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La Lettera
agli Efesini Anno Pastorale 2001-2002 |
Il
Pensiero possente di S.Paolo
La Lettera agli Efesini di San Paolo |
In alcuni
importanti codici antichi, che ci hanno trasmesso le sacre Scritture,
nell'indirizzo iniziale di questa lettera manca l'indicazione "a
Efeso", per cui si è pensato che essa sia stata originariamente una
missiva destinata alle varie Chiese dell'Asia Minore costiera, che avevano il
loro centro più significativo nella splendida città di Efeso. Certo è che la
lettera si rivela profondamente originale nel linguaggio e nei temi, tanto da
far ipotizzare a molti studiosi che essa sia opera di una mano diversa
rispetto a quella di Paolo, forse un discepolo che conduce oltre il discorso
del maestro. Questo naturalmente non intaccherebbe l'ispirazione e quindi
l'appartenenza al Canone biblico della lettera che, tra l'altro, è molto
vicina a quella ai Colossesi (probabilmente conosciuta e citata). Comunque sia,
la lettera, che consigliamo vivamente a tutti di leggere, è particolarmente densa
e ricca di temi e si rivela nettamente divisa in due parti: i primi tre
capitoli affrontano i grandi argomenti teologici, mentre i capitoli 4-6 sono
dedicati a illustrare l'impegno morale del cristiano nella sua vita di fede.
L'accento è posto su due motivi teologici capitali. Da un lato, si apre una
profonda riflessione sulla figura di Cristo, presentato come Signore di tutto
l'essere creato e non solo della Chiesa, e cantato in un solenne
inno-benedizione posto proprio in apertura alla lettera (1,3-14). Gesù Cristo è, d'altro lato, alla radice del secondo motivo teologico,
quello della Chiesa, che è costituita da Giudei e pagani ornai uniti in un
solo corpo che è quello di Cristo, nel quale, però, diversamente da quanto
già detto nella prima lettera ai Corinzi (capitolo 12), egli ha la funzione
di essere il "capo" (1,22). L'unità di questo corpo, nel quale si
manifesta la pienezza della divinità, è operata da Cristo stesso "nostra
pace", che ha riconciliato i due popoli separati, Ebrei e pagani, in un
solo popolo attraverso il suo sangue (2,14-22). E questa la Chiesa, che
dall'apostolo viene presentata come "tempio santo nel Signore"
(2,21). Vivace è anche
la parte pastorale della lettera ove, tra l'altro, viene disegnato un
"codice" dei doveri familiari (5,21-6,9), che ha al suo interno una
suggestiva presentazione del matrimonio cristiano, come grande segno
dell'unione vitale tra Cristo e la Chiesa. Uno scritto, quindi, ricco sul
piano del "mistero" divino, che è rivelato da Gesù Cristo e che
comprende la salvezza di tutti, inclusi i pagani, e sul piano della vita
cristiana da condurre in pienezza, come creature che hanno "deposto
l'uomo vecchio" per "rivestire l'uomo nuovo" (4,22-24). |
IL PROFONDO
MISTERO DELLA SALVEZZA IN CRISTO (di Mons. G. Ravasi) |
1 Brevi sono il
saluto e l’augurio di apertura di questa lettera. Ben più solenne è, invece,
la benedizione iniziale, che ha l’andatura di un inno e si presenta come uno splendido
abbozzo del disegno di salvezza rivelato e attuato in Cristo. Dall’orizzonte
celeste, cioè dal mistero trascendente di Dio, scendono le benedizioni
“spirituali”, cioè i doni di santità che trasformano i credenti. Si delinea,
così, l’itinerario a cui essi sono chiamati all’interno del progetto di Dio:
prima ancora della loro esistenza, Dio li aveva scelti e destinati a divenire
figli adottivi attraverso Cristo; tutto questo avrebbe realizzato la piena
gloria di Dio che si compie nel suo donarsi all’umanità, nel suo amore
rivelato in Gesù, il Figlio «Prediletto». La salvezza dell’uomo è, quindi, la
gioia, la lode, la gloria più alta di Dio. E questa
salvezza si attua attraverso la morte di Gesù, sorgente della redenzione, del
perdono e della grazia effusa nell’umanità. Noi conosciamo, dunque, «il
mistero della volontà» divina perché non solo ci è stato rivelato, ma anche
perché lo viviamo all’interno della storia. Infatti, la «pienezza dei tempi»
è l’ingresso di Cristo nel mondo per trasformare la realtà umana secondo il
disegno prestabilito fin dall’eternità da Dio. Tutti noi siamo “ricondotti”
in Cristo insieme con l’intero universo creato: l’immagine usata rimanda al
«capo» che tiene coeso il corpo. Ogni realtà è destinata a trovare senso e
unità in Cristo, costituito da Dio come capo unico e universale. È interessante
notare come Paolo in questa visione grandiosa della salvezza sottolinei un
aspetto che gli sta a cuore. In 1,11-13 distingue, infatti, due pronomi: da
un lato, c’è il «noi», i primi eredi della promessa divina, cioè gli Ebrei,
coloro che hanno alimentato la speranza messianica prima della venuta di
