Giornata comunitaria 21-5-00
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Giornata Comunitaria 21 maggio 2000

Vorrei dare a questo incontro il tono di una riflessione pastorale ed, al tempo stesso, di una lectio. La ragione é semplice; credo che l'atteggiamento fondamentale debba essere quello dell'ascolto di quel Dio che ci parla attraverso i nostri fratelli. In questo modo il nostro ritrovarci non solo non esclude nessuno ma si fa carico di tutti, a prescindere dal fatto che siano o non siano presenti.

Ho pensato di scegliere il brano di At 3,1-11. É un racconto di guarigione ma é anche una lucida indicazione circa i compiti missionari della Chiesa; l'inquadratura, poi, mostra come il vero andare a Dio implica sempre il passare davanti ai fratelli, lo stabilire un rapporto con loro, specie se sono diversi da noi. Distinguerei nel brano tre indicazioni:

1. La distanza dalle persone e l'equivoco nelle relazioni con loro: At 3,3-5.

La ragione ultima di questa distanza della Chiesa dalla gente non é l'incoerenza ma é culturale.

* La società complessa mette in crisi il carattere totalizzante della fede e della sua formazione.

* La società urbana conosce un mutamento dei paradigmi del tempo e dello spazio che mettono in crisi la durata e la fedeltà a vantaggio del provare e del nuovo, la prossimità a vantaggio di relazioni emotive, cariche di fiducia.

Sappiamo davvero educare questa generazione alla fede? Appoggiarsi sulla tradizione é necessario ma é, al tempo stesso, insufficiente: non ci si può accontentare di gestire l'esistente.

L'episcopato italiano ha fatto due scelte, non sempre passate nelle comunità ma mirate a saldare fede e vita.

* Il primato della Parola, fonte perenne e non solo iniziale di auto-evangelizzazione.

* La promozione del laicato, sullo sfondo della vita battesimale e del tema dei carismi.

L'appartenenza alla vita di Chiesa implica il condividere, il camminare con queste scelte.

2. L'annuncio, le dinamiche della comunicazione della fede: At 3,6.

L'annuncio comincia con il chiarimento dell'equivoco ma va oltre: diventa comunicazione della fede. Si tratta di curare non solo la fede ma le modalità della sua comunicazione in quanto tali. Questo esige di curare tutta una serie di atteggiamenti.

* Il primo é la gioia di essere salvati. La coscienza di questa salvezza esclude sia la riduzione del cristianesimo a somma di doveri sia la sua concentrazione sul minimo, il non far peccati mortali.

* Il secondo é la testimonianza personale e comunitaria della fede; al riguardo andrà preso atto dello spostamento in corso dalla scuola e dall'assistenza ai malati - da continuare - alla centralità della formazione delle coscienze ed al volontariato.

* Il terzo riguarda le modalità della comunicazione della fede: da una forma autoritaria e dispari ad una forma sempre più partecipata e dialogata.

Ne viene una cura della comunicazione della fede: non é più solo il prete e non é più solo la predica ma é l'impegno di tutta la comunità.

3. L'accompagnamento delle persone: At 3,7-10.

Il testo richiama questo prendersi cura e questa condivisione: lo prese per mano, lo sollevò, entrò con loro nel tempio lodando Dio. Non basta proclamare la verità del vangelo ma bisogna seguirla anche nel suo sviluppo concreto.

* Il piccolo gruppo come struttura dove mettere alla prova quanto si impara e dove sentirsi sostenuto nel farlo. Cellule fraterne legate al vangelo e capaci di sostenere la vita.

* Creare un ethos popolare che ridia stima e consenso alla vita di fede.

* Non accontentarsi di fare ma costruire una vita alternativa che leghi la contemplazione di Dio e l'impegno per i fratelli.

In un simile quadro prende tutto il suo valore la vita liturgica: diventa suscitatrice di un vissuto, quello evangelico.

Domande

1. La comunità cristiana fa molte cose; quali di queste raggiungono la gente e quali la smuovono e la convincono?

2. Quale é la tua esperienza della Parola? cosa e come comunichi agli altri di quello che vivi?

3. Hai mai fatto parte di una piccola comunità? cosa ti convince e cosa ti rende perplesso?

 

 

RELAZIONE DI don Gianni COLZANI- Giornata Comunitaria del 21/5/2OOO

"Quale futuro per la parrocchia"

Si può dire che non sia così frequente il desiderio di fermarsi a riflettere sulla vita della comunità come di una cosa propria come qualcosa che ci appartiene e che vive della nostra fantasia, del nostro coraggio e purtroppo anche della nostra inerzia.

Molto semplicemente io pensavo di dare a questa riflessione il tono di una "lectio" prendendo lo spunto da un episodio del libro degli atti; evidentemente la scelta dell'episodio è decisiva e mi mette di fronte ad una situazione abbastanza particolare, classica diremmo del Vangelo. L'episodio che sceglierei è il racconto Atti 3,1-1O, un racconto di guarigione di una persona storpia da parte di Pietro e di Giovanni , mentre salgono al tempio per la preghiera. Forse vale la pena di ascoltarlo un momento.

Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta "Bella" a chiedere l'elemosina a coloro che entravano nel tempio. Questi, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò loro l'elemosina. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse:" Guarda verso di noi". Ed egli si volse verso di loro aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: "Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo dò: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!". E, presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere l'elemosina alla porta Bella del te

mpio ed erano meravigliati e stupiti per quello che gli era accaduto.

Io credo che l'episodio sia chiaro. Quando andiamo a Dio non possiamo mai saltare i fratelli che ci sono sulla strada che ci porta al Signore. Quando misuriamo il nostro cristianesimo sulla base dei rapporti coi fratelli , allora questo brano ci offre una serie di opportunità per riflettere.

Io distinguerei tre momenti. Il primo innanzitutto mi sembra l'equivoco , la distanza fra la comunità cristiana credente e gli altri. Il testo lo dice chiaramente, Pietro lo interroga così: "Guarda verso di noi " ed egli guardò verso di loro aspettandosi di ricevere una elemosina abbondante. Questa diversità di intenzioni, la Chiesa pensa una cosa, la gente ne suppone un'altra, questa diversità di intenzioni è il dramma, è il punto di partenza, è la distanza e l'equivoco che pesa sulle nostre comunità.

