IL
GIORNALE DELLE EGADI - GENNAIO 2000
QUINTA E 'U SCURO di Giuseppe Vetri
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A Marettimo l'epoca del plenilunio, "la Quinta" (da quintadecima = quindicesimo giorno dall'inizio del novilunio), viene vissuta come un tempo da dedicare al riposo e alla cura degli affetti familiari.
Il pesce azzurro durante le notti di luna piena modifica le sue abitudini ed è poco attratto dalle lusinghe della luce artificiale sicché la pesca con la lampara viene sospesa.
I pescatori interrompono la loro attività, dedicandosi, se necessario, alla riparazione e alla manutenzione delle attrezzature, dopo avere chiuso il bilancio economico mensile durante una riunione (U Cuntu) di tutti i componenti dell'equipaggio che si conclude con un tradizionale rinfresco.
Trovandomi nell'isola in un periodo di luna piena, come frequentemente accade in quel microcosmo dai ritmi lenti, indugiavo con alcuni amici pescatori che mi parlavano della loro attività e delle difficoltà sempre più numerose che devono affrontare.
Le loro parole esprimevano stanchezza e delusione per il continuo girovagare prima sul mar Tirreno e poi lungo le coste del mare Adriatico, da un porto all'altro, in un ambiente poco ospitale e reso inaffidabile dalle vicende balcaniche.
Alcuni di essi ricordavano, quasi con rimpianto, i tempi in cui si andava "a cianciolo" nelle acque dell'arcipelago o sui banchi del canale di Sicilia.
La pesca era in quegli anni un'attività remunerativa e si stava lontano da casa per poco tempo. Certo i pescherecci di allora, "i mutura", erano angusti e poco confortevoli ma la casa era vicina e sempre accogliente.
Quei discorsi hanno richiamato alla mia memoria alcuni aspetti della vita dei pescatori, di Marettimo come essi li descrivevano a me, ancora studente, durante le vacanze estive.
Si raccontava di un tempo in cui i pescatori di Marettimo andavano a pesca con imbarcazioni a vela e a remi, "i varche longhe".
Armate con vele latine, avevano un equipaggio di 9-13 uomini che manovravano undici remi.
Uomini rudi, vigorosi quasi guerrieri del mare che con esso lottavano e da esso ricavavano tutto quello che era sufficiente per il loro sostentamento.
Calavano le loro reti di canapa o di cotone, fragili di fronte all'assalto di fere (delfini) e mammarini (foche).
La pesca delle sarde che alimentava un'attività artigianale, la salatura, fondamentale per l'economia locale veniva praticata principalmente con un sistema di reti da posta "trattu", che veniva calata nelle zone frequentate dai branchi.
In altri periodi dell'anno si praticava la pesca del cicirello, della nunnata, della lattarina, delle minnule, dei ritunni, delle aguglie.
Un tipo di rete usata frequentemente con numerose varianti era "u tartaruni", rete a strascico che sfruttava l'azione della corrente per intrappolare il pesce nel cul di sacco terminale. L'azione di pesca gravava prevalentemente su cinque vogatori che restavano ai remi per numerose ore, sfamandosi spesso con "un pistuluni di pane" accompagnato talvolta da una sarda salata o da fichi secchi.
A volte il mare era generoso con i pescatori come attesta l'epigrafe posta alla base della edicola dedicata a San Francesco di Paola (U Suntu Patri). Ma nelle annate sfortunate, quando le sarde disertavano il mare delle Egadi, i varche longhe erano costrette a fare vela verso le coste tunisine o libiche che per i marettimari erano diventate familiari come la loro terra natia.
In quelle acque si dedicavano anche alla pesca delle spugne molto richieste in un'epoca in cui le fibre artificiali erano poco conosciute.
Era una continua ricerca di pesce regolata dalle stagioni, dagli eventi atmosferici e limitata dalle difficoltà stesse che la natura opponeva allo sforzo dei pescatori.
L'uso delle reti si alternava con quello dei conzi per la cattura dei pesci pregiati: cernie, dentici, prai e con quello delle nasse per la pesca delle aragoste. Negli anni '30 l'applicazione del motore diesel diede impulso alla pesca con le reti da circuizione, a sacco incompleto " le lampare" e a sacco chiuso "i ciancioli".