Cristo; d’altro lato, c’è il «voi», cioè l’orizzonte dei pagani, che hanno
ascoltato e accolto nella fede «la parola della verità», il vangelo, e così
sono stati consacrati dallo Spirito Santo. L’apostolo passa poi a un
ringraziamento per la fede e l’amore testimoniato dai cristiani di Efeso, ai
quali augura di ottenere una pienezza nella conoscenza del mistero di
salvezza, che ha al centro la risurrezione di Cristo. Essa è cantata in 1,20- DALLA MORTE
ALLA VITA PER ESSERE UNA COSA SOLA IN CRISTO 2 Nel capitolo 2,
continuando l’intreccio dei due pronomi «noi» e «voi», si esalta la
redenzione operata da Cristo per l’umanità peccatrice, sia ebraica sia
pagana. L’amore misericordioso di Dio ci ha strappato a Satana, «il principe
delle potenze dell’aria», e ci ha fatto partecipare alla stessa vita di
Cristo attraverso l’esperienza battesimale che ci ha condotto alla gloria
della risurrezione. La salvezza è, quindi, non solo liberazione dal male, ma
anche intimità, comunione, partecipazione alla vita divina. In un
linguaggio tipicamente paolino si ribadisce la vicenda della salvezza, che è
dono della grazia divina a chi risponde con la fede, e che non è frutto delle
opere umane. La centralità di Cristo è ribadita in una pagina di grande
intensità, che ha in qualche sua parte un’andatura innica e lirica. Il tema
fondamentale della salvezza è considerato secondo un’angolatura che è già
stata adottata precedentemente: con la sua morte in croce, Cristo ha
costituito un’unica comunità, cancellando le divisioni tra i circoncisi e
coloro che erano «stranieri ai patti della promessa», cioè tra Ebrei e
pagani. Cristo è, allora, definito come la «pace» per eccellenza, che, nella
tradizione biblica, era il tipico dono messianico (Isaia 9,5; Michea 5,4). Egli ha
abbattuto le barriere che dividevano questi due popoli: «il muro di
separazione» a cui Paolo fa riferimento potrebbe alludere sia alla legge
mosaica sia al setto divisorio posto tra il cortile degli Ebrei e quello dei
pagani nel tempio erodiano di Gerusalemme, parete invalicabile, pena la
condanna a morte. Cristo ha anche eliminato le osservanze legali che
caratterizzavano la religiosità giudaica, e ha fatto sì che tutti si
ritrovassero uniti, i vicini e i lontani (vedi Isaia 57,19 e Zaccaria 9,10),
destinati a costituire un solo corpo, a essere concittadini e familiari di
Dio, appartenenti alla stessa comunità che è la Chiesa, la famiglia di Dio.
Tutti costituiscono un tempio vivo, che ha la sua pietra angolare in Cristo e
il basamento negli apostoli e nei profeti, cioè negli annunciatori del
vangelo (vedi 1Corinzi 3,10-11.16). La rappresentazione di questa unità
generata dalla croce di Cristo è preziosa per definire la missione di Paolo
aperta ai pagani. PAOLO, APOSTOLO
DEL MISTERO DI CRISTO 3 Egli, infatti,
è stato chiamato da Dio proprio a svelare il «mistero di Cristo» che ha nel
suo cuore la salvezza universale: «I pagani sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare
alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e a essere partecipi della
promessa» (3,6), cioè a fruire della dignità donata al popolo ebraico e,
così, a costituire l’unico popolo di Dio che è la Chiesa, corpo di Cristo. A
questo annunzio l’apostolo ha dedicato se stesso perché il disegno divino,
che era celato nel mistero, venisse reso noto a tutti, anche alle potenze
cosmiche e celesti, e attuato nella storia. A questo punto
Paolo rivolge un’appassionata preghiera a Dio Padre, creatore di tutti gli
esseri, perché trasformi la coscienza dei cristiani così da giungere alla
piena maturità della fede e dell’amore. Potranno allora scoprire il cuore
profondo del mistero divino, che è l’infinito amore di Dio offerto a noi in
Cristo, un amore che ci avvolge conducendoci alla pienezza, un amore totale
che abbraccia tutto l’essere, rappresentato secondo le quattro dimensioni
sotto le quali la tradizione popolare concepiva la realtà: ampiezza,
lunghezza, altezza e profondità. Con un’acclamazione di lode finale a Dio
Padre (3,20-21) si chiude la prima parte della lettera. LE ESIGENZE
DELLA VITA CRISTIANA 4 Con il capitolo
4 si apre una seconda parte della lettera, di taglio più esistenziale: si
intende delineare un profilo della vita cristiana, fondata sull’unità di
tutti i credenti nell’unico corpo di Cristo. Si ha innanzitutto un appello a
riscoprire questa «unità dello spirito», rafforzata dal «legame della pace»,
ricordando la sua sorgente, cioè l’unico Dio che agisce in tutti, l’unico
Cristo Signore e Salvatore, l’unica fede e l’unico battesimo. Se tutti hanno
ricevuto la grazia, ciascuno la manifesta secondo forme diverse che sono
