GIUSEPPE
Eb. YOSEP ("[Dio] aggiunga [altri figli]”) |
Scene della vita di
Giuseppe: mandato dai fratelli in campagna ( al centro in alto) Gettato nel pozzo ( un
basso a sinistra); venduto come schiavo ( a destra) Portato in Egitto attraverso il Mar Rosso ( in alto, a destra) |
La storia di Giuseppe, adolescente coccolato, quasi assassinato
dai fratelli e infine uomo di potere in Egitto, è simbolicamente importante
per due ragioni. Anzitutto, il Giuseppe adulto, che ha imparato attraverso le
avversità a essere virtuoso e saggio, era considerato dagli antichi Israeliti
come l'ideale di ogni amministratore o persona costituita in autorità. In secondo luogo, egli riuscì a sanare la
discordia tra fratelli che aveva segnato le generazioni patriarcali fino alla
sua stessa famiglia sconvolta da conflitti. Significativamente, Dio non
dovette più a lungo rinnovare le promesse o gli interventi visibili come
aveva fatto con gli antenati di Giuseppe in Canaan. Al contrario, Giuseppe
nella terra stessa d'Egitto seppe dominare le circostanze e prese le
decisioni che portarono pace nell'inquieta, litigiosa famiglia di Israele,
anche se le sue azioni e quelle dei suoi fratelli non facevano che compiere
il disegno del Signore. Giuseppe era nato da Giacobbe e dalla sua
seconda moglie e primo amore, Rachele, dopo anni di
sterilità. Il bambino a lungo atteso, accolto dalla madre esultante come un
segno che «Dio ha tolto il mio disonore» (Gen 30,24), era stato preceduto da
altri 10 fratellastri; il suo vero fratello, Beniamino, nacque dopo di lui. Sebbene le Scritture non dicano
nulla della fanciullezza di Giuseppe, possiamo immaginare che crebbe in
un'atmosfera familiare tesa a causa di gelosie e risentimenti. Ne Giuseppe ne i suoi fratelli riuscirono
a gestire saggiamente quella situazione potenzialmente esplosiva. La prima
volta che Giuseppe viene ricordato, dopo il racconto della sua nascita, è un
giovane di 17 anni, sognatore e pronto a correre a casa a riportare «i
pettegolezzi» (Gen 37,2) dei suoi fratelli. Dal canto suo, Giacobbe trattava
quel «figlio avuto in vecchiaia» (Gen 37,3) con palese predilezione e aveva
regalato al giovane una veste bellissima, mentre i suoi fratelli maggiori
indossavano i rozzi abiti dei pastori. I FRATELLI MEDITANO VENDETTA A fomentare la strisciante rivalità tra i
fratelli contribuiva l'abitudine di Giuseppe di rivelare apertamente i suoi sogni,
che lasciavano presagire che egli un giorno avrebbe comandato su di loro. In
un sogno, vide il suo covone di frumento alzarsi e rimanere dritto, mentre
gli altri gli si radunavano intorno e si inchinavano. (Secondo gli esegeti, questo significa che
la famiglia di Giacobbe era diventata seminomade, coltivando e pascolando
greggi.) In un altro, il sole, la luna e le stelle gli rendevano omaggio:
persino Giacobbe si risenti nell'udire di questo sogno, dal momento che il
sole e la luna rappresentavano lui e Rachele. Alla fine, i fratelli non ne poterono più.
Allorché Giacobbe mandò Giuseppe nei campi perché gli riferisse su quello che
facevano, essi lo videro mentre si avvicinava. Allora, 9 fratelli insorsero
insieme: «Ecco, il sognatore arriva! Orsù, uccidiamolo!» (Gen 37,19-20). Solo Ruben, il figlio maggiore di Giacobbe e quello che
tradizionalmente veniva trattato meglio, si disse contrario a quel piano.