Si andò costituendo una flottiglia peschereccia che da un nucleo iniziale formato dai "mutura" più antichi (San Giuseppe o Baccante, Stella, Fortunata, San Giuseppe Salvatore o Porta-Sutta, Ninetta Maria Stella, Leonarda Rosaria, Tre Fratelli, Monte Carmelo, Impero, California, Balilla) divenne sempre più numerosa, soprattutto nel dopoguerra, per l'intraprendenza di alcuni marettimari di ritorno dagli USA, organizzate in dinamiche società amatoriali.
La pesca del pesce azzurro nel Canale di Sicilia rappresentava la principale attività degli isolani per gran parte dell'anno, da aprile ad ottobre.
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Durante la stagione di pesca il loro interesse era dominato dall'entità dei proventi distribuiti ogni mese ('u scuro), dall'andamento della campagna di pesca sui banchi i cui nomi, Talbot, Scherchi, Galita, erano familiari come e forse più di quelli dei santi del calendario.
Dopo aver riempito le stive di pesce "i mutura" si affrettavano a tornare a Trapani e così facevano capolino uno dietro l'altro dalla punta "Basano" e sfilavano veloci per raggiungere in fretta il mercato.
Si riconoscevano anche da lontano: erano parte integrante dell'identità marettimara.
Quando le condizioni del mare erano proibitive si ancoravano tutti insieme a ridosso.
Nella rada dello Scalo Nuovo, di fronte al Paese formavano un gruppo variopinto e tra essi sciamavano le lance "stazze" che assicuravano i collegamenti con il molo.
I pescherecci più piccoli limitavano le loro escursioni ai banchi prossimi alle isole.
Uscivano di sera allorché la luna tramontava dietro Pizzo Falcone. Gli uomini aspettavano il momento della partenza riuniti sulla banchina della Scalo Vecchio e lì sdraiati cercavano di recuperare qualche ora di sonno prima della notte di lavoro.
Le lance con le lampe venivano sospinte in acqua.
Si iniziava l'accensione delle lampade che cominciavano a diffondere la luce, prima tremolante poi sempre più vivida, nel piccolo porto animato da grande fermento e tutt'intorno si udiva il fischio del gas compresso nelle bombole.
Era un rituale che si ripeteva ogni sera quando le condizioni del mare erano buone. Quando invece era previsto il maltempo i piccoli pescherecci venivano tirati a secco in una frenetica attività cadenzata dalle voci dei pescatori che manovravano le cime dei paranchi (tagli).
Nelle notti serene d'estate comitive di villeggianti prendevano il largo su piccole barche a motore dirette verso le luci ammiccanti delle lampare, affascinate da quello spettacolo poco usuale che si svolgeva in uno scenario fantastico incastonato fra mare e cielo.
Il fondo della rete disposta a cerchio e sostenuta dal peschereccio si sollevava lentamente mentre i pesci intrappolati guizzavano alla vana ricerca di una via di scampo. Quando i marinai, muniti di lunghi stivaloni, con un grande coppo svuotavano il sacco, una cascata azzurra svariante si riversava sulla coperta, nelle cassette di legno in cui i pesci venivano collocati ('mpustati) dopo essere stati selezionati in base alla taglia e alla specie.
Poco lontano avvolta nell'oscurità una "varca lampa" solitaria sorvegliava i movimenti del pesce. "Il lampista" li osservava guardando con lo "specchio" e ingannava l'attesa fumando una sigaretta dopo l'altra, immerso nel silenzio della notte. La sostituzione delle lampade a gas e ad acetilene con le fonti luminose alimentate da gruppi elettrogeni trasformerà quel silenzio in uno snervante frastuono.
Questi sono alcuni degli aspetti del modo di vivere di una razza di pescatori ormai in estinzione per l'esaurimento sia delle risorse ittiche che degli operatori specializzati.
I pochi marettimari che ancora praticano la pesca costiera esercitano questo mestiere tra difficoltà e incomprensioni, consapevoli di essere gli ultimi rappresentanti di un popolo, quello marettimaro, noto da sempre per l'audacia, per l'ingegnosità, per l'impegno. Qualità che lo hanno fatto apprezzare anche oltreoceano, in California e in Alaska dove periodicamente si recano per la pesca del salmone, rinnovando una tradizione quasi secolare.
Essi vanno per mare tutto l'anno, consapevoli che la simbiosi tra uomo e mare è in grado di offrire risultati soddisfacenti se fondata sul rispetto reciproco e sulla salvaguardia delle condizioni ambientali.
La loro esistenza è da sempre governata dalle leggi mai scritte elaborate nell'ambito di una cultura del mare quasi ancestrale e dall'esperienza maturata in tanto stagioni di attività marinara.
