Gerusalemme la pace e l'urgenza d'attendere
LE IDEE
di ELIE WIESEL
"OVUNQUE vada, diceva il celebre Rabbi Nahman di Bratislava, i miei
passi conducono a Gerusalemme". Eppure.
Ebreo residente negli Stati Uniti, per molto tempo mi sono imposto di non
intervenire nei dibattiti interni dello Stato di Israele. Non condividendo le
sue tragedie, non essendo esposto ai pericoli che ne minacciano la popolazione e
forse perfino l'esistenza, non mi arrogo il diritto di dare consigli sul modo di
superarli. Avendo vissuto quello che ho vissuto e scritto quello che ho scritto,
credo che il mio dovere morale sia semplicemente e inevitabilmente quello di
aiutarlo, nella misura del possibile, a raggiungere la felicità e la stabilità
senza generare infelicità intorno a sé. E di amarlo nella gioia e nel dolore.
Al di là delle frontiere, considero il suo destino anche mio, poiché la mia
memoria è legata alla sua storia. Anche la sua politica mi riguarda, certo, ma
indirettamente. Le sue campagne elettorali mi interessano e le sconfitte mi
imbarazzano, ma non essendo cittadino israeliano non vi partecipo. Provo
simpatia per quel politico e ho qualche riserva su quell'altro, ma sono mie
faccende personali e non ne parlo.
Questo comportamento mi ha fruttato "lettere aperte" e articoli aspri
da parte di giornalisti e intellettuali di sinistra; mi rimproverano di non
protestare ogni volta che la polizia o l'esercito israeliano esagerano verso
palestinesi civili o armati.
È RARO che io risponda. I miei critici hanno la loro concezione dell'etica
sociale e individuale, e io la mia. Io accordo loro il diritto di criticarmi, ma
loro mi negano quello di astenermi dal rispondere.
Oggi però si tratta di Gerusalemme, e la cosa è diversa. La sua sorte non
coinvolge solo gli israeliani, ma anche gli ebrei della diaspora come me. Il
fatto che io non abiti a Gerusalemme è secondario: Gerusalemme abita in me. E'
indissociabile dal mio essere ebreo e resta al centro del mio impegno e dei miei
sogni. Rispetto alla politica, per me Gerusalemme è situata a un livello più
alto. Citata oltre 600 volte nella Bibbia, Gerusalemme è ancorata nella
tradizione ebraica, di cui rappresenta l'anima collettiva e il punto di
riferimento nazionale. Esiste una religione o una storia nella quale Gerusalemme
svolga un ruolo più continuo o occupi un posto di maggior risalto? E' lei che
ci lega gli uni agli altri.
Non c'è preghiera più bella o più nostalgica di quella che ricorda il suo
passato splendore e il ricordo terribile della sua distruzione.
Un ricordo personale: quando ci andai per la prima volta, ebbi l'impressione che
non fosse la prima volta. E, da allora, ogni volta che ci vado è sempre la
prima volta. Quello che provo lì non lo provo in nessun altro posto. La
sensazione di tornare nella casa dei miei antenati. Lì mi aspettano Re Davide e
Geremia.
Eppure. Ora, negli ambienti politici, si parla di un piano che vedrebbe la
maggior parte della Città Vecchia finire sotto la sovranità palestinese. Il
monte del Tempio, sotto il quale si trovano le vestigia del tempio di Salomone e
di quello di Erode, apparterrebbe dunque al nuovo Stato palestinese.
Che i musulmani tengano a conservare un legame privilegiato con quella città,
uguale a nessun'altra, è comprensibile. Benché il suo nome non compaia nel
Corano, è la terza città santa della loro religione. Ma per gli ebrei continua
a essere la prima. O, meglio, l'unica. Perché i palestinesi non dovrebbero
essere soddisfatti di conservare il controllo sui loro luoghi sacri come i
cristiani continuerebbero ad avere diritto al controllo dei loro?
Come si può dimenticare che, dal 1948 al 1967, mentre la Città Vecchia era
occupata dalla Giordania, gli ebrei non avevano accesso al muro del pianto,
malgrado l'accordo ratificato dai due governi? A quel tempo i palestinesi non
rivendicavano uno Stato per loro e non menzionavano mai Gerusalemme. Sfido
chiunque a dimostrarmi il contrario.
Perché improvvisamente i palestinesi si ostinano a voler conquistare
Gerusalemme come capitale, mettendo in pericolo tutti i negoziati internazionali
sugli accordi di Oslo? Forse per sostituire, al momento buono, Egitto e Arabia
Saudita nel ruolo di leadership dell'intero mondo arabo?
Yasser Arafat, che pure piace tanto a certi ufficiali di Washington, è riuscito
a sbalordire i capi della diplomazia americana quando, a Camp David, lo scorso
luglio, rifiutando le generosissime concessioni di Ehoud Barak, dichiarò che a
Gerusalemme non c'era mai stato nessun tempio ebraico. Un' ignoranza
sorprendente? Possibile. Ma sarebbe un errore non considerare questa
dichiarazione sotto l'angolazione politica. In altre parole, quando Arafat
pretende la Città Vecchia per farne la sua capitale, priva di fatto il popolo
ebreo della sua legittimità sulla città di Davide e del suo diritto sul suo
passato storico.