Noi facciamo i sacramenti dell'iniziazione per introdurre le persone nella vita evangelica; le famiglie accettano questo cammino perché lo fanno tutti. Noi impegniamo una fetta notevole della nostra attività nella preparazione dei giovani al matrimonio, ritenendo che questa tappa fondamentale della vita risponda a un progetto di Dio e alla riscoperta di una vocazione personale. I giovani lo fanno per non dare dispiacere ai genitori. Non esiste sempre la medesima intenzione che muove la comunità anche dall'altra parte; ci sono diverse ragioni, diverse motivazioni, diversi cammini. E' questo l'equivoco, la distanza. Io credo che noi dobbiamo dire che questo equivoco, questa distanza tra la gente e la Chiesa rischi di diventare oggi sempre più largo. E non si tratta soltanto di un equivoco e di una distanza da ridurre ai problemi della incoerenza, della fragilità personale, degli eventuali peccati ecclesiali. Non si tratta nemmeno di insufficienza di organizzazione, si tratta di

una vera e propria distanza culturale: la fede non rappresenta più il motivo di fondo nella interpretazione della vita, cioè del bene, del male, del lavoro, della nascita, della morte, dell'amore, della carriera; la fede non rappresenta più il criterio fondamentale. Ed è proprio questa distanza culturale che mi pare importante cominciare a delineare brevemente.

La prima osservazione è quella che dice che noi viviamo oramai in una società complessa e frammentata. Complessa, nel linguaggio dei sociologi non vuol dire complicata; complessa vuol dire una società i cui i singoli settori sono guidati da leggi proprie, autonome quasi, cosicché l'economia va guidata da leggi economiche, la scuola da leggi pedagogiche, l'amore da leggi psicologiche , e l'etica cosa guida?

Emerge la fine di ogni concezione totalizzante e in particolare di quella cristiana; ogni singolo settore rappresenta una realtà a sé stante. Tutto ciò rende difficile capire che cosa significhi aver scelto il Vangelo e rende difficile soprattutto alle generazioni giovani riunificare tutta la propria vita attorno alle scelte che si fanno .Quando parliamo di fragilità giovanile, che cosa intendiamo? Non certo che sono meno entusiasti, meno generosi, meno solidali dei giovani di una volta. Intendiamo per fragilità il fatto che il contesto sociale nel quale noi viviamo è fatto di propose multiformi, autonome, ognuna a sé stante, che impediscono agli adulti, e figuriamoci ai giovani che sono ancora in formazione, di unificare con fermezza , con decisione, tutta la propria vita.

La fine del carattere totalizzante della fede rende molto difficile ogni educazione, ogni comunicazione della fede.

Ancora, il cambiamento del paradigma di spazio, di luogo : che cosa è vicino, che cosa è lontano in un'area metropolitana? Il compagno, la famiglia del medesimo pianerottolo? vicino e lontano non sono più concezioni geografiche; vicino e lontano sono concezioni psicologiche, legate ad una profonda relazione di fiducia. Vicino è colui del quale mi fido, anche se sta dall'altra parte della città. Lontano è colui del quale non mi fido, anche se sta a tre metri da casa mia.

Allora emerge una rete di relazioni, di tessuti sociali favoriti dall'ampia possibilità di comunicazione oggi in atto; emerge una rete di relazioni che configurano la comunità più come una comunità emotiva, dove ci si trova bene; una comunità più vicina ai gruppi, ai movimenti, che non alle parrocchie, le quali fanno la scelta del territorio come lo spazio in cui io accolgo non quello di cui mi fido, ma l'altro , chiunque esso sia nella fiducia in quell'Altro che è Dio.

E proprio nella carità dell'amore per Lui mi apro all'altro, anche se diverso da me. Ma la sfida del cambiamento del paradigma dello spazio, vicino, lontano, sono concetti che sono cambiati moltissimo.

Il cambiamento della nozione di tempo. Noi abbiamo sempre considerato il tempo come continuità: passato che prepara il presente, che prepara il futuro e ragioniamo così. Ma il concetto di tempo nel nostro mondo è costituito attorno alla rottura più che attorno alla continuità; è il nuovo che è fondamentale, non quello che è stato lungamente preparato; è il "nuovissimo" che ha sempre ragione. In questo contesto la perdita della nozione di continuità che cosa diventa? fatica alla sua traduzione etica, la fedeltà. E difficile essere fedeli, proprio perché la vita è fatta apparentemente, nell'immaginario di molti, di continui falli.

Ora, se noi ci rendiamo conto di questi cambiamenti che ho citato ad esempio (la nozione di spazio, di tempo, la fine di ogni visione totalizzante, una società complessa), al di là di questi cambiamenti noi intuiamo come la vita comunitaria delle chiese sia stata profondamente cambiata e sia oggi alle prese con problemi nuovi, problemi nuovi che non possono essere risolti sulla base del passato, che devono essere affrontati in una prospettiva differente

Quindi noi siamo oggi di fronte alla sensazione che fra le comunità cristiane e la gente non c'è più una naturale intesa: c'è una distanza che cresce, c'è una distanza culturale, una fatica da parte della gente a capire la Chiesa e da parte della Chiesa a capire la gente, quella fatica e quella distanza tra Pietro e lo storpio: l'uno pensa a comunicare la fede, l'altro pensa a un guadagno probabile. Quella distanza tra Pietro e lo storpio è il simbolo della distanza tra le comunità che credono e le persone attorno a loro.

Non è una cosa nata oggi, non è una sfida cominciata oggi. E' una sfida rispetto alla quale alcuni passi sono già stati fatti. E a me preme ricordarli per la loro importanza. Mi paiono riducibili alla fin fine a due fasce: innanzi tutto la scelta della evangelizzazione, poi la scelta dell'incarnazione

La scelta della evangelizzazione, della Parola. Il cuore della comunità non sta attorno ai sacramenti che suppongono un rapporto tra credenti, ma il cuore della comunità sta attorno alla capacità di allargare il proprio orizzonte fino a farsi carico di tutti i propri fratelli, che credano o non credano. Il primato della Parola risponde ad una Chiesa che non si accontenta di gestire quello che c'è, ma pensa ad aprire il proprio cuore, il proprio impegno a tutti, realmente tutti.

