19 ottobre 2003 Beatificazione di Madre Teresa |
…una piccola donna innamorata
di Dio… (Giovanni Paolo II) |
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Dove c’erano lebbrosi e derelitti il suo sari bianco e azzurro
era lì |
Indimenticabile
Madre Teresa! Non dimenticherò mai la sua figura in sari bianco,
bordato d’azzurro, fra le raffiche della guerra civile libanese. Aveva in
braccio un neonato. Tentava di passare la frontiera fra le zone musulmane e
cristiane a Beirut. Nessuno riusciva ad impedirle di esporsi. Quando lei uscì
allo scoperto, in mezzo alla sparatoria, accadde qualcosa di straordinario. I
mitra e i fucili tacquero. Pareva un'onda di pace, che sommergeva odio e
follia umani. Per me nessuna scena esprimerà più con tanta forza
l'inarrivabile carisma della santa di Calcutta come questa magica apparizione
su uno dei peggiori campi di battaglia della sofferenza umana. Quante
volte, nei quartieri infernali di Calcutta o in quelli, talora più tragici,
del nostro ricco Occidente, ho visto gli effetti di questo carisma! Spuntava
Madre Teresa e degli esseri prostrati dall'infelicità e dalla miseria
s'illuminavano di colpo di un'espressione di felicità, gratitudine, fiducia.
Come se la sua sola,presenza, incarnazione della carità e dell'amore,
dissipasse le paure, colmasse le pance vuote, restituisse la speranza.
Infatti l'unico messaggio di Madre Teresa era: dire agli uomini sofferenti
che la mano di Dio li ha creati per amare ed essere amati. L'ho
conosciuta nel lazzaretto della Casa del cuore puro, il caravanserraglio a
gugliette dove lei ospitava i moribondi dei marciapiedi di Calcutta. Stava
lavando le piaghe di uomo ancor giovane, magrissimo, un morto vivente. Gli
parlava piano in bengalese. Nello sguardo del poveretto, la sofferenza si
mutava lentamente in sorpresa, poi in pace, la pace di chi, di colpo, si sente
amato. Intuendo qualcuno alle spalle, Madre Teresa si voltò. Mi sentii in
imbarazzo. Gli occhi sporgenti del moribondo sembravano supplicare la
religiosa di dedicarsi ancora a lui. Mi presentai. Un giovane europeo passava
in quel momento nella corsia con una conca. Madre Teresa lo chiamò. Gli
mostrò il moribondo e ordinò: «Amalo. Amalo con tutte le forze». Restituì al
giovanotto mollette e lenzuola, si alzò e mi accennò di seguirla nel piccolo
ingresso fra la stanza maschile e quella femminile. C'erano un tavolo e una
panca. Al muro, in cornice, un testo scritto in calligrafia a inchiostro
nero: «La peggior malattia d'oggi non è la lebbra, ne la tisi, ma sentirsi
indesiderato, reietto, abbandonato da tutti». Prodigioso
il destino di questa albanese nata il 26 agosto 1910 a Skopje, allora città
albanese (oggi in Macedonia, ndr). Agnese
Bojaxhju, figlia di un agiato imprenditore, si sentì presto chiamata alla
vita religiosa. A diciott'anni, col nome di Teresa dettato dall'ammirazione
per l'umiltà della piccola Thérèse de Lisieux, entrò nell'ordine missionario
di Loreto. Il 6
gennaio 1929 sbarcò a Calcutta, allora la maggiore città dell'Impero
britannico dopo Londra. Per sedici anni insegnò geografia alle ragazze
borghesi bengalesi in uno dei più facoltosi conventi locali. Il 10 settembre
1946, però, in treno per Darjeeling, alle pendici dell'Himalaya, dove andava
per il ritiro annuale, l'evento che le sconvolse la vita. Nel suo cuore tuonò
una voce. Racconterà: «Era un ordine. Dovevo lasciare la pace del convento,
rinunciare a tutto e seguire Lui, il Cristo, nei tuguri per servirlo
attraverso i poveri più poveri». Aveva trentasei anni. Sette mesi dopo la
Santa sede le permetteva di lasciare la congregazione e fondare un nuovo
ordine religioso per «curare malati e morenti delle bidonville,
educare bambini di strada, occuparsi di mendicanti, riparare i derelitti». Per
impulso d'una solitaria religiosa era nata la congregazione delle Missionarie
della carità, ordine che oggi ha oltre quattromila suore, quattrocento frati,
tre milioni di volontari e oltre settecentocinquanta centri caritatevoli in
quasi centocinquanta Paesi dei cinque Continenti. Un ordine
tanto vitale da non poter accogliere ogni aspirante novizio. Un breve
tratto in risciò separa la cripta del convento - dove oggi riposa la salma
della santa di Calcutta - dal luogo esatto dove ha cominciato la sua
crociata. Quel giorno
dell'estate 1952 le cateratte del monsone s'abbattono sulla città. Quella che
ancora non è suor Teresa, trotterellando sotto il diluvio, inciampa in una
vecchia stesa sul marciapiede allagato, che appena respira: le dita dei piedi
sono state rosicchiate fino all'osso dai topi e dai parassiti. Teresa la
prende fra le braccia e s'affretta all'ospedale più vicino. Ha appena deposto
la moribonda all'ingresso d'urgenza che un guardiano le intima: «La porti
subito via! Non si può far niente per lei». Terrorizzata,
Teresa riprende la poveretta fra le braccia. Non lontano, conosce un altro ospedale.