Chiese che non venisse versato sangue, forse a causa dell'antica credenza che
il sangue di una vittima potesse letteralmente gridare chiedendo vendetta,
rendendo noto il fatto. Pensando di poter tornare più tardi a salvarlo,
suggerì che l'odiato fratello fosse gettato in una cisterna asciutta e
lasciato lì a morire nel deserto di Dotan, senza acqua. Quando il giovane
raggiunse i fratelli e le loro greggi, gli tolsero la veste e lo buttarono
nel pozzo. In seguito, mentre Ruben era assente e gli
altri fratelli erano tranquillamente seduti per dissetarsi, apparve
all'orizzonte una carovana di Ismaeliti, che percorreva la pista tradizionale
dalla Siria verso l'Egitto. Immediatamente, Giuda riconobbe l'ottima opportunità che si presentava. Se
avessero venduto Giuseppe come schiavo, disse, essi si sarebbero liberati
della responsabilità del suo destino: «La nostra mano non sia contro di lui,
perché è nostro fratello e nostra carne» (Gen 37,27). Inoltre, la vendita
avrebbe fruttato loro una discreta somma di denaro: 20 steli d'argento, a
quel tempo il prezzo medio di uno schiavo. Mentre Giuseppe stava ormai viaggiando
verso sud, Ruben tornò e seppe la grave notizia. Si stracciò le vesti
angosciato, ma poi si unì ai fratelli nel mascherare il loro crimine, perché
vendere qualcuno come schiavo era un delitto passibile di serie punizioni.
Essi imbrattarono la veste del fratello con il sangue di un capretto e la
rimandarono al padre, chiedendo, con falsa innocenza, se la riconosceva.
Giacobbe giunse alla conclusione che loro volevano: «E la tunica di mio
figlio! Una bestia feroce l'ha divorato. Giuseppe è stato sbranato» (Gen
37,33). Sopraffatto dal dolore, l'anziano padre giurò di portare il lutto per
l'amato figlio fino alla morte. In Egitto, Giuseppe si conquistò subito il
rispetto e la fiducia del suo padrone, Potifar,
capitano della guardia del re. E poiché «il Signore era con lui e […] quanto
egli intraprendeva il Signore faceva
riuscire nelle sue mani» (Gen 39,3), il padrone lo nominò suo maggiordomo,
con responsabilità su tutti gli affari della casa. L'abile e giovane schiavo ebreo era anche
di bell'aspetto, un fatto che non sfuggi alla moglie di Potifar. Nella
vicenda erotica che ha affascinato artisti e scrittori nel corso dei secoli,
la donna, invaghita, tentò ripetutamente di sedurre Giuseppe, il quale
protestava: «Come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?» (Gen
39,9). Ma un giorno, la moglie di Potifar finì
per strappargli la veste mentre egli fuggiva per sottrarsi alle sue profferte
amorose. Umiliata e furibonda, ella si mise a urlare, chiamando a gran voce i
servi. A costoro, e più tardi al marito, disse che Giuseppe si era gettato su
di lei e, quando si era messa a gridare, era fuggito. Sorprendentemente, lo schiavo non fu
sottoposto a giustizia sommaria per quel presunto tentativo di violenza, ma
fu rinchiuso nelle prigioni reali. «Ma il Signore fu con Giuseppe» (Gen
39,21), anche nella disgrazia. Con l'aiuto di Dio, Giuseppe ancora una
volta si fece apprezzare per le sue evidenti capacità. Il comandante della prigione gli diede la
responsabilità di vigilare sugli altri detenuti, tra i quali erano anche due
personaggi di un certo riguardo: il coppiere del faraone, che
tradizionalmente alla corte egiziana aveva quasi il ruolo di un consigliere
del re, e il suo panettiere. Un giorno, mentre Giuseppe faceva la sua
ispezione quotidiana, seppe che i due uomini erano turbati da misteriosi
sogni. Confidando nell'aiuto del Signore, Giuseppe interpretò il sogno del
coppiere come una predizione che egli avrebbe riacquistato sia la libertà sia
il suo precedente incarico entro tre giorni; il sogno del panettiere, invece,
prediceva la morte di quell'uomo per impiccagione. UN DONO DA PARTE DI DIO Tre giorni dopo, in occasione del
