BENEDETTO XVI
E’ TORNATO
ALLA CASA DEL PADRE
SABATO 31
DICEMBRE 2022
ALLE ORE 9,34
Deus caritas est (File
Zip) |
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Litterae
Apostolicae “Motu Proprio” |
Prima Enciclica del Papa |
Sacramentum
Caritatis (File Zip) Esortazione apostolica postsinodale |
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Spe Salvi (File Zip) |
Il discorso che il Papa non ha
potuto pronunciare alla “Sapienza” |
Seconda Enciclica del Papa |
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Caritas in
Veritate (File Zip) Terza Enciclica del Papa |
Il
Papa ai partecipanti al congresso internazionale organizzato dal Pontificio
Istituto Giovanni Paolo II di studi su matrimonio e famiglia in
collaborazione con i "Knights of Columbus" :Divorzio e aborto lasciano ferite da guarire |
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Pubblicata
la Lettera del Papa per l’apertura dell’Anno Sacerdotale (File
PDF) La
rinuncia al Soglio pontificio ( 11 febbraio 2013) (File
PDF) L’ultima udienza del Papa Il testo integrale
dell'ultimo discorso di Papa Benedetto XVI - Mer, 27/02/2013 |
Biografia di Papa
Benedetto XVI |
La vita, in
breve, di Papa Benedetto XVI |
1927 |
Nasce a Markt am Inn, in diocesi di Passau il 16
aprile 1927. Il padre, commissario della gendarmeria proveniva da una antica
famiglia di agricoltori della Bassa Baviera |
1939-1940 |
Trascorre l’adolescenza a Traunstein |
1945 |
Viene arruolato negli ultimi mesi di guerra nei
servizi ausiliari antiaerei |
1946-1951 |
Studia Filosofia e Teologia a Monaco e Frisinga |
1951 |
Ordinato sacerdote il 29 giugno, inizia
l’insegnamento |
1953-1954 |
Dottore in Teologia con la tesi << Popolo
e casa di Dio nella dottrina della Chiesa di Sant’Agostino >> |
1957-1958 |
Ottiene la docenza con uno studio su <<
Teologia della Storia in San Bonaventura >> |
1959-1969 |
Insegna a Bon |
1962 |
Consulente dell’ arcivescovo di Colonia al
Concilio Vaticano II |
1963 |
Dal 1963 al 1966 insegna a Munster |
1964-1965 |
Fa parte del gruppo dei << Konzilteenager
>>, i teologi teeneger del Concilio, che combattono lo status quo della
Chiesa |
1966 |
Dal 1066 al 1969 insegna a Tubinga |
1968 |
Pubblica << Introduzione al cristianesimo
>> |
1969 |
Professore di Storia dei dogmi a Ratisbona |
1970-1971 |
Riflette sugli effetti dei movimenti post ’68 e
comincia a cambiare le sue idee teologiche |
1977 |
Il 24 marzo Paolo VI lo nomina arcivescovo di
Monaco e Frisinga. Il 28 maggio è consacrato vescovo, il 27 giugno è creato
cardinale. E’ uno dei più giobami
membri dei conclavi che eleggono papa Luciani e poi Karol Wojtyla |
1980 |
Relatore al Sinodo dei vescovi sulla famiglia |
1981 |
Il 25 novembre è nominato da Giovanni Paolo II
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Presidente della
Pontificia Commissione biblica e della Pontificia Commissione teologica
internazionale |
1986 |
E’ fautore del ritorno al latino, della linea
rigida in morale, della distinzione della Chiesa cattolica dalle altre
chiese. I detrattori lo chiamano << PanzerKardinal >> |
1992 |
Presenta il nuovo Catechismo della Chiesa
Cattolica |
1993 |
Entra a
fare parte dell’ordine dei cardinali-vesvovi con titolo di Velletri-Segni |
1999 |
Laurea in Giurisprudenza honoris causa alla
LUMSA |
2000 |
Il suo documento << Dominus Jesus >> solleva polemiche |
2002 |
Il 30 novembre viene eletto Decano del collegio
cardinalizio |
2003 |
Presenta più volte le dimissioni, sempre
respinte da Giovanni Paolo II |
2005 |
Il 19 aprile viene eletto Papa col nome di
Benedetto XVI |
2013 |
L’11 febbraio annuncia la decisione di
rinunciare al Ministero del Vescovo di Roma, Successore di San Pietro dal 28
febbraio 2013, alle ore 20,00. |
2022 |
31 Dicembre 2022 muore Joseph Ratzinger papa Benedetto XVI |
Omelia del cardinale Joseph
Ratzinger alla messa «pro eligendo Romano pontifice». (19-4-2005) In quest'ora di
grande responsabilità, ascoltiamo con particolare attenzione quanto il
Signore ci dice con le sue stesse parole. Dalle tre letture vorrei scegliere
solo qualche passo, che ci riguarda direttamente in un momento come questo.