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MASTRO TORE E I CORALLI DI MARETTIMO di Antonino Rallo
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Primavera 1713
Le barche, coralline armate di dodici remi e una gran vela latina, vennero completate a marzo, all'inizio della stagione della pesca del corallo.
Nella mattinata precedente il varo, un curioso episodio aveva suscitato la collera di Mastro Tore. Nell'ispezionare le quattro imbarcazioni, battezzate rispettivamente Gaspare, Melchiorre, Baldassare ed Epifania, il corallaro aveva notato che qualcuno aveva sostituito il nome della quarta barca con Ciolla mia, espressione sconciastra e beffarda che con la festività religiosa manteneva solo una vaga assonanza.
Mentre l'anziano pescatore copriva in un battibaleno quella scritta inopportuna con una mano di sbianca, un uomo mingherlino se la rideva lacrimando dallo spasso.
Era nascosto dietro un vascello da tonnara da calafatare e lo chiamavano Mpappete per la balbuzie che lo affliggeva quando si innervosiva, cioè quasi sempre. Un avanzo di galera col gusto della burla, un imbroglia banchine e poco di buono dalle tasche sempre piene di onze, fiorini e ducati di dubbia origine: questo era Mpappete.
Risolto l'incidente della scritta blasfema, nel pomeriggio successivo le coralline vennero messe in mare, non prima di essere state benedette dal parroco di S. Lucia, dal cappellano di S. Liberante e da padre Costa, frate esorcista con le mani sempre a mollo nell'acqua santa e che quel giorno, quindi, con la voce annanfarata dal raffreddore.
Non mancarono le autorità straniere, come il Console di Genova, che sorrideva sornione, ed il Console di Inghilterra, accaldato e sudaticcio per i pesanti panni di lana di Norfolk indossati più per mostrarli a qualche possibile acquirente che per vera necessità.
C'era perfino il Comandante della guarnigione spagnola, sempre più taciturno e rabbuiato.
Non mancarono nemmeno i Consoli della Corporazione dei Pescatori e di quella ben più potente dei Mastri Scultori di corallo, apprezzati esecutori di ritratti, statuine, sacre rappresentazioni, assieme a veri e propri presepi di gusto barocco che avevano fatto il giro delle corti europee. Erano orgogliosi sino al limite della spocchia gli scultori di corallo trapanesi di quel periodo, perché convinti, a ragione, di essere stati i primi a saper tirare fuori col bulino, da quella materia fragile e misteriosa, forme che finalmente erano diventate arte vera, non semplici grani di pater noster. Malgrado il loro senso smaccato di superiorità nei confronti dei pescatori, quindi, gli scultori non vollero mancare alla cerimonia.
Da qualche mese, oltretutto, scarseggiavano buoni rami di corallo da lavorare e l'abilità di Mastro Tore nella pesca faceva sperare in bene.
L'anziano pescatore salpò con le sue coralline un paio di giorni dopo il varo, diretto ai banchi di pesca al largo dell'isola di Marettimo. Portava con sé alcune indicazioni copiate pari pari da una lapide murata nella chiesa di S.Lucia.
Davano la posizione, nella maniera curiosa del tempo, di un banco quanto mai ricco, scoperto cinquanta e passa anni prima e mai più ritrovato: "Quindeci miglia per maistro di la Capogrosso di Levanso per libeccio la canalata in cima della Torre di Maretimo: per scirocco il Capogrosso di Levanso e la cava di San Teodoro: e per levante il balaticcio di Bonagia e le colline della montagna di Baida chiamate li Pagliaretti".
Il banco fu riscoperto dopo appena una settimana di ricerca, e cominciò a produrre rami color rosso fuoco di dimensioni che mezzo secolo di tregua di pesca avevano reso ragguardevoli.
Ogni sera le quattro coralline riapprodavano a Marettimo, nella spiaggetta appena sotto il Castello di Punta Troia, riattato da tempo a presidio di quelle acque frequentate in eguale misura sia dai corallari trapanesi che dai corsari bisertini e tunisini.
Un accordo con il comandante del Castello fece sì che tutto il pescato delle coralline di Mastro Tore fosse custodito nella rocca, per essere in seguito inviato nella vicina isola di Levanzo, dove i Genovesi tenevano uno dei loro depositi.
