di pregare; Su due o tremila apoftegmi,
solo una ventina testimoniano della preghiera di monaci che facevano uso di
una sola o di diverse formule. Per i padri, la preghiera è una preghiera
vocale e di domanda. Generalmente la
preghiera incomincia (orazione giaculatoria) è una breve formula detta
monologica». Il tèrmine monològistos viene
usata da san Giovanni Climaco nel VII secolo e si applica a una preghiera
che esclude la molteplicita' delle parole e dei pensieri. La monologia
raccoglie e riequilibra; la polilogia disperde: « Pregando, poi, non sprecate parole come i gentili, i quali
credono di essere esauditi per la loro verbosità» (Mt 6,7). Nelle sue Conferenze spirituali san Giovanni
Cassiano menziona l’esistenza presso i padri del deserto d'Egitto, a partire
IV secolo, di una forma di preghiera monologica (monologistos proseuchè. Questa consiste nella ripetizione
incessante dei versetti del salmo 69. La preghiera breve si propone due
finalità: purificare il cuore e conservare vivo il ricordo di Dio, entrambe
capaci di elevare alla contemplazione colui che prega. Alla domanda « come
bisogna pregare? », abbà Macario risponde: « Non c'è bisogno di dire vane
parole, ma di tendere le mani e dire: Signore
come vuoi e come sai, abbi » pietà di me; Quando sopraggiunge una
tentazione, basta dire: “Signore
aiutami! Questo apoftegma
costituisce le prime testimonianze di preghiera continua. Un altro apoftegma
riporta che abbà Beniamino impartisce ai suoi discepoli la raccomandazione di
san Paolo ai Tessalonicesi: «State sempre lieti, pregate incessantemente, in
ogni cosa rendete grazie». La preghiera è volta
alla ricerca della pace (la hésychia). Ad
un fratello che lo interroga sulla maniera di comportarsi nel luogo in cui
vive, l'abate Poemen risponde: « Là dove abiti, abbi la mentalità di uno
straniero, così da non tentare di far sfoggio della tua parola, e avrai la
pace». In modo analogo, a un monaco cui manca il coraggio quando prega solo
nella sua cella, l'abate dice: «Non disprezzate, non
condannate né accusate alcuno; Dio vi farà dono della pace e mediterete in
tranquillità». Che l'incessante flusso
dei pensieri, simile a onde sul mare in tempesta, si calmi a poco a poco sino
a che la superficie, divenuta perfettamente liscia, possa riflettere senza
diffrazione la luce dell'Unico. L'invocazione di Gesu'Per quanto riguarda la
ripetizione costante del nome di Gesù, è opportuno distinguere l'invocazione
periodica di Gesù, richiesta di soccorso o di perdono, dall'invocazione
continua di cui la raccolta copta Virtù
di san Macario fornisce diverse formulazioni, come ad esempio “Mio Signore, Gesù Cristo, abbi pietà di
me”, oppure “Mio Signore,
soccorrimi ». Quattro apoftegmi,
tratti da una raccolta di una collezione monastica etiopica, propongono una
formula quasi identica. In uno di essi abbà Paolo dice: « Quando vivi in una
comunità, lavora e impara, e lentamente volgi lo sguardo in alto verso il
cielo e nel tuo cuore di' al Signore: “Gesù,
abbi pietà di me; Gesù, soccorrimi; io ti benedico, mio Dio”. Una raccolta araba di
apoftegmi, dal titolo Giardino dei
monaci, contiene un cospicuo numero di riferimenti al ricordo e
all'invocazione del nome di Gesù. Ecco due esempi di queste massime che
risalgono alla fine del VI o del VII secolo: Un vegliardo ha detto: « Non c'è
virtù comparabile alla continuità della preghiera e della supplica rivolta in
ogni momento al nome di nostro Signore Gesù Cristo, sia con le labbra nella
solitudine, sia nel cuore e allora senza manifestazione esteriore ». Un vegliardo ha detto:
«Accendi il tuo animo quando ti trattieni nella cella, e abbi il cuore
servizievole, piuttosto che il corpo, poiché Dio vuole che il cuore sia
sempre unito al suo santo nome come uno schiavo legato ai suo padrone e pieno
di timore ». Il potere del nome di
Gesù è dimostrato dalla massima seguente. Abbà Anub diceva: «Dal giorno in
cui il nome di Cristo è stato invocato su di me, nessuna menzogna è uscita
dalla mia bocca ». Di fatto, il nome di Gesù compare molto raramente negli
apoftegmi. Gli apoftegmi non
costituiscono le sole attestazioni concernenti la pratica della preghiera di
Gesù. Durante l'ufficio quotidiano, i monaci copti del deserto d'Egitto
cantavano delle composizioni poetiche: le Salmodie
al mio Signore Gesu'. Ad ogni giorno della settimana corrispondeva una
salmodia. Quella della domenica era composta di versetti scritturali, spesso
tratti da un salmo, seguiti dall'invocazione ogni volta ripetuta: «Mio Signore Gesù, vieni in mio soccorso».