La prima lettura offre un ritratto profetico della figura del Messia - un
ritratto che riceve tutto il suo significato dal momento in cui Gesù legge
questo testo nella sinagoga di Nazareth, quando dice: «Oggi si è adempiuta
questa scrittura». Al centro del testo profetico troviamo una parola che -
almeno a prima vista - appare contraddittoria. Il Messia, parlando di sé,
dice di essere mandato «a promulgare l'anno di misericordia del Signore, un
giorno di vendetta per il nostro Dio». Ascoltiamo, con
gioia, l'annuncio dell'anno di misericordia: la misericordia divina pone un
limite al male - ci ha detto il Santo Padre. Gesù Cristo è la misericordia
divina in persona: incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di
Dio. Il mandato di
Cristo è divenuto mandato nostro attraverso l'unzione sacerdotale; siamo
chiamati a promulgare - non solo a parole ma con la vita, e con i segni
efficaci dei sacramenti - «l'anno di misericordia del Signore». Ma cosa vuoi
dire Isaia quando annuncia il «giorno
della vendetta per il nostro Dio»? Gesù, a Nazareth, nella sua lettura del
testo profetico, non ha pronunciato queste parole, ha concluso annunciando
l'anno della misericordia. È stato forse questo il motivo dello scandalo
realizzatesi dopo la sua predica? Non lo sappiamo. In ogni caso il Signore ha
offerto il suo commento autentico a queste parole con la morte di croce.
«Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce», dice San
Pietro. E San Paolo scrive ai Galati: «Cristo ci ha riscattati dalla
maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta
scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione
di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito
mediante la fede». La misericordia
di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del
male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male,
tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella
sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendetta e l'anno
della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e
risorto. Questa è la
vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre, per noi. La maturità di Cristo Quanto più
siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in
solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella
nostra carne «quello che manca ai patimenti di Cristo». Passiamo alla
seconda lettura, alla lettera agli Efesini. Qui si tratta in sostanza di tre
cose: in primo luogo, dei ministeri e dei carismi nella Chiesa, come doni del
Signore risorto e asceso al cielo; quindi, della maturazione della fede e
della conoscenza del Figlio di Dio, come condizione e contenuto dell'unità
nel corpo di Cristo; e, infine, della comune partecipazione alla crescita del
corpo di Cristo, cioè della trasformazione del mondo nella comunione col
Signore. Soffermiamoci solo su due punti. Il primo è il
cammino verso «la maturità di Cristo»; così dice, un po' semplificando, il
testo italiano. Più precisamente dovremmo, secondo il testo greco, parlare
della «misura della pienezza di Cristo», cui siamo chiamati ad arrivare per
essere realmente adulti nella fede. Non dovremmo rimanere fanciulli nella
fede, in stato di minorità. E in che cosa consiste l'essere fanciulli nella
fede? Risponde San Paolo: significa essere «sballottati dalle onde e portati
qua e là da qualsiasi vento di dottrina». Una descrizione molto attuale! Quanti venti di
dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti
ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di
molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un
estremo all'altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal
collettivismo all'individualismo radicale; dall'ateismo a un vago misticismo
religioso; dall'agnosticismo al sincretismo e cosi via. Ogni giorno
nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull'inganno degli
uomini, sull'astuzia che tende a trarre nell'errore. Avere una fede chiara,
secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il
relativismo, cioè il lasciarsi portare «qua e là da qualsiasi vento di
dottrina», appare come l'unico atteggiamento all' altezza dei tempi odierni.
Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come
definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue
voglie. Noi, invece,
abbiamo un'altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del
vero umanesimo. «Adulta» non è una fede che segue le onde della moda e
l'ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata
nell'amicizia con Cristo. È quest'amicizia che ci apre a tutto ciò che è
buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e
verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare
il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si
realizza nella carità. San Paolo ci
offre a questo proposito - in contrasto con le continue peripezie di coloro
che sono come fanciulli sballottati dalle onde - una bella parola: fare la
verità nella carità, come formula fondamentale dell'esistenza cristiana. In
Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a
Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza
verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come «un cembalo che
tintinna». La ricchezza del Vangelo Veniamo ora al
Vangelo, dalla cui ricchezza vorrei estrarre solo due piccole osservazioni.