Ecco allora il primato della Parola. Perché il primato della Parola dovrebbe realizzare ciò che una tradizione di maggioranza cristiana non è riuscita a fare?

Perché il primato della Parola è necessariamente connesso alla vita. La Parola, ci spiega il Vangelo, è come un seme che ha bisogno della terra, di crescere , di dare frutto, dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento per uno.

Radunarsi attorno alla Parola significa radunarsi con i propri problemi, le proprie esigenze , ricordando che i cristiani non sono popolo di Dio in cammino , sono diversi dai loro fratelli; essi non sanno meglio degli altri se votare e cosa votare; essi non sanno meglio degli altri quale politica, quale economia , ma essi in cammino con tutti i loro fratelli e quindi con i medesimi dubbi, le medesime incertezze e a volte le medesime o diverse opzioni. Essi hanno in più soltanto la luce della Dei Verbum, né più intelligenza storica, né più intelligenza sociale e politica. Hanno la Parola di Dio, che non è soluzione ai problemi, è seme da calare dentro con un lavoro paziente, mediato, dentro la cultura e dentro le scelte che poi uno si sentirà di fare.

Ecco che allora noi intuiamo come il primato della Parola e le comunità stanno a poco a poco attrezzandosi, stanno a poco a poco spostando il proprio baricentro dalla gestione dei sacramenti alla proclamazione della Parola.

Io non dico affatto che i sacramenti non hanno rilievo. Conosciamo tutti l'importanza dell'Eucaristia .Ma non diamo per scontato l'esistenza di una comunità cristiana, non diamo per scontata la fede, nemmeno la nostra; la fede non è più una cosa ovvia, nemmeno per noi. Fede e incredulità non sono due tipi di persone, chi va in chiesa e chi non ci va. Fede e incredulità sono due dimensioni che operano all'interno di ogni persona, credente o lontana che sia.

Anche nella nostra vita la storia ha sempre così tanta fantasia da mettere in crisi la nostra fede e la nostra fede ha sempre così tanta forza da riprendere a volte il comando della propria vita.

Ecco allora che il primato della Parola è il capire che la questione di fondo è portare le persone a credere ; poi rimane la questione della coerenza nella fede

Ma questo problema che era quello del passato : tutti erano cristiani e dovevano imparare a vivere da cristiani, non è nostro. La maggioranza non cristiana. Prima ci accorgiamo di essere una minoranza culturale, prima intuiamo quali possono essere i nostri cammini all'interno di questa società

Il primo punto mi pare sia allora prendere atto della distanza, il valore della Parola, la Parola proclamata, accolta, meditata, pregata, vissuta, celebrata.

La Parola è come un seme che cresce poco a poco fin a costituire su quella radice una comunità di fedeli di persone che hanno la fede

Assieme al primato della Parola la nostra Chiesa ha fatto una scelta, del primato del laico cioè ha cominciato a riflettere sul fatto che il cuore della comunità non è il sacramento dell'Ordine, ma quello del Battesimo, che ci costituisce figli di Dio, impegnati nella testimonianza della missione che Egli ci ha affidato. Questo non equivale a cancellare né la gerarchia, né le diversità di carismi definiti ma equivale a sapere che il laico per vocazione si colloca là dove la frattura fra la fede e la vita è più evidente. E si colloca con la ricchezza del suo battesimo, là dove la fede deve diventare radice di interpretazione del lavoro, dell'amore, della sofferenza, del morire, dell'impegno sociale e politico, di tutto. A saldare la distanza tra la fede e la cultura non saranno le lettere dell'episcopato, sarà la vita della gente. Le lettere possono dare delle indicazioni pastorali, ma saranno le comunità cristiane, attraverso il primato della Parola, il primato del laicato, ch

e accettano di collocarsi sulla frontiera. La Parola e il laicato collocano la comunità di fronte alla vita, alla società, a questa società laica nel significato più nobile e più bello. Accogliamo i nostri interlocutori nel loro aspetto migliore. Parlar male di questo tempo e dire che non va bene, non è poi difficile, ma non ci porta da nessuna parte. Invece il cogliere i valori di questo tempo, che sono tanti, dalla libertà all'autonomia, al valore dell'intelligenza, allo spazio della ricerca, all'impegno per il dialogo, alla rete di relazioni esistenti, e cogliere i valori di questo tempo obbliga la Chiesa a collocarsi colla Parola e con i suoi laici sulla frontiera tra fede e vita.

Se la Chiesa deve mantenere la gerarchia la mantiene semplicemente come una struttura di servizio. I vescovi e i preti ci sono perché nessuno trasformi il Vangelo in qualcosa di comodo per sé, perché il Vangelo risuoni sempre nella sua interezza e nella sua genuinità, perché la carità non sia mai limitata solo ai cristiani, ma a tutti gli uomini; perché la comunione abbia il cuore costantemente largo quanto era largo quello del padre del figliol prodigo;

Ecco allora che noi dobbiamo prendere atto di quello che c'è .Il primo esercizio vedere la nostra situazione, gli equivoci, le distanze, le ragioni e le cose indicate e i punti sottolineati sono semplicemente un quadro generale che poi va adattato a ogni situazione concreta.

Il secondo momento che mi pare altrettanto importante è costituito dall'annuncio, dalla comunicazione della fede. Il testo del brano letto mostra Pietro che lo formula così: "Io non ho né oro né argento, ma quello che ho te lo dò. Nel nome di Gesù, il Nazareno, alzati e cammina". Il cuore dell'annuncio, qui così, non è il contenuto della fede, è la comunicazione della fede. Il problema non è solo il contenuto della fede, l'ortodossia della fede. Certo, pure questo è importante, ma l'attenzione deve cadere sulle modalità della comunicazione, sulle modalità con cui comunichiamo la fede. Se noi fermiamo l'attenzione sulle modalità della comunicazione, allora dobbiamo dire che non è il Vangelo che è diventato vecchio, incapace di entusiasmare, di salvare, ma è il nostro modo di presentarlo, di viverlo, le nostre liturgie, le nostre catechesi che sono diventate vecchie, incapaci di coinvolgere le persone, la gente.