Tranne che per alcuni grossi rami spediti al nipote Diego a Trapani per aiutarlo a migliorare la sua arte e sostenere la famiglia, il corallo dell'intraprendente pescatore finiva quindi direttamente ai liguri, i cui denari erano accettati sulla costa siciliana al pari delle onze locali, se non di più.
Agli equipaggi delle quattro imbarcazioni Mastro Tore, soddisfatto dell'abbondanza e qualità dei coralli strappati dai suoi ingegni, aveva concesso un privilegio raro: il riposo domenicale.
La sera del sabato, quindi, diversamente dagli altri giorni, i pescatori consumavano un pasta caldo di pasta e legumi, arrostivano il pesce sulla spiaggetta di Punta Troia e godevano perfino della disponibilità di un quartuccio di vino a testa.
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Poi, distrutti dalla fatica di una settimana fatta di quindici e passa ore di remo e di mezza dozzina di cale al giorno, si addormentavano sulla sabbia umida, sotto coperte tanto sdrucite da far filtrare la luce appena sfumata delle costellazioni estive.
In alto a dritta, la sagoma scura del Castello e il rumore dei
passi nei cambi di guardia del presidio attenuavano nei corallari
la paura mai sopita di un'imboscata saracena.
La stagione di pesca durò, come sempre, da Pasqua ai Morti, e le
domeniche mattina Mastro Tore si inventò perfino una sorta di
breve rituale religioso basato su preghiere a S.Pietro - perché
propiziasse un abbondante pescato nei giorni a venire - assieme a
letture di salmi in latino scelti a casaccio da un libriccino
logorato dall'uso e dal salino dei giorni di mare grosso. Il vecchio terminava la cerimonia alzando le mani al cielo con gravità e recitando una preghiera in una lingua curiosa e cantilenante, il Sabir, parlata da sempre nel Mediterraneo da mercanti, corsari, schiavi, padroni e prostitute di tutte le rive.
Alla fine della preghiera, che terminava con: ... "Non lasar noi tenir pensyeri, ma tradir per noi di malu" gli equipaggi rispondevano con un sonoro quanto liberatorio amen. In diversi c'era la paura fottuta di partecipare a qualcosa di sommamente sgradito all'Inquisizione.
Fu nei pomeriggi domenicali, accompagnato da un paio di mozzi dalle gambe forti, che Mastro Tore si avventurò nell'esplorazione dell'isola.
Non fu facile farsi strada tra quella macchia compatta di lentischi, rosmarini, timi e mirti, ma i profumi forti della vegetazione e l'amenità delle viste in cui si imbatterono i corallari li ripagò dei numerosi graffi alle gambe e delle lacerazioni ai piedi che calzature inadeguate procurarono.
L'isola di Marettimo offriva, allora come oggi, acqua purissima e miele così pregiati che era un peccato lasciarla disabitata. C'era, è vero, il pericolo costante della presenza saracena nella costa di ponente, dove diverse grotte davano un rifugio sicuro alle galeotte barbaresche, ma ben difficilmente, pensava Mastro Tore, i corsari si sarebbero avventurati nell'intrico della vegetazione dell'isola. Le rupi scoscese sovrastanti la parte più frequentata dai tunisini e bisertini erano in effetti più adatte ad una esercitazione di odierni incursori della Marina che ad una imboscata turchesca con scimitarre, scudi e scarpe di pezza ai piedi.
Nacque così il minuscolo insediamento di Balata Ulivo, ad un tiro di schioppo dalla sommità di Pizzo Falcone. A parte i motivi difensivi, fu un'altra ragione a convincere l'intelligenza un po' visionaria del vecchio corallaro ad intraprendere l'iniziativa: quel pezzo di pianoro a ponente e maestro della sommità dell'isola era spesso coperto da nubi, e in quanto tale sarebbe riuscito ad assorbire umidità dal cielo, permettendo alle previste colture di frumento di sopravvivere anche nei periodi più aridi.
I terrazzamenti, tuttora visibili da Pizzo Falcone, furono completati a fine agosto. La prima semina a grano venne fatta a settembre di quello stesso nno. Il primo di novembre le coralline Gaspare, Melchiorre, Baldassare ed Epifania tornarono a Trapani con gli equipaggi soddisfatti per i buoni denari genovini che gli tintinnavano nelle sacchette.
Sul mare circostante la città i pescatori osservarono un gran traffico di navi liguri cariche di truppe provenienti dal nord Italia.