Il Signore ci rivolge queste meravigliose parole: «Non vi chiamo più servi,
ma vi ho chiamato amici». Tante volte sentiamo di essere - come è vero -
soltanto servi inutili. E, ciò nonostante, il Signore ci chiama amici, ci fa
suoi amici, ci dona la sua amicizia. Il Signore definisce l'amicizia in un
duplice modo. Non ci sono segreti tra amici: Cristo ci dice tutto quanto
ascolta dal Padre; ci dona la sua piena fiducia e, con la fiducia, anche la
conoscenza. Ci rivela il suo volto, il suo cuore. Ci mostra la
sua tenerezza per noi, il suo amore appassionato che va fino alla follia
della croce. Si affida a noi, ci da il potere di parlare con il suo io:
«Questo è il mio corpo...», «io ti assolvo...». Affida il suo corpo, la
Chiesa, a noi. Affida alle nostre deboli menti, alle nostre deboli mani la
sua verità - il mistero del Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; il mistero del
Dio che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito». Ci ha reso
suoi amici - e noi come rispondiamo? Volontà ribelle II secondo
elemento, con cui Gesù definisce l'amicizia, è la comunione delle
volontà. «Idem velle -
idem nolle», era anche per i Romani la definizione di amicizia. «Voi siete
miei amici, se fate ciò che io vi comando». L'amicizia con Cristo coincide
con quanto esprime la terza domanda del Padre nostro: «Sia fatta la tua
volontà come in cielo così in terra». Nell'ora del
Getsemani Gesù ha trasformato la nostra volontà umana ribelle in volontà
conforme e unita alla volontà divina. Ha sofferto tutto il dramma della
nostra autonomia - e proprio portando la nostra volontà nelle mani di Dio, ci
dona la vera libertà: «Non come voglio io, ma come vuoi tu». In questa
comunione delle volontà si realizza la nostra redenzione: essere amici di
Gesù, diventare amici di Dio. Quanto più amiamo Gesù, quanto più lo
conosciamo, tanto più cresce la nostra vera libertà, cresce la gioia di
essere redenti. Grazie Gesù, perla tua amicizia! L'altro
elemento del Vangelo - cui volevo accennare - è il discorso di Gesù sul
portare frutto: «Vi ho costituito perché andiate e portiate frutto e il
vostro frutto rimanga». Appare qui il dinamismo dell'esistenza del cristiano,
dell'apostolo: vi ho costituito perché andiate? Dobbiamo essere animati da
una santa inquietudine: l'inquietudine di portare a tutti il dono della fede,
dell'amicizia con Cristo. Il dono della fede In verità,
l'amore, l'amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri.
Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri - siamo sacerdoti per servire
altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono
lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli
edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno
lungo, tutte queste cose scompaiono. L'unica cosa, che rimane in eterno, è
l'anima umana, l'uomo creato da Dio per l'eternità. Il frutto che rimane è
perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane - l'amore, la conoscenza; il
gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l'anima alla gioia del
Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare
frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di
lacrime in giardino di Dio. Il
mondo nuovo Ritorniamo
infine, ancora una volta, alla lettera agli Efesini. La lettera dice
- con le parole del Salmo 68 - che Cristo, ascendendo in cielo, «ha
distribuito doni agli uomini». Il vincitore distribuisce doni. E questi doni
sono apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri. Il nostro
ministero è un dono di Cristo agli uomini, per costruire il suo corpo - il
mondo nuovo. Viviamo il nostro ministero cosi, come dono di Cristo agli
uomini! Ma in questa ora, soprattutto, preghiamo con insistenza il Signore,
perché dopo il grande dono di Papa Giovanni Paolo II, ci doni di nuovo un
pastore secondo il suo cuore, un pastore che ci guidi alla conoscenza di
Cristo, al suo amore, alla
vera gioia. Amen. Joseph Ratzinger |
Prima omelia pronunciata
nella Cappella Sistina da papa Benedetto XVI (20-4-2005) Venerati
Fratelli Cardinali, carissimi Fratelli e Sorelle in Cristo, voi tutti, uomini
e donne di buona volontà! 1. Grazia e
pace in abbondanza a tutti voi (cfr Carissimi,
questa intima riconoscenza per un dono della divina misericordia prevale
malgrado tutto nel mio cuore. E considero questo fatto una grazia speciale
ottenutami dal mio venerato Predecessore, Giovanni Paolo II. Mi sembra di
sentire la sua mano forte che stringe la mia; mi sembra di vedere i suoi
occhi sorridenti e di ascoltare le sue parole, rivolte in questo momento
particolarmente a me: «Non avere paura!». La morte del
Santo Padre Giovanni Paolo II, e i giorni che sono seguiti, sono stati per la
Chiesa e per il mondo intero un tempo straordinario di grazia. Il grande
dolore per la sua scomparsa e il senso di vuoto che ha lasciato in tutti sono
stati temperati dall'azione di Cristo risorto, che si è manifestata durante
lunghi giorni nella corale ondata di fede, d'amore e di spirituale
solidarietà, culminata nelle sue solenni esequie. Possiamo dirlo:
i funerali di Giovanni Paolo II sono stati un'esperienza veramente
straordinaria in cui si è in qualche modo percepita la potenza di Dio che,