compleanno del sovrano, entrambe le profezie si avverarono. L'intraprendente
Giuseppe aveva chiesto al coppiere di intercedere per lui presso il faraone
affinché lo facesse liberare: «Perché io sono stato portato via ingiustamente
dal paese degli Ebrei e anche qui non ho fatto nulla perché mi mettessero in
questo sotterraneo» (Gen 40,15). Ma il coppiere, ripristinato nel suo incarico,
non si ricordò del meritevole schiavo se non due anni dopo, quando il re
d'Egitto fu tormentato da due inspiegabili sogni. Nel primo, 7 orribili
vacche magre uscivano dal Nilo, la fonte della prosperità della nazione, e
divoravano 7 vitelli grassi, la base del nutrimento del paese. Nel secondo, 7
spighe vuote e riarse dal sole inghiottivano altrettante spighe grosse e
turgide. Nessuno dei saggi o dei maghi dell'Egitto riuscì a decifrare quelle
visioni sinistre, ma il coppiere si ricordò improvvisamente del giovane che
lo aveva rincuorato quand'era in prigione. Ripulito e condotto davanti al faraone,
Giuseppe ancora una volta affermò che il suo potere di interpretare sogni gli
veniva dal Signore: «Non io, ma Dio darà la risposta per la salute del
faraone!» (Gen 41,16). In realtà, ogni volta che Giuseppe migliorava la sua
posizione in Egitto, le Scritture annotano che Dio agiva dietro le quinte. E
subito Giuseppe riuscì a rivelare che i sogni predicevano 7 anni di
abbondanza nella terra d'Egitto, seguiti da 7 anni di dura carestia; e il
fatto che i due sogni del re avessero un unico significato dimostrava senza
possibilità di dubbio che «la cosa è decisa da Dio e che Dio si affretta ad
eseguirla» (Gen 41, 32). Quindi, continuò Giuseppe, il faraone avrebbe dovuto
scegliere un uomo saggio e discreto che sapesse organizzare un programma
nazionale di raccolta e immagazzinaggio delle riserve di grano durante gli
anni dell'abbondanza. Il re, abbastanza intelligente da capire che quell'uomo
saggio e discreto era li davanti a lui, affidò a Giuseppe l'incarico,
attribuendogli un enorme potere. Lo schiavo liberato ora aveva 30 anni e ne
aveva trascorsi 13 in schiavitù; fu ritualmente adottato dalla corte, gli fu
dato un nome egiziano, Zafnat-Paneach, che significa "Dio dice: è
vivente", e una moglie egiziana. La giovane donna, Asenat, viene
descritta come figlia di Potifera,
del gruppo elitario dei sacerdoti di Eliopoli. A Giuseppe fu assegnato anche
un cocchio. Poiché cavalli e carri furono introdotti in Egitto dal popolo
conosciuto dalla storia come gli Hyksos, alcuni studiosi concludono che
Giuseppe visse durante il periodo di quei misteriosi re venuti dall'estero,
cioè tra il 1700 e il 1550 a.C. Di fatto era più probabile che un alto
ufficiale straniero fosse accettato da loro anziché da una dinastia locale. Gli eventi si svolsero come Giuseppe aveva
previsto. Per 7 anni, con la sua consueta diligenza, ordinò che il grano dei
famosi, abbondanti raccolti del suo paese adottivo venisse ammassato e
immagazzinato. In quell'epoca egli ottenne non solo prestigio e ricchezza, ma
anche gioie personali. Asenat diede alla luce due figli, ai quali furono dati
nomi ebrei, Manasse ed Efraim, e
Giuseppe poteva dire con riconoscenza: «Dio mi ha fatto dimenticare ogni
affanno [...] mi ha reso fecondo nel paese della mia afflizione» (Gen
41,51-52). Quando sopraggiunsero gli anni di carestia, Giuseppe
sovrintendeva, in qualità di governatore, alla distribuzione del grano al
popolo affamato. Era stato talmente previdente che ce n'era in abbondanza,
tanto da poterne vendere anche ai paesi vicini, perché realmente «la carestia
infieriva su tutta la terra» (Gen 41,57). La situazione disastrosa che colpiva tutti
riaccese il dramma domestico dei figli di Giacobbe. Incapace di provvedere
cibo alla sua gente, il vecchio patriarca mandò i suoi 10 figli più anziani
in Egitto a comprare grano. Trattenne presso di sé solo Beniamino, il