Mastro Tore rimase a bocca aperta nel vedere i liguri alzare bandiere dai colori rovesci: anziché la croce rossa di San Giorgio in campo bianco, ora alzavano una croce bianca in campo rosso. Gli stessi colori che da pochi giorni garrivano sugli spalti di Trapani, da quando Vittorio Amedeo di Savoia era sbarcato a Palermo da una fregata inglese per prendere possesso di quello che sarebbe stato il suo primo, effimero regno.
I corallari giunsero appena dopo la sbarco di una compagnia di artiglieri piemontesi, accolta dal giubilo un po' distratto e moscio dei siciliani.
Ben altra cosa fu l'entusiasmo con cui le quattro coralline di Mastro Tore vennero salutate dai familiari dei pescatori adunati sulla riva. Ad aspettarle c'era pure Diego, nipote prediletto di Mastro Tore, che teneva la mano di una graziosa ragazza bruna con una pancia di sette mesi.
Dopo aver allontanato con un gesto stizzito la ressa dei garzoni dei Mastri scultori in cerca di coralli da acquistare, Mastro Tore Contesta salutò il nipote con un brusco: - E chista cu è?
- E' mia moglie. Si chiama Assunta. Ci siamo sposati appena dopo la tua partenza e partorisce per Natale. Due gemelli, pensa la mammana…- rispose Diego tutto d'un fiato, per nascondere l'imbarazzo.
- Facisti le cose un poco troppu di prescia, niputi - sospirò deluso Mastro Tore.
- Hai ricevuto i coralli da lavorare?
- Sì, rami bellissimi, veramente. Poi, a casa, ti faccio vedere cosa sono riuscito a farci.
- Non c'è bisogno. Vado a salutare tua madre, mi pulizio un poco la faccia e ci vediamo alla taverna, dalla 'za Barbara. Domani me ne torno a Marettimo. Cca c'è troppa confusioni.
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Un futuro per il "Castello"?
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Ormai da qualche anno l'Associazione contribuisce a rendere vivo uno dei posti più suggestivi di Marettimo, forse il più rappresentativo dell'isola, organizzando nel periodo estivo delle escursioni guidate per ammirare il tramonto sul mare e lo splendido panorama che la fortezza borbonica offre al visitatore.
Di recente a seguito di un finanziamento dell'Unione Europea è stato rifatto il sentiero che unisce il paese al promontorio di punta Troia - in verità già reso fruibile dall'opera della forestale - e l'allacciamento dello stesso alla rete elettrica ed idrica. Il Castello attualmente di proprietà demaniale rientra tra i beni alienabili dello stato e di recente l'amministrazione delle Egadi ha manifestato la volontà di acquistarlo.
Ci auguriamo che nel prossimo futuro l'edificio venga ristrutturato così nel prossimo numero del Giornale delle Egadi eviteremo di parlare della distruzione (crollo) del castello come di una catastrofe annunciata.
Del resto sono ormai evidenti i segni del tempo che rendono davvero precaria la stabilita dell'antico maniero, e non sarebbe auspicabile dovere poi piangere sulle rovine dello stesso.
In questa sede ci preme sottolineare che qualunque decisione voglia assumere l'amministrazione delle Egadi riguardo la destinazione del castello - da alcuni si vocifera un museo delle carceri, di dubbio richiamo turistico -
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l'importante è che venga consentita una fruizione pubblica anche se la eventuale gestione della struttura venisse affidata ai privati.
Pietro La Porta
INTITOLATA A MONTEREY
UNA PIAZZA DI MARETTIMO |
Durante la messa di ferragosto, lo spiazzo dello Scalo Nuovo di Marettimo finalmente è stato intitolato "Piazzale Monterey".
Questa iniziativa, voluta fortemente dall'associazione, rafforza maggiormente il rapporto tra la cittadina californiana e la comunità di Marettimo. Ma è anche un modo per ricambiare il fatto che a Monterey, già da tempo, esiste una via della città dedicata a Marettimo.
Alla presentazione delle targhe, realizzate da artigiani di Santo Stefano di Camastra, cittadina famosa per la ceramica, e da un giovane artigiano di Marettimo, hanno partecipato diversi emigrati di Monterey che si trovavano in vacanza sull'isola. Madrina della manifestazione è stata Anita Maiorana Ferrante, marettimara "doc" residente a Monterey. La cerimonia è stata apprezzata anche dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando, presente alla manifestazione, che ha voluto premiare l'Associazione con una medaglia per aver diffuso nel mondo un'immagine positiva della Sicilia.
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