attraverso la sua Chiesa, vuole formare di tutti i popoli una grande
famiglia, mediante la forza unificante della Verità e dell'Amore (cfr Lumen
gentium, 1). Nell'ora della morte, conformato al suo Maestro e Signore,
Giovanni Paolo II ha coronato il suo lungo e fecondo Pontificato, confermando
nella fede il popolo cristiano, radunandolo intorno a sé e facendo sentire
più unita l'intera famiglia umana. Come non
sentirsi sostenuti da questa testimonianza? Come non avvertire
l'incoraggiamento che proviene da questo evento di grazia? 2. Sorprendendo
ogni mia previsione, la Provvidenza divina, attraverso il voto dei venerati
Padri Cardinali, mi ha chiamato a succedere a questo grande Papa. Ripenso in
queste ore a quanto avvenne nella regione di Cesarea di Filippo, duemila anni
or sono. Mi pare di udire le parole di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio
del Dio vivente», e la solenne affermazione del Signore: «Tu sei Pietro e su
questa pietra edificherò la mia Chiesa... A te darò le chiavi del Regno dei
cieli» (Mt 16,15-19). Tu sei il
Cristo! Tu sei Pietro! Mi sembra di rivivere la stessa scena evangelica; io,
successore di Pietro, ripeto con trepidazione le parole trepidanti del
pescatore di Galilea e riascolto con intima emozione la rassicurante promessa
del divino Maestro. Se è enorme il peso della responsabilità che si riversa
sulle mie povere spalle, è certamente smisurata la potenza divina su cui
posso contare : «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»
(Mt 16,18). Scegliendomi quale Vescovo di Roma, il Signore mi ha voluto suo
Vicario, mi ha voluto «pietra» su cui tutti possano poggiare con sicurezza.
Chiedo a Lui di supplire alla povertà delle mie forze, perché sia coraggioso
e fedele Pastore del suo gregge, sempre docile alle ispirazioni del suo
Spirito. Mi accingo a
intraprendere questo peculiare ministero, il ministero «petrino» al servizio
della Chiesa universale, con umile abbandono nelle mani della Provvidenza di
Dio. È in primo luogo a Cristo che rinnovo la mia totale e fiduciosa
adesione: «In Te, Domine, speravi; non confundar in aeternum!». A voi, Signori
Cardinali, con animo grato per la fiducia dimostratami, chiedo di sostenermi
con la preghiera e con la costante, attiva e sapiente collaborazione. Chiedo
anche a tutti i Fratelli nell'Episcopato di essermi accanto con la preghiera
e col consiglio, perché possa essere veramente il Servus servorum Dei. Come Pietro e
gli altri Apostoli costituirono per volere del Signore un unico Collegio
apostolico, allo stesso modo il successore di Pietro e i Vescovi, successori
degli Apostoli, - il Concilio lo ha con forza ribadito (cfr Lumen gentium,
22) -, devono essere tra loro strettamente uniti. Questa
comunione collegiale, pur nella diversità dei ruoli e delle funzioni del
Romano Pontefice e dei Vescovi, è a servizio della Chiesa e dell'unità nella
fede, dalla quale dipende in notevole misura l'efficacia dell'azione
evangelizzatrice nel mondo contemporaneo. Su questo sentiero, pertanto, sul
quale hanno avanzato i miei venerati predecessori, intendo proseguire anch'io,
unicamente preoccupato di proclamare al mondo intero la presenza viva di
Cristo. Anch'io,
pertanto, nell'accingermi al servizio che è proprio del successore di Pietro,
voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell'impegno di
attuazione del Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei predecessori e in
fedele continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa. Ricorrerà
proprio quest'anno il 40° anniversario della conclusione dell'Assise
conciliare (8 dicembre 1965). Col passare degli anni, i documenti conciliari
non hanno perso di attualità; i loro insegnamenti si rivelano anzi
particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e
della presente società globalizzata. L’Eucaristia
rende costantemente presente il Cristo risorto, che a noi continua a donarsi,
chiamandoci a partecipare alla mensa del suo Corpo e del suo Sangue. Dalla
piena comunione con Lui scaturisce ogni altro elemento della vita della
Chiesa, in primo luogo la comunione tra tutti i fedeli, l'impegno di annuncio
e di testimonianza del Vangelo, l'ardore della carità verso tutti,
specialmente verso i poveri e i piccoli. In questo anno,
pertanto, dovrà essere celebrata con particolare rilievo la solennità del
Corpus Domini. L’Eucaristia sarà poi al centro, in agosto, della Giornata
mondiale della gioventù a Colonia e, in ottobre, dell'Assemblea ordinaria del
Sinodo dei vescovi, che si svolgerà sul tema: «L'Eucaristia fonte e culmine
della vita e della missione della Chiesa». A tutti chiedo di intensificare
nei prossimi mesi l'amore e la devozione a Gesù Eucaristia e di esprimere in
modo coraggioso e chiaro la fede nella presenza reale del Signore,
soprattutto mediante la solennità e la correttezza delle celebrazioni. Lo chiedo in
modo speciale ai sacerdoti, ai quali penso in questo momento con grande
affetto. Il sacerdozio ministeriale è nato nel cenacolo, insieme con
l'Eucaristia, come tante volte ha sottolineato il mio venerato predecessore
Giovanni Paolo II. «L'esistenza
sacerdotale deve avere a speciale titolo una forma eucaristica», ha scritto
nella sua ultima lettera per il giovedì santo (n. 1). A tale scopo