figlio più giovane avuto da Rachele, temendo che perisse durante il lungo
viaggio. Quando gli stanchi e affamati pastori furono condotti alla presenza
del funzionario egiziano lussuosamente vestito, che portava l'anello con il
sigillo del faraone e la catena d'oro distintiva del suo rango, non
riconobbero in lui l'arrogante giovanotto che erano stati sul punto di uccidere. Giuseppe, invece, li riconobbe
immediatamente e iniziò una serie di prove e di sotterfugi che appaiono in
realtà una specie di tortura psicologica, come affermò Ruben: «Ecco ora ci si
domanda conto del suo [di Giuseppe] sangue!» (Gen 42,22). In un primo tempo il severo funzionario li
accusò di essere spie e li fece gettare in prigione per tre giorni. Poi
acconsentì a vendere loro il grano che chiedevano, ma solo se avessero
lasciato lì uno dei fratelli come ostaggio e avessero promesso di tornare con
Beniamino, di cui essi gli avevano parlato rispondendo alle sue insistenti
domande. Simeone fu scelto perché
rimanesse in ostaggio. Nel frattempo, Giuseppe ordinò ai suoi
uomini di restituire segretamente ai fratelli il denaro che gli avevano versato,
nascondendolo dentro i loro sacchi di grano. Quando, durante il viaggio di
ritorno, essi scoprirono il denaro, furono presi dal terrore e, pensando di
essere ormai giunti al momento della punizione divina, si dicevano l'un
l'altro: «Che è mai questo che Dio ci ha fatto?» (Gen 42,28). UN PADRE DISPERATO Arrivati a casa, riferirono al padre la
richiesta del crudele governatore del faraone; Giacobbe fu preso dalla
disperazione ed esclamò: «Voi mi avete privato dei figli! Giuseppe non c'è
più, Simeone non c'è più e Beniamino me lo volete prendere» (Gen 42,36). Decise così di non lasciare andare
Beniamino in Egitto. Ma l'asprezza della carestia prolungata, infine,
costrinse il patriarca a ritornare sulla sua decisione. Quando il grano
egiziano fu finito, Giacobbe riconobbe che non poteva fare a meno di mandare
Beniamino insieme con i suoi fratelli a comprare altro cibo. Saggiamente, disse loro di portarsi
appresso il doppio del denaro necessario, in modo da poter pagare anche il
carico precedente. I fratelli furono accolti benevolmente in
Egitto con un invito presso la casa del governatore, ma Giuseppe continuò a
tener nascosta la sua identità, anche quando la vista di Beniamino lo
costrinse a ritirarsi in una stanza interna a piangere di commozione per suo
fratello. Poi si lavò la faccia e continuò il complicato gioco dell'inganno.
Cominciò con un sontuoso e festoso banchetto, che stupì i rozzi Israeliti
perché erano trattati con ogni onore, anche se il loro ospite sedeva in
disparte per rispettare le leggi egiziane della purezza rituale. Poi Giuseppe
si assicurò di nuovo che il loro denaro fosse nascosto nei sacchi. Questa
volta, però, fece nascondere nel sacco del più giovane, Beniamino, la sua
coppa personale d'argento. Appena oltrepassati i confini della città,
i fratelli furono raggiunti dai servi del governatore che li accusarono di
aver rubato la coppa: «Perché avete reso male per bene?» (Gen 44, 4). Gli
Israeliti erano talmente sicuri della loro innocenza che accettarono persino
di diventare schiavi se la coppa fosse stata trovata tra le loro cose, ma il
servo rispose che solo il colpevole sarebbe diventato schiavo. L'emozionante
perquisizione cominciò dal sacco di Ruben e per ultimo toccò a quello di
Beniamino. Quando la coppa saltò fuori, gli stupefatti
fratelli si stracciarono inorriditi le vesti. Condotti nuovamente davanti al
governatore egiziano, si gettarono a terra davanti a lui. Giuda spiegò quanto fosse stato
doloroso per il padre acconsentire a lasciar partire Beniamino e si offrì
schiavo al posto del fratello più giovane, implorando: «Perché, come potrei
tornare da mio padre senza avere con me il giovinetto? Ch'io non veda il male