Sono state inoltre portate alla luce delle iscrizioni del VII secolo nel deserto delle Celle
situato a circa quaranta chilometri a nord di quello di. Scete (1'odierna
Wadi Natrùn.) in una grotta, un iscrizione ricorda che, se si grida
costantamente “Signore Gesù! “, si
pregano al contempo il Padre e lo Spirito Santo. Un'altra fonte di
informazioni è costituita da alcuni manoscritti del X secolo. Due di essi
sono di un monaco del deserto di Scete il quale ha annotato, pagina dopo
pagina, una serie di quattro invocazioni disposte in sequenza. « Mio Signore Gesù, guidami», «Mio Signore Gesù vienimi in soccorso
», «Mio Signore Gesù, abbi pietà di me»
« Io ti benedico, mio Signore Gesù
». Questi pochi
riferimenti dimostrano quanto la preghiera di Gesù costituisse un aspetto
importante della spiritualità monastica. Al contrario i grandi
teologi greci del IV e V secolo contro ogni nostra aspettativa, non hanno
prestato una particolare attenzione al nome di Gesù. «I padri che hanno
influito sullo sviluppo della devozione verso il nome non erano dei dogmatici;
essi si sono tenuti più o meno al di fuori delle grandi correnti speculative,
concentrandosi invece sui problemi della vita interiore» (un monaco della
Chiesa d'Oriente). La preghiera secondo Evagrio PonticoTra i padri del
deserto, ve n'è uno che occupa una posizione particolare nella storia dello
sviluppo della preghiera di Gesù: Evagrio del Ponto ( il mar Nero) o Pontico
(346-399). Questi viene educato da
maestri come san Basilio e San Gregorio di Nazianzo, due celebri padri della
Cappadocia (Turchia). A Gerusalemme, conosce il pensiero di Origene (185-253/254). Verso il 383, Evagrio
si stabilisce nel deserto d'Egitto e là si fa monaco. Frequenta celebri
anacoreti, soprattutto Macario. L’opera di Evagrio
esercitò una forte influenza a Oriente e, attraverso Giovanni Cassiano, in
Occidente. Evagrio distingue nella
vita spirituale due tappe: 1. la praxis o vita pratica: lotta contro le
passione e i pensieri vani; al fine di raggiungere lo stato di apatheia (impassibilità), «uno stato
di tranquillità dell’ anima razionale che deriva dall’umiltà e dalla
temperanza », il quale permette di elevarsi attraverso la preghiera; 2. la theoria o vita gnostica:
contemplazione della natura e dell'essenza spirituale delle cose. Gradualmente, la
contemplazione si eleva e partecipa di quella degli angeli, sino a culminare
nella conoscenza di Dio. « Nel conoscere i
pensieri sulle creature, si presentano travagli e pene. La contemplazione
della Santa Trinità è pace e indicibile silenzio» (Problemi gnostici, Centuria I, 65). Nel suo Trattato sulla preghiera incluso nella
Filocalia, Evagrio mette in luce diversi tratti
caratteristici della preghiera del cuore, ma senza nominarla. «La preghiera è
una conversazione dello spirito con Dio. Cerca allora lo stato di cui l'anima
necessita per potersi offrire al suo Signore senza volgersi indietro, e
conversare con lui senza intermediari» (Trattato
su!la preghiera, 3) Levatasi dal fondo del
cuore, la preghiera sperimenta diversi gradi. Ciascun livello della scala
rappresenta una tappa provvisoria nella quale l'orante si mette a nudo.
«Sforzati di mantenere il tuo intelletto, durante la preghiera, sordo e muto
così potrai pregare» (ibid., 11).
Tenersi lontano da tutti i pensieri, non intrattenervisi, lasciarli
trascorrere o riposare come l'argilla in un'acqua torbida... Gli esicasti
parleranno, da parte loro, di « vigilanza del cuore». « Il tuo spirito divaga
durante la preghiera? E’ perché esso non prega ancora come un monaco, è
ancora mondano e preoccupato di abbellire la superficie esteriore » (ibid., 43). « Pregare come un monaco»
è pregare nella nudità dei pensieri, senza alcuna dispersione. Il monachesimo
è, coerentemente ai significato primo del termine monachòs, ricerca di unificazione e di unità. “Se lo Spirito non si
sofferma sui semplici, non ha per questo raggiunto il luogo della
preghiera... » (ibid., 56). Qui, «
luogo della preghiera » sta a significare quel che presto gli esicasti
designeranno «luogo del cuore ». (tratto da H-P.
RINCKEL, La preghiera del cuore -
ed. Paoline). |