contribuisce innanzitutto la devota celebrazione quotidiana della santa
Messa, centro della vita e della, missione di ogni sacerdote. 5. Alimentati e
sostenuti dall'Eucaristia, i cattolici non possono non sentirsi stimolati a
tendere a quella piena unità che Cristo ha ardentemente auspicato nel
cenacolo. Di questo supremo anelito del Maestro divino il successore di
Pietro sa di doversi fare carico in modo del tutto particolare. A lui infatti
è stato affidato il compito di confermare i fratelli (cfr Lc 22,32). Con piena
consapevolezza, pertanto, all'inizio del suo ministero nella Chiesa di Roma
che Pietro ha irrorato col suo sangue, l'attuale suo successore si assume
come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla
ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo.
Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere. Egli è cosciente
che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono
gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando
ciascuno a quella conversione ulteriore che è il presupposto di ogni
progresso sulla via dell'ecumenismo. Il dialogo
teologico è necessario, l'approfondimento delle motivazioni storiche di
scelte avvenute nel passato è pure indispensabile. Ma ciò che urge
maggiormente è quella «purificazione della memoria», tante volte evocata da
Giovanni Paolo II, che sola può disporre gli animi ad accogliere la piena
verità di Cristo. È davanti a Lui, supremo giudice di ogni essere vivente,
che ciascuno di noi deve porsi, nella consapevolezza di dovere un giorno a
Lui rendere conto di quanto ha fatto o non ha fatto nei confronti del grande
bene della piena e visibile unità di tutti i suoi discepoli. L'attuale
successore di Pietro si lascia interpellare in prima persona da questa
domanda ed è disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la
fondamentale causa dell'ecumenismo. Sulla scia dei suoi predecessori, egli è
pienamente determinato a coltivare ogni iniziativa che possa apparire
opportuna per promuovere i contatti e l'intesa con i rappresentanti delle
diverse Chiese e comunità ecclesiali. Ad essi, anzi, invia anche in questa
occasione il più cordiale saluto in Cristo, unico Signore di tutti. 6. Torno con la
memoria, in questo momento, all'indimenticabile esperienza vissuta da noi
tutti in occasione della morte e dei funerali del compianto Giovanni Paolo
II. Attorno alle sue spoglie mortali, adagiate sulla nuda terra, si sono
raccolti i capi delle nazioni, persone d'ogni ceto sociale, e specialmente
giovani, in un indimenticabile abbraccio di affetto e di ammirazione. A lui
ha guardato con fiducia il mondo intero. È sembrato a molti che quella
intensa partecipazione, amplificata sino ai confini del pianeta dai mezzi di
comunicazione sociale, fosse come una corale richiesta di aiuto rivolta al
Papa da parte dell'odierna umanità che, turbata da incertezze e timori, si
interroga sul suo futuro. La Chiesa di
oggi deve ravvivare in se stessa la consapevolezza del compito di ripropone
al mondo la voce di Colui che ha detto: «Io sono la luce del mondo; chi segue
me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
Nell'intraprendere il suo ministero il nuovo Papa sa che suo compito è di far
risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non
la propria luce, ma quella di Cristo. Con questa
consapevolezza mi rivolgo a tutti, anche a coloro che seguono altre religioni
o che semplicemente cercano una risposta alle domande fondamentali dell'esistenza
e ancora non l'hanno trovata. A tutti mi rivolgo con semplicità e affetto,
per assicurare che la Chiesa vuole continuare a tessere con loro un dialogo
aperto e sincero, alla ricerca del vero bene dell'uomo e della società. Invoco da Dio
l'unità e la pace per la famiglia umana e dichiaro la disponibilità di tutti
i cattolici a cooperare per un autentico sviluppo sociale, rispettoso della
dignità d'ogni essere umano. Non risparmierò
sforzi e dedizione per proseguire il promettente dialogo avviato dai miei
venerati predecessori con le diverse civiltà, perché dalla reciproca
comprensione scaturiscano le condizioni di un futuro migliore per tutti. Penso in
particolare ai giovani. A loro, interlocutori privilegiati del Papa Giovanni
Paolo II, va il mio affettuoso abbraccio nell'attesa, se piacerà a Dio, di
incontrarli a Colonia in occasione della prossima Giornata mondiale della
gioventù. Con voi, cari giovani, futuro e speranza della Chiesa e
dell'umanità, continuerò a dialogare, ascoltando le vostre attese
nell'intento di aiutarvi a incontrare sempre più in profondità il Cristo
vivente, l'eternamente giovane. 7. Mane nobiscum,
Domine! Resta con noi Signore! Quest'invocazione, che forma il tema dominante
della Lettera apostolica di Giovanni Paolo II per l'anno dell'Eucaristia, è
la preghiera che sgorga spontanea dal mio cuore, mentre mi accingo a iniziare
il ministero a cui Cristo mi ha chiamato. Come Pietro, anch'io rinnovo a Lui
la mia incondizionata promessa di fedeltà. Lui solo intendo servire dedicandomi
totalmente al servizio della sua Chiesa. A sostegno di
questa promessa invoco la materna intercessione di Maria Santissima, nelle
cui mani pongo il presente e il futuro della mia persona e della Chiesa.