Se il primo punto era l'equivoco, la distanza, il secondo punto è proprio la comunicazione, che non più essere come nella no stra società ,del tutto tecnicizzata. Ogni tanto noi vediamo qualche grande progetto per una televisione cristiana, per una radio cristiana, per una comunicazione della fede, tecnicizzata. Si più fare del bene in tutte le forme, ma la comunicazione della fede è sempre stata fondata sul rapporto diretto, personale, di un individuo con un altro; se avremo la capacità di parlare del Vangelo sul tram e all'edicola dei giornali, in treno e dal parrucchiere, o se limiteremo la comunicazione della fede al momento tutto ecclesiastico della parrocchia, delle aule di catechismo, Il problema è la comunicazione della fede.

Allora diventa importante chiederci quali aspetti sono importanti nel comunicare la fede.

Il primo aspetto che io sottolinerei è la gioia, la gioia di essere salvato.

Mi capita di parlare in molti posti; ci sono quelli che dicono che sei bravo, altri che non lo sei, è sempre stato così. Raramente i cristiani dicono che è gioioso ascoltare il Vangelo. Noi abbiamo trasformato la vita cristiana in una serie di doveri, non in un insieme di gioia; c'è un doverismo, un appiattimento della vita cristiana sul minimo indispensabile: non far peccato.

Ma la vita cristiana non è prima di tutto appiattimento, dovere; è prima di tutto esperienza di un Vangelo, di una buona notizia, di una gioia.

Il mio vescovo ci ha fatto pensare , ha ripreso quella frase di Dostoiewski : "quale bellezza salverà il mondo ?"

Ma capita a noi di dire a volte, al termine di una esperienza : "E' stato bello!" Più essere un matrimonio, un incontro, più essere anche un dibattito. Uno dice non che è stato vero, ma è stato bello. Ci capita mai di dire dopo una messa della domenica : E' stato bello. Uno dice: Meno male che è finito, per una settimana non ci pensiamo più.

Credo che il primo atteggiamento è la gioia. So bene che la comunicazione, la verità, non dipendono dalle ragioni soggettive, ma la comunicazione si avvale anche di testimoni, di persone per le quali il Vangelo ha fatto luce, ha fatto chiaro dentro di sé. A me sembra allora che la prima caratteristica della comunicazione della fede, sia veramente la gioia.

La seconda caratteristica della comunicazione cristiana, il Nuovo Testamento la chiama parresia. E' un termine difficile da tradurre, potremmo tradurre è la franchezza, è la libertà di cuore e di parola, è la semplicità schietta, la consapevolezza che chi fa parte di un gruppo, di una storia , ha diritti e impegni in ordine a quella storia; diritti e impegni che si esercitano innanzitutto parlando, mettendo a disposizione degli altri i propri pensieri, il proprio cammino; rendendo comunicazione franca, non perché tutti debbano pensare allo stesso modo, ma perché tutti si arricchiscano di tutto.

Nel libro degli Atti cap.4, 12 gli apostoli sono chiamati davanti al sinedrio proprio per l'episodio del cap.3. ed offrono la loro testimonianza. Il versetto 12 dice che i farisei, i sinedriti si stupivano per la loro parresia, considerando che erano popolani e senza istruzione, ma riconoscendoli per coloro che erano stati con Gesù.

Questo essere stati con Gesù ci obbliga ad una parresia che deve sconfiggere l'individualismo così diffuso; deve ricordarci che il far parte di una storia implica la gioia ma implica anche la libertà di mostrare tutto questo.

Allora io credo che noi dobbiamo prendere atto che la comunicazione della fede dovrà essere oggi sempre meno autoritaria e sempre più dialogata; dovrà essere una comunicazione della fede che riconosce lo spazio anche del dubbio o meglio della difficoltà, perché non si cammina nella fede come per una naturale, spontanea , ovvia crescita, ma si cammina nella fede anche attraverso difficoltà e dubbi. Usando con rigore il termine, il cardinale Newman diceva: mille difficoltà non fanno ancora un dubbio. E voleva dire il dubitare è un animus che già si è distaccato dalla comunione.

Ma le difficoltà che nel linguaggio nostro più popolare è anche il dubitare, fa parte della maniera umana di cercare; vi un dubbio ricco di scetticismo, ma vi è un dubbio che fa parte della ricerca normale e non si progredisce nella fede se non domandando, ricercando, ponendo problemi.

Ecco allora che la comunicazione della fede è gioia, è parresia ed è poi offerta semplice della fede ai nostri fratelli. Questa offerta della fede sta oggi cambiando di forma. A me pare di percepire che la Chiesa italiana sta cambiando il modo di intendere la sua presenza nella società, passando dalla tradizionale assistenza che investiva soprattutto sulle scuole e sull'assistenza agli anziani e che vanno mantenute perché sono forme di carità, a una prospettiva nuova che insiste soprattutto sulla formazione delle coscienze e sulle forme di volontariato.

Valorizzare la formazione delle coscienze significa pretendere di intercettare la società in tutte le sue organizzazioni partitiche e sociali, culturali e di altro genere e diventare lievito trasversale al cammino di tutta una civiltà.

La fine del partito cristiano deve permettere alla Chiesa di poter parlare a tutti, nel nome certo di un Vangelo, nel nome certo di una formazione della coscienza, che non ha il monopolio: ci sono anche altre centrali, ma deve permettere alla Chiesa di parlare del bene, tutti con tutti. Questo mettere al centro la formazione delle coscienze e il volontariato significa non abbandonare le opere cristiane, ma significa considerare centrale il rapporto con la società intera.

Vi sono cose nella società che non possono essere delegate a nessuno: la libertà, la dignità di tutte le persone, il rispetto di ciascuno, non è cosa che uno possa delegare mai.

Ed è allora che la formazione della coscienza e il volontariato come impegno preciso, diventano fondamentali a fianco della gioia di essere salvati, della parresia, dell'impegno che ha moltiplicato le forme di presenza sociale e che troverà spero chi le porta avanti, ma la sensibilità dell'oggi si muove in questa direzione.