Mentre s'affretta; avverte un rantolo e sente il corpo irrigidirsi fra le sue
braccia. Posa la poveretta sul marciapiede, le chiude gli occhi, fa il segno
della Croce e prega un attimo per lei. Furibonda,
constata: «Qui si trattano meglio i cani che le persone». L'indomani corre in
municipio. Quest'europea caparbia e in sari stupisce. Un vice del
sindaco finisce col riceverla. Pochi giorni dopo il comune le mette a
disposizione un caravanserraglio abbandonato, già rifugio per i pellegrini
indù del vicino tempio. Un'inattesa
fortuna in cui Teresa vede la mano di Dio. È infatti ai margini di questo
luogo di culto che per lo più gli indigeni si riuniscono per morire, sperando
di essere inceneriti sui roghi del tempio. Ma gli indù ortodossi del quartiere
protestano duramente contro l'intrusione di questa europea col crocifisso sul
petto. L'accusano di voler convenire al cristianesimo gli agonizzanti. Il
capo della polizia in persona viene a indagare. Trova Madre Teresa mentre
cura le piaghe di un vecchio scheletrico, in uno stato atroce di sporcizia,
con le gambe coperte di ulcere purulente. Si stupisce: «Dio mio, come fa a
reggere?». Uscendo, annuncia ai manifestanti infuriati che caccerà la
religiosa... quando le loro madri e sorelle l'avranno sostituita. Pochi
giorni dopo, Madre Teresa vede un assembramento davanti al tempio vicino. Si
accosta. Un uomo
giace a terra, con gli occhi rovesciati, il volto esangue. Porta alla spalla
il triplo cordone dei bramani. È un prete del santuario. Ha il colera, nessuno
osa. Madre Teresa si china su di lui e lo trascina nel lazzaretto. Giorno e
notte l'assiste. Lo salva. Più nessun proiettile sarà scagliato contro le
suorine in sari bianco bordato d'azzurro. La notizia del salvataggio
percorre Calcutta. Ambulanze e furgoni della polizia affluiscono col loro
carico di infelici. Presto la religiosa dirà: «La nostra Casa del cuore puro
è il gioiello di Calcutta». Accogliere
moribondi derelitti era solo la prima tappa per Madre Teresa. Poi c'erano
i vivi. Fra i più deboli e indifesi, i neonati trovati all'alba nelle
pattumiere, nei canali di scolo, davanti alle chiese. Un giorno
qualcuno le portò un prematuro lasciato su un mucchio di rifiuti, avvolto in
un giornale. Pesava meno
di un chilo e mezzo e non poteva prendere il biberon. Si dovette nutrirlo con
una sonda. La religiosa si accanì e vinse. Presto parecchie decine di neonati
occuparono culle e parchi del suo nuovo rifugio Shishu Bhavan, la
«Casa dei bambini». Ne arrivavano cinque o sei al giorno. Le suore, gli
amici, il confessore s'inquietarono. Come garantire la sussistenza a tanta
gente? Lei rispose col suo sorriso luminoso: «II Signore provvederà!».