Intervengano con la loro intercessione anche i santi apostoli Pietro e Paolo
e tutti i santi. Con questi
sentimenti imparto a voi, venerati fratelli cardinali, a coloro che
partecipano a questo rito e a quanti sono in ascolto mediante la televisione
e la radio una speciale, affettuosa Benedizione. Benedetto XVI |
L'OMELIA DI INIZIO DEL MINISTERO PETRINO (Piazza San Pietro
24.4.2005) "Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell'episcopato e nel sacerdozio, distinte Autorità e
Membri del Corpo diplomatico, carissimi Fratelli e Sorelle!". "Per ben tre volte, in
questi giorni così intensi, il canto delle litanie dei santi ci ha
accompagnato: durante i funerali del nostro Santo Padre Giovanni Paolo II; in
occasione dell'ingresso dei Cardinali in Conclave, ed anche oggi, quando le
abbiamo nuovamente cantate con l'invocazione: 'Tu illum adiuva' - sostieni il
nuovo successore di San Pietro. Ogni volta in un modo del tutto particolare
ho sentito questo canto orante come una grande consolazione. Quanto ci siamo
sentiti abbandonati dopo la dipartita di Giovanni Paolo II!". "Il Papa che per ben 26
anni è stato nostro pastore e guida nel cammino attraverso questo tempo. Egli
varcava la soglia verso l'altra vita - entrando nel mistero di Dio. Ma non
compiva questo passo da solo. Chi crede, non è mai solo - non lo è nella vita
e neanche nella morte. In quel momento noi abbiamo potuto invocare i santi di
tutti i secoli - i suoi amici, i suoi fratelli nella fede, sapendo che
sarebbero stati il corteo vivente che lo avrebbe accompagnato nell'aldilà,
fino alla gloria di Dio. Noi sapevamo che il suo arrivo era atteso. Ora
sappiamo che egli è fra i suoi ed è veramente a casa sua". "Di nuovo, siamo stati
consolati compiendo il solenne ingresso in conclave, per eleggere colui che
il Signore aveva scelto. Come potevamo riconoscere il suo nome? Come potevano
115 Vescovi, provenienti da tutte le culture ed i paesi, trovare colui al
quale il Signore desiderava conferire la missione di legare e sciogliere?