Allora io credo che la comunicazione della fede non appartenga più soltanto al sacerdote, ma è di tutta la comunità, perché uno comunica fede anche semplicemente tacendo, nel senso che ne configura un tipo di comunicazione individualista rispetto alla propria individuale salvezza.

Allora io credo che il vero problema nostro è sì la fede, l'ortodossia, ma non credo che in Italia abbiamo troppi eretici; il vero problema nostro è la comunicazione per noi. Non basta credere, bisogna comunicare la fede, ritrovare una rete di relazioni; non basta dire : la porta della chiesa è aperta, chi vuole venga; bisogna ricostruire una rete di relazioni, bisogna che veramente si rifaccia quel feeling, quell'intesa fra la comunità cristiana e la gente.

La terza e ultima cosa che volevo dire dopo l'equivoco e l'annuncio, è la comunione nel nome di Gesù

Il nome di Gesù non è un principio di divisione, ma un principio di comunione per chi crede e per chi non crede. C'è nel Vangelo di Marco una battuta carognesca. I discepoli dicono a Gesù:" Abbiamo visto un tale che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo proibito, perché non era dei nostri". Un tale che usava il nome di Cristo, non era dei nostri. Risposta di Gesù: Lasciatelo fare, chi non è contro di noi, è per noi. Dice il commento: non c'è nessuno che possa usare il mio nome e subito dopo parlar male di me.

Ecco allora che ci accorgiamo che la fede non serve a distinguere i cristiani dagli altri, ma serve a distinguere coloro che vogliono diventare principio di coesione , principio di dinamismo all'interno di questa società, da altri che si muovono sulla base di criteri differenti.

Terzo momento, l'accompagnamento delle persone. Il brano del libro degli Atti dice che Pietro prese per mano lo storpio e insieme entrarono nel tempio ringraziando e lodando Dio.

Si tratta di prendersi cura dell'altro. Chiunque abbia cominciato una minima esperienza di comunicazione della fede, sa quanto è impegnativa.

Io credo di non dire cose molto lontano dal vero se dico che una volta fatta la predica, fatta l'ora di catechismo, si era convinti che la verità opera come un seme nel terreno e cresce da sola; la verità si costruisce la propria spiga.

In realtà oggi nel terreno non entra più solo la parola della Chiesa.....

Accompagnare le persone vuol dire prenderle per mano e seguirle nel loro maturare, nel loro sviluppo, nel loro cammino. L'accompagnamento delle persone richiede tempo, pazienza; esige di entrare in quel mondo fluido in cui uno dice una cosa ma ha bisogno di ridirla, oppure la dice e la smentisce il giorno dopo. Solo lentamente le persone maturano le forze, solo lentamente le convinzioni passano dal centro della nostra vita alla periferia e diventano fondamentali.

L'accompagnamento delle persone implica farsi carico di loro, delle loro esperienze a poco a poco. Non è mai facile perché noi viviamo in una società che non costruisce solo cose, ma pretende anche di costruire il costume e la moralità delle persone.

Chi mai ha detto ai giovani che l'ideale è passare in discoteca la notte , dormire fino a mezzogiorno e farsi servire a letto la colazione? Mica i genitori. E' l'aria che respiriamo, il mondo in cui viviamo. L'ha detto ai giovani e l'ha detto anche a noi, anche se siamo un po' vecchi per certe cose.

Io credo che noi viviamo in un mondo che non costruisce più cose, ma costruisce cultura, mentalità. L'idea di una volta che la scienza, la tecnologia riguardano soltanto la parte materiale , non è più vera. Metà degli scienziati scrivono libri di filosofia, perché si accorgono che lo sbocco naturale della propria ricerca è interrogarsi sulla vita, sul senso, sui valori. Ed è in questo contesto allora che l'accompagnamento delle persone ha a che fare con un moralismo, spesso caotico, confuso, con cammini incerti, insicuri. Io credo che due scelte vadano diventando sempre più necessarie in questa logica di accompagnamento.

La prima scelta è quella del piccolo gruppo, un gruppo cioè dove mettere alla prova quello che si discute, si conclude, si intuisce ed essere sostenuti nel farlo.

Ormai questo tema delle comunità ecclesiali di base è un tema mondiale; Questi atteggiamenti sono tipici soprattutto dei paesi di missione, dove la percezione che occorrono strutture agili e dove la mancanza di storia alle spalle rende più facile il creare queste strutture giovani , dà facilmente agio a questo.

In qualche modo una piccola comunità è una comunità di gente, con i suoi problemi, che si ritrova attorno alla Parola, per riscoprire la gioia di accoglierla e di viverla, di testimoniarla, e in quanto tale diventa cellula, lievito del mondo attorno a sé, diventa parte della missione della comunità.

Credo che questa realtà di comunità legate alla Parola del Vangelo e legate a un dialogo attento e sincero con la vita, dice che qui vi è un'autentica esperienza dello spirito, che è spirito di vita, che è spirito di verità, che è spirito di santità. Certo che tutte le esperienze dello spirito vanno mantenute nel quadro del discernimento.

Ma prima di parlare di pericolo, cominciamo a parlare dei passi che si debbono fare: piccole comunità fraterne che diventino capaci di sostenere la fatica, la scelta, i dubbi delle persone.

La seconda scelta è la consapevolezza sempre più grande che servire il Vangelo significa scegliere oggi una strada un po' alternativa rispetto al sentire comune; e questa alternativa deve pur diventare carne e sangue, deve pur tradursi in scelte. E' difficile dire è questa o è quella la scelta che devi fare: ognuno la fa come il suo cammino glielo permette.

Però mi pare che proprio in questo senso allora emerge un accompagnamento delle persone; credere che seguire Gesù è farsi carico come lui degli altri, dell'altro, del fratello che il Signore ti ha messo vicino.

Il piccolo gruppo, il coraggio di una alternativa sono le strade oramai da prendere

Mi pare che proprio in questo senso io direi che questo passo letto prima, rappresenta uno schema comodo, attraverso il quale cercare di comprendere la situazione in cui viviamo. Si tratta innanzi tutto di vedere la distanza, gli equivoci che ci sono; si tratta poi di valutare, di partire dalla fede da comunicare, da questo nome di Gesù, da questo Vangelo, per vedere come lo comunichiamo. Che non ci capiti come al servo, di seppellirlo per tirarlo fuori inalterato al termine della vita, sarebbe ben poco.