Affluirono donazioni. I ricchi mandavano sacchi di riso, mazzi di legumi,
pesce. Teresa fece disegnare dalle suore manifesti annuncianti accoglienza a
ogni bimbo consegnato. Dopo
moribondi e bambini abbandonati, venne il giorno degli uomini più derelitti,
i lebbrosi. Su un terreno offerto dalle ferrovie indiane, lei costruì un
casermone di mattoni e lamiera ondulata per i malati più gravi, portando loro
ogni giorno medicazioni, tarmaci, parole di conforto. Decine, poi centinaia
di storpi s'accalcarono alla porta di quest'oasi amorevole. Lei invitò la
popolazione a unirsi a lei in una super-colletta per questi disgraziati, col
motto: «Tocchiamo il lebbroso con la nostra compassione». I risultati
superarono le speranze. Poté fondare, a trecento chilometri a Calcutta, Shanti
Nagar, «la Città della pace», per i lebbrosi, offrendo loro cure
appropriate e centri di riabilitazione, dove guadagnarsi da vivere. Molte
città indiane e Paesi stranieri la invitarono. I media s'appassionarono alla
sua opera. Il suo nome varcò gli oceani. Premi, ricompense, onorificenze piovvero sull'umile messaggera
di poveri e sofferenti. In loro
nome accettò nel 1979 il premio Nobel per la pace. Dal Libano all'Etiopia,
dal Bangladesh alla Colombia, la sua fragile figura vestita col sari
bianco bordato di blu apparve in ogni luogo di tragedia: guerra, esodi,
carestie, terremoti. Mandò le sue suore fino ai confini della Cina rossa, in
Siberia, da Fidel Castro. Le mandò anche nelle capitali del ricco Occidente. «Qui i
poveri sono spesso più bisognosi e soli che in India», diceva a chi era
perplesso. Aprì centri d'accoglienza per disoccupati, dispensari mense
popolari nelle periferie povere di Melbourne, Roma, Londra, Detroit,
Marsiglia, Rio, Chicago, Los Angeles... Nessuna
azione è però esente da critiche. Un giorno in cui mi stupivo che si
accontentasse di arginare gli effetti della miseria e dell'ingiustizia,
invece di usare il suo carisma per eliminarne le cause, mi rispose secca:
«M'hanno già detto che farei meglio a distribuire canne da pesca ai poveri
invece che dare loro del pesce. Ma per lo più i nostri poveri non hanno
nemmeno la forza di reggere la canna da pesca. Per fortuna c'è chi al mondo
combatte per la giustizia e i diritti umani, e cerca di cambiare le
strutture. Noi siamo a contatto quotidiano con esseri senza nemmeno il pane.
Ci preoccupiamo di una persona alla volta, non di una moltitudine. Siamo lì
per coloro ai quali Gesù pensava dicendo: "Avevo fame e m'avete
sfamato"». Un giorno
dell'estate 1985 lessi una notizia stupefacente su un giornale di New York. Madre
Teresa e le sue suorine indiane avevano appena aperto un ospizio nel cuore
dei grattacieli di Manhattan per le vittime senza risorse di un male peggiore
che la lebbra o l'abbrutimento dei moribondi di Calcutta: l'Aids. Mi
precipitai in questo nuovo angolo di misericordia. Feci incontri che mi
catapultarono sulle vie della fantastica epopea di compassione e speranza che
avrei raccontato in Più grande dell'amore (Mondadori). La religiosa
aveva trovato i primi tre pensionanti dietro le sbarre del penitenziario di
Sing-Sing, dove lo scambio di siringhe contaminate falcidiava i detenuti. Madre
Teresa non esitò a chiederne la liberazione al sindaco di New York. Che
obiettò come questi malati fossero criminali, inclusi pericolosi assassini.
«Non crede che la malattia li punisca abbastanza severamente?», replicò lei. Le sarebbe
bastato disporre di una casa in campagna e lei si sarebbe occupata di loro.