che colpirebbe mio padre!» (Gen 44,34). Giuseppe non riuscì a tollerare oltre
quella finzione, che ora gli spezzava il cuore. Mandati via i servi egiziani,
si fece finalmente riconoscere dagli sbalorditi fratelli e spiegò come,
involontariamente, erano stati artefici del piano divino, «perché Dio mi ha
mandato qui prima di voi per conservarvi in vita» (Gen 45,5). Quindi, poiché la carestia sarebbe durata
ancora 5 anni, essi dovevano tornare in Canaan a prendere Giacobbe e il resto
della famiglia, e condurli in Egitto. Il faraone, saputo di quell'importante
ritrovamento, si unì alla celebrazione, mandando ricchi doni a Giacobbe e
promettendo alla sua famiglia « il meglio del paese d’Egitto» (Gen 45,18). Quando la carovana dei carri colmi di
provviste giunse in Canaan e i fratelli dissero al padre che Giuseppe era
ancora vivo, sulle prime « il suo cuore rimase freddo» (Gen 45,26), ma poi
Giacobbe si rianimò in fretta e immediatamente decise di andare a trovare il
figlio maggiore della sua amata Rachele. Significativamente questa decisione
fu confermata subito dopo da un intervento diretto del Signore a Bersabea,
dove Giacobbe si fermò ad offrire un sacrificio durante il viaggio fuori
dalla terra dei suoi padri. Con una promessa che diventò fondamentale nella
storia degli Ebrei, il Signore disse: «Non temere di scendere in Egitto, perché laggiù io farò
di te un grande popolo. Io scenderò con te in Egitto e io certo ti farò
tornare» (Gen 46,3-4). Appena giunti nella terra dei faraoni, gli Israeliti
furono insediati con i loro armenti nel paese di Gosen, che si trova nella
parte nordorientale del fertile delta del Nilo. Lungo il corso del fiume,
nella cosiddetta valle, gli Egiziani infatti tradizionalmente allevavano
vitelli e detestavano perciò i pastori, perché le pecore pascolando non
lasciavano niente da mangiare per il bestiame. BENEDIZIONI IN PUNTO DI MORTE Giacobbe visse ancora 17 anni e morì
all'età di 147 anni. Sul letto di morte fece giurare a Giuseppe di
seppellirlo nella terra di Canaan accanto ai patriarchi suoi antenati e,
proseguendo una tradizione familiare, diede una solenne benedizione al
secondo figlio di Giuseppe, Efraim e, solo dopo, al primogenito Manasse.
Quando Giuseppe protestò risentito, il vegliardo gli spiegò:
«Anch'egli[Manasse] sarà grande, ma il suo fratello minore sarà più grande di
lui e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni» (Gen 48,19).
In realtà, ciascuno dei fratelli diede origine a una tribù di Israele,
assicurando cosi che il loro numero totale rimanesse comunque di 12 anche
quando la tribù di Levi cominciò a svolgere il ruolo sacerdotale per tutta la
nazione. Dopo la morte, Giacobbe fu imbalsamato secondo l'uso egiziano e gli
venne fatto un funerale pari a quello reale. Il suo figlio a lungo perduto,
ora ricco e potente, ne riportò il corpo in patria e lo seppellì nella grotta
di Abramo a Malpela. In un primo momento, i fratelli di
Giuseppe temettero che volesse prendersi la rivincita, ora che Giacobbe era
morto: un segnale che la riconciliazione familiare non era ancora definitiva.
«Non temete, io provvederò al sostentamento per voi e per i vostri bambini»,
li rassicurò Giuseppe. Per i suoi discendenti fece una promessa ancora più
importante sul letto di morte: «Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire
da questo paese verso il paese che egli ha promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe»
(Gen 50,21;24). Dopo anni di servizio come leale
funzionario del faraone, durante i quali Giuseppe abolì la proprietà privata
e introdusse un sistema di tassazione e di obblighi feudali che risultarono
molto vantaggiosi per i sovrani d'Egitto, il patriarca morì all'età di 110
anni. Fu imbalsamato, probabilmente deposto in un sarcofago di legno con la
sua effigie ritratta all'esterno e sepolto nella sua terra adottiva. |