Vedere, giudicare, agire è il vecchio schema che abbiamo ritrovato qui: vedere l'equivoco, fare della fede da comunicare il criterio di valutazione, tradurre l'agire innanzi tutto in un accompagnamento di piccoli gruppi all'interno, di vita alternativa all'esterno con semplicità.

Io non so dove andrà l'Italia nei prossimi decenni ; quello che mi importa però è che per quanto posso, voglio fare la mia parte perché vada nell'orientamento migliore . Ed è tutto quello che i cristiani chiedono: non diritti, non privilegi, ma semplicemente di poter fare la propria parte.

Trascrizione dal registratore non rivista dall'autore

 

Giornata comunitaria del 21.05.00 RISPOSTE DI don COLZANI

Le persone sono quelle che arrivano, man mano che faranno conoscenza, ci diranno se vogliono tornare, se vogliono aderire, l'importante bisogna ricordare che chi testimonia la fede deve fare un lungo l'itinerario , è già molto se converto me stesso.

In questo comunicare la fede è la coerenza con me che devo perseguire, con la mia vita, all'altro ci pensa il Signore, va bene se io posso mettere vicino a lui una parola, una testimonianza, ma l'ultimo problema che io devo avere è la conversione degli altri. Quindi direi di testimoniare la propria fede, perché questo fa parte del nostro modo di essere, e in questo senso credo che sia importante il problema del territorio e la richiesta del tempo.

Il problema del territorio ha una importanza però meno personale - ha una importanza sociale, far parte di un medesimo quartiere significa che se manca tranquillità e sicurezza manca per tutti.

Che se le scuole non ci sono non ci sono per nessuno, che bisogna uscire per avere determinati servizi, quindi il territorio è importante sotto il profilo sociale. Lo è forse meno, oggi, sotto il profilo di una mobilità e di una rete di comunicazione enorme, noi abbiamo persone che terminate le prime fasi della scuola materna ed elementare cominciano poi a migrare fuori dal quartiere; per le scuole superiori, per l'università, per il lavoro, per il divertimento, per tutto.

Si creano addirittura delle reti ormai, dove uno non si muove da casa ma comunica, con E-mail, con fax, con tutto con altre persone e si creano dei rapporti di vicinanza o di lontananza molto differenti, detto in termini di vita ecclesiale, questo rischia di favorire delle COMUNITA' EMOTIVE, dove ci si sente accolti, amati, rispetto a delle comunità territoriali dove ci si sente più numero.

Io credo che noi dobbiamo accettare le persone come sono, accettarle con questa ricchezza di comunicazione che non sta più negli ambiti né di quartiere e né di parrocchia, poi l'educazione è di aprirli alla carità, e la carità incomincia da quello che hai vicino, da quello che vive la vita con te, ma non confondiamo il punto di partenza con il punto di arrivo.

Il punto di partenza sono le persone così come sono, il punto di arrivo, se ci arriviamo, sono le mete che mettiamo davanti a noi per provare ad arrivarci insieme.

Io credo che lo stesso si deve dire a proposito del tempo, l'interrogativo è (proviamo a svilupparlo un po') possiamo dire che tradizionalmente noi abbiamo pensato il tempo come legato ad una continuità, il presente è frutto di un passato e prepara il futuro che verrà. In termini un po' più vasti abbiamo pensato il tempo come un progresso, una evoluzione, il tempo come legato ad uno sviluppo progressivo; ora è proprio questa immagine di tempo che non abbiamo più. Se dice qualcosa, ha partire da Haidegher, noi abbiamo una concezione del tempo che non è più legata al progresso, ma è legata all'essere e nella misura in cui noi siamo legati a questa visione del tempo segnata da una drammatica rottura, allora anche lo schema evolutivo, progressivo, non tiene più. Di fatto quello che emerge è una concezione del tempo che non procede a poco a poco, con pazienza, ma procede per salti, procede per scelte, procede per novità e questo salto e questa novità non corrisponde necessariamente a un

o sviluppo preparato, voluto, cercato - arriva, piomba addosso.

Allora abbiamo due problemi: il primo è la non evidenza della continuità, gli adolescenti, ma non più solo gli adolescenti dicono: se voglio cambio. Noi abbiamo delle persone che vivono una vita, ma ben organizzata, ma poi in 15 o 20 giorni la rovesciano, e uno si chiede come mai, perché - ma perché la continuità non è più il valore supremo, anzi, direi che dire per sempre mette addosso un po' di paura, di timore, sapremo mai fare una cosa del genere? La visione del tempo non è più legata alla concezione della continuità paziente che costruisce giorno dopo giorno il proprio spazio, il proprio ruolo. E' vero che i genitori lo dicono, cercano di insegnarlo, ma il mondo in cui viviamo sembra procedere più per salti, più per proposte di cose nuove, più per scomparse e rinascite, più per rotture che non per continuità. Ora la non evidenza della continuità dice questo: la fatica della sua traduzione etica - in termini etici la continuità è la fedeltà. La fedeltà non gode di buona stampa,

la fedeltà equivale a monotonia, la fedeltà equivale a ripetitività, la fedeltà equivale ad asfissia spirituale. In realtà non è così, ma questa riflessione sulla quotidianità come ricca di possibilità non è la più ovvia oggi, la quotidianità mi fa morire, c'è bisogno ogni tanto di uscire, di respirare, di fare qualcosa di diverso, deve rompere con il tran - tran. E questa visione della rottura, se la perdita della continuità rende difficile la fedeltà - (ma come sono dei ragazzi vissuti bene, poi) poi si sposa in municipio, ancora grazie, almeno da un ordine alla sua vita, oppure fa le scelte che fa!