Non aveva salvato dalla lebbra centosettantottomila malati? Prima di lasciare
il sindaco, gli consegnò il suo «biglietto da visita». E lui, sorpreso, mise
gli occhiali e lesse: «Il frutto del silenzio è la preghiera, il frutto
della preghiera è la fede, il frutto della fede è l'amore. E il frutto
dell'amore è il servizio degli altri. Madre Teresa». La
tragedia dell'Aids condusse Madre Teresa in Romania, in Cecoslovacchia e in
molte città africane, dove aprì altri ospizi, soprattutto per bambini vittime
della terribile malattia. Fu l'ultimo capitolo della sua fantastica crociata. Ogni anno
vedevo la sua figura indomabile più piegata su se stessa, più lenta
nell'andatura prima cosi sciolta, il suo bei viso coprirsi di rughe. Una
volta, mentre le rendevo visita all'ospedale di Roma, dove il Santo Padre
l'aveva obbligata a riposarsi, osai chiederle della sua successione. Sorrise
e rispose: «Dio troverà un'altra suora più umile, più devota, più obbediente
alla Sua volontà. La congregazione continuerà la Sua opera. Ecco tutto». Sul punto
di morire, Madre Teresa ebbe la gioia di trasmettere la fiaccola a una delle
sue consigliere più vicine, suor Nirmala, un'indiana di famiglia indù e di
casta elevata, che s'era convertita al cristianesimo a vent'anni. Interrogata
sulla schiacciante eredità che le passava, Madre Teresa spiegò: «Questa non è
opera mia, ma di Dio. Io sono stata solo la matitina nella Sua mano per
scrivere la Sua lettera d'amore al mondo». Dominique Lapierre
Il Giornale
sabato 18 ottobre 2003 |
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UNA VITA PER GLI ALTRI Biografia in breve |
1910 |
Agnes
Gonxha Bojaxhiu nasce il 26 agosto a Skopje, Macedonia, da una famiglia
benestante. |
1937 |
A 27 anni
prende i voti a Calcutta, cambiando il suo nome in Teresa. |
1945 |
Lascia il
convento e inizia a lavorare nei quartieri più poveri di Calcutta, cambiando
il suo abito con un sari bianco. |
1948 |
Apre il suo
primo centro per mendicanti a Calcutta. |
1979 |
Riceve il
premio Nobel per la pace. |
1986 |
Visita Cuba
e ottiene da Fidel castro di aprire un centro nell’isola gestito da monache. |
1989 |
Cominciano i
problemi di salute, e viene sottoposta a 3 operazioni: vivrà con un pace
maker. |
1997 |
Le viene
diagnosticata la malaria ma, nonostante ciò, va a Roma e New York. |
1997 |
Il 5
settembre muore a Calcutta, a 87 anni. |
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LE SUORE DI MADRE TERESA |
Calcutta |
7 ottobre 1950 Fondazione delle Sorelle Missionarie della Carità. |
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Vaticano |
1 febbraio 1965 Riconoscimento pontificio. |
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Ogni nel mondo |
Oltre 4.500 Suore
Missionarie della Carità di cui 132 “ contemplative” 335
Suore in formazione 89
Paesi di provenienza 692 Casa
fondate:
131
Paesi serviti 400 Fratelli
e Sacerdoti Missionari della Carità 70 paesi
serviti |
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M.Teresa ha fondato anche: |
i Fratelli Missionari della carità (Calcutta, 1963) le Suore contemplative ( New York, 1976) i Fratelli contemplativi ( Roma, 1979) i Sacerdoti ( Bronx di New York,1984) i Collaboratori laici ( 1969) i Laici missionari della carità (19849 |
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La Congregazione alla morte della
Fondatrice: |
3914
Suore 594
Case fondate 123
Paesi serviti |
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Attuale Superiora Generale |
Suor Nirmala |
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Abito |
Sari bianco di cotonato grezzo
ornato con bordo azzurro in onore a Maria e chiuso sulla spalla da un
crocifisso. |
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DOMINIQUE LAPIERREIl
giornalista e scrittore francese è autore, fra i tanti, del libro << La
città della gioia>> (1985), letto da più di 30 milioni di persone nel mondo. Nel
1982, con il sostegno di Madre Teresa di Calcutta, ha fondato insieme alla
moglie l’associazione << Action pour les enfants del lépreux de Calcutta>> alla quale devolve metà dei
suoi diritti d’autore per finanziare dispensari medici, scuole e centri per
la lotta alla lebbra e alla tubercolosi. |
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UN AIUTO AI PIÙ DEBOLI
'Per
sostenere il progetto di Madre Teresa si può inviare un assegno bancario o un
vaglia alla «Associazione per i bambini dei lebbrosi di Calcutta per la
Fondazione Dominique Lapierre (onlus)», via Guicciardini 15,50125 Firenze,
tel./fax 055/28.97.37, ccp 10043503; Credem, via Lorenzo il Magnifico 74,
50129 Firenze, c/c 3389/5 Abi 3032 Cab 2801. Per ogni
offerta riceverete la ricevuta fiscale per la deduzione della somma dalla
dichiarazione dei redditi. |
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