Ancora una volta, noi lo sapevamo: sapevamo che non siamo soli, che siamo
circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. Ed ora, in questo momento,
io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che
realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in
grado di farlo? Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l'intera schiera
dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con
gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non
sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare
da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta. E
la Vostra preghiera, cari amici, la Vostra indulgenza, il Vostro amore, la
Vostra fede e la Vostra speranza mi accompagnano. Infatti alla comunità dei
santi non appartengono solo le grandi figure che ci hanno preceduto e di cui
conosciamo i nomi". "Noi tutti siamo la
comunità dei santi, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue di Cristo,
per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e renderci simili a se
medesimo. Sì, la Chiesa è viva - questa è la meravigliosa esperienza di
questi giorni. Proprio nei tristi giorni della malattia e della morte del
Papa questo si è manifestato in modo meraviglioso ai nostri occhi: che la
Chiesa è viva. E la Chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del mondo e
perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro. La Chiesa è
viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso
ai suoi. La Chiesa è viva - essa è viva, perché Cristo è vivo, perché egli è
veramente risorto. Nel dolore, presente sul volto del Santo Padre nei giorni
di Pasqua, abbiamo contemplato il mistero della passione di Cristo ed insieme
toccato le sue ferite. Ma in tutti questi giorni abbiamo anche potuto, in un
senso profondo, toccare il Risorto. Ci è stato dato di sperimentare la gioia
che egli ha promesso, dopo un breve tempo di oscurità, come frutto della sua
resurrezione". "La Chiesa è viva - così
saluto con grande gioia e gratitudine voi tutti, che siete qui radunati,
venerati Confratelli Cardinali e Vescovi, carissimi sacerdoti, diaconi,
operatori pastorali, catechisti. Saluto voi, religiosi e religiose, testimoni
della trasfigurante presenza di Dio. Saluto voi, fedeli laici, immersi nel
grande spazio della costruzione del Regno di Dio che si espande nel mondo, in
ogni espressione della vita. Il discorso si fa pieno di affetto anche nel
saluto che rivolgo a tutti coloro che, rinati nel sacramento del Battesimo,
non sono ancora in piena comunione con noi; ed a voi fratelli del popolo
ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio spirituale comune, che
affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di Dio. Il mio pensiero,
infine - quasi come un'onda che si espande - va a tutti gli uomini del nostro
tempo, credenti e non credenti". "Cari amici! In questo
momento non ho bisogno di presentare un programma di governo. Qualche tratto
di ciò che io considero mio compito, ho già potuto esporlo nel mio messaggio
di mercoledì 20 aprile; non mancheranno altre occasioni per farlo. Il mio
vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non
perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa,
della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché
sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia. Invece
di esporre un programma io vorrei semplicemente cercare di commentare i due
segni con cui viene rappresentata liturgicamente l'assunzione del Ministero
Petrino; entrambi questi segni, del resto, rispecchiano anche esattamente ciò
che viene proclamato nelle letture di oggi". "Il primo segno è il
Pallio, tessuto in pura lana, che mi viene posto sulle spalle. Questo
antichissimo segno, che i Vescovi di Roma portano fin dal IV secolo, può
essere considerato come un'immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di
questa città, il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle. Il giogo di
Dio è la volontà di Dio, che noi accogliamo. E questa volontà non è per noi
un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà. Conoscere ciò che
Dio vuole, conoscere qual è la via della vita - questa era la gioia di
Israele, era il suo grande privilegio". "Questa è anche la nostra
gioia: la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica - magari in modo anche
doloroso - e così ci conduce a noi stessi. In tal modo, non serviamo soltanto
Lui ma la salvezza di tutto il mondo, di tutta la storia. In realtà il
simbolismo del Pallio è ancora più concreto: la lana d'agnello intende
rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che
il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita. La
parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto, era per
i Padri della Chiesa un'immagine del mistero di Cristo e della Chiesa.
L'umanità - noi tutti - è la pecora smarrita che, nel deserto, non trova più
la strada. Il Figlio di Dio non tollera questo; Egli non può abbandonare
l'umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la
gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce.
La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi - Egli
è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore. Il Pallio dice
innanzitutto che tutti noi siamo portati da Cristo. Ma allo stesso tempo ci
invita a portarci l'un l'altro. Così il Pallio diventa il simbolo della
missione del pastore, di cui parlano la seconda lettura ed il Vangelo". "La santa inquietudine di
Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone
vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della
povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell'abbandono,
della solitudine, dell'amore distrutto. Vi è il deserto dell'oscurità di Dio,
dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino
dell'uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti
interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più
al servizio dell'edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possano
vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della
distruzione". "La Chiesa nel suo
insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per
condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso
l'amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in
pienezza. Il simbolo dell'agnello ha ancora un altro aspetto. Nell'Antico
Oriente era usanza che i re designassero se stessi come pastori del loro
popolo. Questa era un'immagine del loro potere, un'immagine cinica: i popoli
erano per loro come pecore, delle quali il pastore poteva disporre a suo
piacimento. Mentre il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto
lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono
calpestati e uccisi". "Proprio così Egli si
rivela come il vero pastore: 'Io sono il buon pastore. Io offro la mia vita
per le pecore, dice Gesù di se stesso (Gv 10, 14s). Non è il potere che
redime, ma l'amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore. Quante
volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse
duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le
ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò
che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell'umanità. Noi soffriamo
per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza.
Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal
Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e
distrutto dall'impazienza degli uomini". "Una delle caratteristiche
fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono
stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova. 'Pasci le mie
pecore, dice Cristo a Pietro, ed a me, in questo momento. Pascere vuol dire
amare, e amare vuol dire anche essere pronti a soffrire. Amare significa:
dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della
parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel
Santissimo Sacramento. Cari amici - in questo momento io posso dire soltanto:
pregate per me, perché io impari sempre più ad amare il Signore. Pregate per
me, perché io impari ad amare sempre più il suo gregge - voi, la Santa Chiesa,
ciascuno di voi singolarmente e voi tutti insieme. Pregate per me, perché io
non fugga, per paura, davanti ai lupi. Preghiamo gli uni per gli altri,
perché il Signore ci porti e noi impariamo a portarci gli uni gli
altri". "Il secondo segno, con cui
viene rappresentato nella liturgia odierna l'insediamento nel Ministero
Petrino, è la consegna dell'anello del pescatore. La chiamata di Pietro ad
essere pastore, che abbiamo udito nel Vangelo, fa seguito alla narrazione di
una pesca abbondante: dopo una notte, nella quale avevano gettato le reti
senza successo, i discepoli vedono sulla riva il Signore Risorto. Egli
comanda loro di tornare a pescare ancora una volta ed ecco che la rete
diviene così piena che essi non riescono a tirarla su; 153 grossi pesci: 'E
sebbene fossero così tanti, la rete non si strappò' (Gv 21, 11). Questo
racconto, al termine del cammino terreno di Gesù con i suoi discepoli,
corrisponde ad un racconto dell'inizio: anche allora i discepoli non avevano
pescato nulla durante tutta la notte; anche allora Gesù aveva invitato Simone
ad andare al largo ancora una volta. E Simone, che ancora non era chiamato
Pietro, diede la mirabile risposta: Maestro, sulla tua parola getterò le
reti! Ed ecco il conferimento della missione: 'Non temere! D'ora in poi sarai
pescatore di uomini' (Lc 5, 1-11)". "Anche oggi viene detto
alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare
della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo - a
Dio, a Cristo, alla vera vita. I Padri hanno dedicato un commento molto
particolare anche a questo singolare compito. Essi dicono così: per il pesce,
creato per l'acqua, è mortale essere tirato fuori dal mare. Esso viene
sottratto al suo elemento vitale per servire di nutrimento all'uomo. Ma nella
missione del pescatore di uomini avviene il contrario. Noi uomini viviamo
alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di
oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della
morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita". "È proprio così - nella
missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli
uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della
vita, verso la luce di Dio. È proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio
agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo
quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la
vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell'evoluzione. Ciascuno
di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno
è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere
raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che
conoscere Lui e comunicare agli altri l'amicizia con lui. Il compito del
pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e
grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che
vuol fare il suo ingresso nel mondo". "Vorrei qui rilevare
ancora una cosa: sia nell'immagine del pastore che in quella del pescatore
emerge in modo molto esplicito la chiamata all'unità. 'Ho ancora altre
pecore, che non sono di questo ovile; anch'esse io devo condurre ed
ascolteranno la mia voce e diverranno un solo gregge e un solo pastore' (Gv
10, 16), dice Gesù al termine del discorso del buon pastore. E il racconto
dei 153 grossi pesci termina con la gioiosa constatazione: 'sebbene fossero
così tanti, la rete non si strappò' (Gv 21, 11). Ahimè, amato Signore, essa
ora si è strappata! vorremmo dire addolorati. Ma no - non dobbiamo essere
tristi! Rallegriamoci per la tua promessa, che non delude, e facciamo tutto
il possibile per percorrere la via verso l'unità, che tu hai promesso.
Facciamo memoria di essa nella preghiera al Signore, come mendicanti: sì,
Signore, ricordati di quanto hai promesso. Fa' che siamo un solo pastore ed
un solo gregge! Non permettere che la tua rete si strappi ed aiutaci ad
essere servitori dell'unità!". "In questo momento il mio
ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni Paolo II iniziò il
suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro. Ancora, e continuamente, mi
risuonano nelle orecchie le sue parole di allora: 'Non abbiate paura, aprite
anzi spalancate le porte a Cristo!' Il Papa parlava ai forti, ai potenti del
mondo, i quali avevano paura che Cristo potesse portar via qualcosa del loro
potere, se lo avessero lasciato entrare e concesso la libertà alla fede. Sì,
egli avrebbe certamente portato via loro qualcosa: il dominio della
corruzione, dello stravolgimento del diritto, dell'arbitrio. Ma non avrebbe
portato via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell'uomo, alla sua
dignità, all'edificazione di una società giusta. Il Papa parlava inoltre a
tutti gli uomini, soprattutto ai giovani". "Non abbiamo forse tutti
in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi,
se ci apriamo totalmente a lui - paura che Egli possa portar via qualcosa
della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di
grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi
nell'angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva
dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla - assolutamente nulla
di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest'amicizia
si spalancano le porte della vita. Solo in quest'amicizia si dischiudono
realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in
quest'amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così,
oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire
dall'esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non
abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a
lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo - e
troverete la vera vita. Amen". Benedetto XVI |