C'è proprio questo procedere per rotture, e questo procedere pone dei dogmi che sono falsi, ma tutti li ripetono, che il nuovo è sempre migliore del vecchio - che bisogna cambiare, perché cambiando andremmo meglio, ma sono frottole, ma li ripetiamo e siamo convinti che bisognerà cambiare alla disperata, ma è meglio cambiare.

s. Ignazio nei suoi consigli per il discernimento dice: quando sei confuso sta fermo, non cambiare niente, perché è l'occasione peggiore pretendere di cambiare quando non capisci cosa scegliere. Non cambiare quando sei confuso, invece oggi si cambia, almeno sarà nuovo, e questo criterio certamente apre una serie di problemi all'interno della comunità, perché la comunità ha un principio di tradizione. la comunità cristiana vive della normatività di Cristo, e vive della tradizione del Vangelo da Cristo a noi. E' vero che in questa tradizione si sono incrostate molte cose, non c'è il Vangelo vivo, puro, c'è il Vangelo segnato dall'entusiasmo e anche dalla fatica e dalla pigrizia di tanti, per cui il principio di tradizione è una. però io credo che dovremmo ricavare dalla nostra fede una convinzione che deve essere costantemente una tensione tra una memoria del passato e una profezia, una creazione del futuro. La fede non è guardare indietro, tagliandosi il futuro, non è vivere di nostal

gia, e non è nemmeno tagliarsi le radici, vivere solo di futuro, e questa tensione continua, creativa fra la memoria da cui si viene, da cui si è generati, e il futuro che si sogna, che si vorrebbe sognare in grande, continuamente in una maniera nuova e propositiva. Io credo che sia questa tensione il punto, muoversi così dovrebbe evitare delle comunità puramente emotive per aprirle alla carità verso tutti, dovrebbe evitare delle comunità puramente del cambiamento dandoci una sostanza, una condivisione di un cammino, di scelte pazientemente costruite insieme, dovrebbe evitare anche un disinteresse per il tempo, proprio perché le cose avvengono con una certa pazienza.

Poi ci sono dei problemi. Le piccole comunità si chiudono, questo è il loro rischio, soltanto se continuamente sono richiamate ad essere parte di una realtà più grande che è viva, non che è un museo, che è vivente, solo allora le comunità sono motore, però il valore della comunità (se posso fare un paragone) è evitare di essere un ingranaggio, una piccola rotella di qualcosa di enorme, di più grande che ci stritola. La piccola comunità è un ingranaggio o è un pugno divieto, la famiglia che cos'è oggi, per tante cose un ingranaggio, ma per tante cose è una riserva di energia, di rispetto, di promozione delle persone, l'evitare di essere ingranaggi anche della comunità più grande per essere lievito, ci apre alla comunione di comunità di cui sentivo parlare.

Lo stesso vi è un problema di piccole comunità e volontariato, non sono le stesse cose, perché diverso è lo scopo, normalmente il linguaggio del volontariato ha un orizzonte sociale, quello che ha di mira, il linguaggio delle piccole comunità ha un orizzonte ecclesiale. Non sono le stesse cose, non sono sovrapponibili, un gruppo di volontariato non è per forza di cose costruito su una condivisione di fede, nell'impegno per la persona umana ci si può ritrovare anche con fedi diverse, per cui l'orizzonte, normalmente, di piccoli gruppi o grandi di volontariato ha un orizzonte sociale con una fondazione o un rimando fondativo in genere alla persona umana, alla sua dignità, alla solidarietà, ad un progetto sociale ricco dell'apporto di tutti. Il valore dei piccoli gruppi intesi come comunità, piccole comunità invece è ecclesiale, è un'articolazione di una parrocchia che non vuol separarsi, ma vuole articolarsi meglio, per raggiungere meglio tutti e permettere a tutti di esprimersi al meg

lio, l'orizzonte è diverso, dire che non esistono contatti sarebbe dire una bugia, perché nella misura in cui i gruppi di volontariato funzionano diventano non solo un momento di aiuto agli altri, ma anche un momento di riflessione su di se, sulla propria vita. chiunque fa volontariato dice che ha incominciato per fare qualcosa per gli altri e ha finito per fare qualcosa per se. Si incomincia per gli altri e si finisce perché ci si è arricchiti, perché si è molto di più ricevuto, e questo fare qualcosa per se entra in un certo momento anche l'interrogarsi sul fondo della propria vita, così è per le piccole comunità man mano che crescono prendono coscienza dei problemi, prendono coscienza che non si può trasporre il livello ecclesiale nella società o peggio ancora nella politica. Ma il livello ecclesiale è anche un guardare i problemi per un decidere di fargli fronte, per cui sono due orizzonti diversi, uno sociale e l'altro ecclesiale, ma sono molti i punti di contatto, non a livell

o di gruppi, ma a livello di persone, che si interrogano, fanno un cammino, fanno le loro scelte, in questo senso io vedo un po' l'inquadratura, la risposta.

L'altra domanda era: visto che esiste nella comunità cristiana anche un fare troppe cose, come recuperare il valore della comunità e superare il rischio dell'individualismo.

Credo che se lo sapessimo, se avessimo la ricetta pronta, anche se molte cose le sappiamo, ma credo però che sia più importante lavorare sul metodo che non sui risultati. In una situazione di fatica è importante sapere perché facciamo una cosa e che cosa ci riproponiamo. Credo che per recuperare il senso comunitario bisogna per prima cosa insistere sui motivi di ciò che facciamo prima che sul fare. Perché i motivi aggregano, diventano valori, diventano punti attorno a cui sentirsi insieme, insistere sui motivi, e poi bisogna credere che la comunità non è quello che faccio quando ho finito di fare tutto quello che mi importa come persona; quello che mi resta quando ho finito di fare tutto quello che mi importa --quello che mi resta è una persona stanca - che non ha nessuna voglia di impegnarsi in comunità, è come se noi dicessimo, facendo un confronto fra la vita famigliare e la vita di lavoro, in famiglia uno porta quello che gli resta quando ha finito tutto il suo lavoro, quello che

gli resta quando ha finito il suo lavoro è una grande stanchezza! Perché magari doveva fare anche altre cose arrivando a casa, allora o uno vive la dimensione comunitaria che fa parte della propria vita, il cambiare un po' mentalità, fa parte della propria vita come fa parte il lavoro, la ricerca, uno spazio, se no come si fa a fargli cambiare mentalità. Io credo che l'unico modo sia farglielo provare, non vedo un'altra soluzione che quello del provare, dello sperimentare il valore che c'è lì, e insistere continuamente sulle motivazioni.