Ci dicono che se Israele fa delle concessioni senza precedenti è per la giusta
causa. Per la pace. Un'argomentazione che certo ha il suo peso. La pace è la
più nobile delle aspirazioni, e merita che le sacrifichiamo quanto di più caro
abbiamo. Sono d'accordo. Mi sembra un precetto saggio e generoso. Ma è
applicabile a tutte le situazioni? Si può sempre dire "la pace a qualunque
costo"? L'infame accordo di Monaco non era motivato, per inglesi e
francesi, da un ingenuo desiderio di salvare la pace del mondo? Se cedere dei
territori può sembrare, in certe condizioni, concepibile in quanto
politicamente pragmatico se non addirittura imperativo, si può dire altrettanto
di un piano che comporterebbe la rinuncia alla storia o la sua mutilazione?
Insomma, c'è uno storico o un archeologo che possa negare la presenza ebraica
tre volte millenaria sul monte del Tempio? Ma, allora, con che diritto Arafat lo
rivendica? E perché il presidente Clinton, che pure è amico di Israele, gli
dà il suo appoggio? E poi, ancora, con quale diritto il primo ministro
israeliano Ehoud Barak si potrebbe sottomettere alle sue pressioni? Ma, per i
miei fratelli in Israele, togliere la dimensione storica di Gerusalemme e di
Israele non significa negare il loro diritto di risiedervi e di costruire lì le
loro case?
Mi si chiederà: e la pace, in tutto ciò? Io continuo a crederci con tutto il
cuore. Ma dare la Città Vecchia di Gerusalemme ad Arafat e ai suoi terroristi,
non significa approvare il loro comportamento e forse addirittura ricompensarli?
I palestinesi insistono anche sul "diritto di tornare" di oltre tre
milioni di rifugiati. Su questo punto, il rifiuto di Israele è compatto. Anche
i pacifisti più fervidi, tra cui i grandi scrittori Amos Oz, A. B. Yeoshua e
David Grossman, si oppongono pubblicamente. E vigorosamente. La soluzione di un
ritorno di massa è impensabile. Portare tre milioni di palestinesi in Israele
equivale fisicamente al suo suicidio, cosa che nessun israeliano in buona fede
può accettare.
Nello stesso ordine di idee, non si può forse dire che amputare Gerusalemme
della sua parte storica equivarrebbe per molti ebrei a una sorta di suicidio
morale?
Quando, nel 1967, il giovane colonnello paracadutista Motta Gur gridò nel suo
telefono da campo "il monte del tempio è nelle nostre mani!", tutto
il paese si mise a piangere. Dovremmo adesso piangerne l'abbandono?
Lo dico con tristezza: dopo aver visto sui teleschermi i volti contratti
dall'odio dei giovani palestinesi durante l'intifada II, dopo aver sentito i
discorsi infuocati dei loro dirigenti, dopo aver studiato i manuali scolastici
pubblicati nel 2000 sotto l'Autorità palestinese, oggi mi è più difficile
credere alla volontà di pace dei palestinesi. Per i loro militanti, Israele
rappresenta un'offesa permanente.
Non vogliono un Israele ridotto: non vogliono Israele e basta. E' semplicissimo.
Eppure. Poiché sembra che tutte le opzioni possibili siano state esaurite, la
pace resta il nostro unico sogno da entrambe le parti, guerra e violenza hanno
riempito troppi cimiteri. Così non si può e non si deve andare avanti.
Lo dico in quanto ebreo che ama Israele: i palestinesi sono esseri umani. Hanno
il diritto di vivere liberamente, dignitosamente, senza paura e senza vergogna.
E il mondo e Israele devono fare il possibile per aiutarli senza far loro
perdere la faccia.
Questo è ancora più vero per gli arabi che risiedono in Israele: sono
cittadini israeliani e i loro diritti devono essere protetti meglio. In questo
modo, non saranno tentati dai demoni della doppia lealtà. Quanto al problema di
Gerusalemme, non sarebbe meglio regolare le crisi e le emergenze in un clima di
fiducia e di rispetto reciproci, rimandando le decisioni sulla sorte di
Gerusalemme a più tardi?
Nel frattempo, si potrebbero costruire dei ponti umani tra le due comunità:
visite reciproche di gruppi scolastici, dagli scolari delle elementari agli
studenti delle università,; scambi regolari tra insegnanti, musicisti,
scrittori, ricercatori, artisti, industriali, giornalisti. E più in là,
diciamo tra vent'anni, i loro figli saranno più preparati e meglio disposti ad
affrontare la più scottante delle questioni: Gerusalemme.
E tutti capiranno meglio dei loro genitori e dei loro nonni perché l'anima
ebrea porta in sé la ferita e l'amore di una città senza la quale si
sentirebbe mutilata, e le cui chiavi sono custodite dalla nostra memoria.
L'autore è premio Nobel per la pace nel 1986
copyright Elie Wiesel, 2001
(traduzione di Elda
Volterrani)
Da La Repubblica del 18/01/2001
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