Parto dall'ultima domanda: che sia molto più facile per noi - io vivo a Milano in un'area di periferia, e voi siete a Torino in una grande città - sono situazioni molto diverse rispetto ai paesi, o alle città vivibili, quelle di 60 / 70 / 80 mila persone dove la vita ha un rapporto completamente differente.

L'area cittadina e più ancora quella metropolitana è un'area che ha delle caratteristiche particolari, noi possiamo dire che le chiese sono piene, ma prima di tutto dobbiamo fare una statistica - piene vuol dire il 15 % - per cui piene vuol dire tanto e poco - soprattutto bisogna chiedersi poi il perché in questo momento di confusione non mancano coloro che vedono la chiesa come la cittadella di rifugio, il luogo delle certezze, e non mancano nemmeno uomini di chiesa che ritengono di poter giocare questa carta delle certezze per incassare a proprio vantaggio il clima di fatica di insicurezza che esiste. Penso che nel breve periodo possa essere qualcosa di vantaggioso, ma non nel lungo periodo, e nemmeno nel medio: nel medio e nel lungo periodo non si specula mai sulle debolezze altrui, ma si costruisce in ragione di una capacità di costruire con senso, pazientemente, creando, costituendo a poco a poco. Per cui a prescindere dal fatto che ci siano dei Vescovi, dei preti che si muovon

o in questa direzione, cioè del mantenere quello che c'è, delle manifestazioni di massa, e che hanno senso in alcuni luoghi e ne hanno altro altrove. Credo che la strada che rimane alle parrocchie sia proprio quella più faticosa, ma più precisa di costruire una fede con pazienza nel dialogo con persone libere, credo che questo implichi un'attenzione al mondo dei laici più grande che nel passato.

L'ecclesiologia, consapevoli o no che siano i vescovi, ma l'ecclesiologia su alcuni piani pastorali implica la centralità della vita battesimale, anche là dove non ne sono molto convinti, il primato del laico è questo: e in ogni caso se dobbiamo parlare di sacerdozio ministeriale ordinato da una parte e sacerdozio comune battesimale dall'altra, dobbiamo dire che il sacerdozio fondamentale è quello battesimale - è lì che si diventa figli di Dio - e si è chiamati a vivere da figli di Dio, l'altro esiste perché al cammino dei figli di Dio non manchi mai l'alimento della Parola e del Sacramento. Esiste per il suo servizio. E c'è una frase di Paolo scritta ai Corinzi di cui parlando del suo ministero apostolico dice: non consideratemi padrone della vostra fede, ma collaboratore della vostra gioia.

Io non saprei definire meglio il servizio presbiterale di questo "collaboratore della gioia di chi ha scoperto il Vangelo e vuol viverlo" .

Il tema dell'etos popolare invece è un tema grosso, io sono certamente convinto che la nostra società oramai non costruisce più cose, ma nella globalizzazione tutto è diventato un bene appetibile, e come tale in questo quadro, purtroppo mercantile, acquisibile. Ecco che allora parlare di un etos popolare significa renderci conto che la nostra Italia ha una tradizione, ha una radice cristiana che non permette di equipararla alla Germania, nemmeno alla Francia, ha una tradizione dove il cristianesimo ha bene o male riveduto alcuni dati. Io sono convinto che oramai siamo una minoranza culturale, cioè una volta che una famiglia deve decidere la scuola del figlio e il suo futuro, non si dice, " vediamo il Vangelo che cosa ci raccomanda" ma guarda qual è la scuola che da maggiori possibilità, opportunità di lavoro e qual è il lavoro che dà maggiori possibilità e opportunità di guadagno. Questo è purtroppo il modo con cui ragioniamo ed è questo che ci permette e ci obbliga di dire che siam

o minoranza culturale, nella maniera di interpretare la vita, la morte, il lavoro, non sono più i valori cristiani quelli che vengono considerati prioritari; con tutto questo è vero che la radice cristiana ha generato un senso della persona umana, una coscienza del rispetto per l'altro più diffusa della stessa fede, forse per l'italiano non farà dei grossi saltelli, troverà sempre per l'amico degli amici, per limitare le code, ma io credo che esiste una radice di valori del Regno di Dio a cui la gente è ancora largamente sensibile. Allora io credo che su questo noi possiamo giocare per guidare una transizione, che potremmo guidare per trenta o quarant'anni poi saremo come l'Olanda, saremo come l'Inghilterra, saremo oramai inglobati da una società nella quale non riconosceremo più lo sviluppo del nostro passato, ma oggi la possibilità di guidare ancora questa prospettiva e di far permanere con forza alcuni valori rappresenta ciò che distingue l'Europa dall'America. E ciò che distingue

l'Europa in particolare - latina - dal grande nord. C'è ancora una radice etica. Anche alcune scelte che sono lontanissime dalla fede, ne sono convinto in Italia non sono passate, per quel tanto di valore etico che aveva. Perché nelle scelte di qualsiasi problema non c'è mai il si e il no, c'è sempre la mescolanza di fattori positivi, di fattori negativi. Allora cosa possiamo fare, io credo che sia importante trovare il nostro protagonismo di cittadini, di persone. Esiste una sfiducia nella politica che fa paura, perché questa sfiducia è una faccia di una medaglia che ne ha un'altra, la politica è abbandonata esattamente a coloro di cui non ci fidiamo più, in una circolarità dove un errore aumenta l'altro.

Questo implica il bisogno di un risveglio, di un soprassalto etico che noi non possiamo evocare regolarmente solo all'indomani di qualche grave fatto - il giovane che uccide i genitori - il gruppo bene che tortura un amico - non possiamo evocare soltanto all'indomani di qualche grave fatto, ma dobbiamo renderci conto che è la battaglia quotidiana che vede oramai in primo piano le famiglie oltre alle solite abituali centrali educative. Credo che le famiglie abbiano purtroppo spesso rinunciato ad educare, molte famiglie, va ripreso lì, il sapere che io trasmetto a mio figlio le cose più grandi che ho nel cuore, poi egli ne farà quello che vorrà. Ma non gli ho lasciato niente se gli ho lasciato solo la casa e il titolo di studio e non gli ho lasciato le mie convinzioni, le mie certezze - poi lui ne farà quello che vorrà.