espressioni dei doni divini effusi dal Cristo risorto (si cita nel versetto 8
il Salmo Paolo elenca
cinque doni spirituali che costituiscono altrettanti ministeri destinati a
condurre alla maturità cristiana tutta la comunità dei credenti: apostoli,
profeti, evangelisti, pastori e maestri. Ma il modello che tutti dobbiamo
tenere davanti agli occhi per raggiungere la maturità della fede è Cristo
stesso, che è la pienezza per eccellenza. Solo con questa meta passiamo
dall’infanzia, che è ancora debolezza e immaturità, alla maturità. E la via
per raggiungere questa completezza spirituale è la «verità nell’amore». Solo
così si configura il corpo di Cristo nella sua armonia e nella sua perfetta
compagine. Si presenta in questa pagina il tema del corpo di Cristo che è la
Chiesa in un modo lievemente differente rispetto a 1Corinzi 12. Là, infatti,
la Chiesa era il corpo di Cristo in modo globale; qui si dice che Cristo è il
capo e i cristiani sono il corpo. Comune è, però, il rilievo dato all’amore
come anima dell’intero organismo. Si passa poi a
una riflessione sull’esperienza battesimale vissuta dai fedeli. Essa è stata
una svolta radicale che ha totalmente mutato la realtà dell’uomo. Il
battezzato, infatti, deve lasciare alle spalle «l’uomo vecchio», con la sua
miseria e il suo peccato, e deve rivestire la qualità di «uomo nuovo», che è
il profilo voluto da Dio creatore e che è la condizione umana inaugurata e
attuata dalla morte e risurrezione di Cristo. Il tema delle due creature, la
vecchia e la nuova, la peccatrice e la redenta, era già apparso in Romani
6,4- Questo
mutamento radicale che si è compiuto nel cristiano deve generare un
differente comportamento morale, che la lettera esemplifica in alcuni impegni
che rimandano al Decalogo e a moniti presenti già nell’Antico Testamento. Si
citano, infatti, Zaccaria 8,16 sull’impegno di servire la verità e il Salmo
4,5 per quanto riguarda l’ira; ma si evoca anche il «non rubare», il «non
pronunziare falsa testimonianza» del Decalogo e l’esortazione, frequente
nella Bibbia, a combattere il peccato di parola. In particolare, in questa
che è una nuova lista di vizi da evitare, si sottolinea l’importanza
dell’amore e della concordia fraterna, la cui assenza rattrista lo Spirito
Santo che è effuso in noi. IL
COMPORTAMENTO DEL CRISTIANO 5 L’amore è,
infatti, il cuore della morale cristiana. Il modello ideale è Cristo, che si
è donato a noi attraverso la morte in croce, definita come «sacrificio di
soave odore», cioè come una vittima sacrificale gradita a Dio e capace di
cancellare ogni peccato (per l’espressione usata, tipica dell’Antico
Testamento, vedi Genesi 8,21; Esodo 29,18; Salmo 40,7). Il cristiano,
purificato da questo atto d’amore divino, deve abbandonare lo stile di vita
precedente, che l’apostolo illustra attraverso alcuni vizi emblematici del
paganesimo come volgarità, impurità, idolatria. Queste realtà impediscono il
legame con Cristo e quindi con la vera vita e la luce. Si ricorre, infatti,
alla tradizionale opposizione cara anche al giudaismo tra tenebra e luce,
come simboli di due stati di vita antitetici. I cristiani nel
battesimo sono stati illuminati da Cristo e, perciò, dalla tenebra sono
divenuti «luce nel Signore» (vedi 1Tessalonicesi 5,4; Romani 13,12; Colossesi
1,12-13). Come conferma si cita un frammento di inno battesimale presentato
quasi come fosse una parola biblica («sta scritto» è la formula introduttoria
alle citazioni bibliche): immersi nelle tenebre del sonno e della morte, noi
siamo risorti e abbagliati dalla luce di Cristo. Si precisa, allora, come
dev’essere la vita dei figli della luce. Paolo segnala due atteggiamenti
fondamentali. Da un lato,
bisogna fare buon uso del tempo, cioè di questa èra di salvezza in cui ci ha
introdotto la Pasqua di Cristo. In essa bisogna scorgere e seguire la volontà
di Dio, che ci conduce alla pienezza della vita. D’altro lato, è necessario
lasciare spazio allo Spirito che trasforma l’esistenza del credente in un
canto di lode e ringraziamento a Dio. Il discorso si fa ora ancor più concreto
e si delinea una specie di tavola dei doveri della vita familiare (vedi anche
Colossesi 3,18-4,1). Si devono, però, notare due differenze rispetto ai
paralleli del mondo giudaico e greco-romano: si sottolinea la reciprocità dei
doveri degli sposi, nonostante il contesto maschilista in cui l’apostolo
viveva (che pure lascia qualche traccia); inoltre, Gesù Cristo diventa il
riferimento fondamentale su cui vivere l’esperienza d’amore, essendo egli la
fonte della carità. È per questo
che la considerazione sui doveri dei mariti verso le mogli si trasforma in
una catechesi sul rapporto tra Cristo e la Chiesa, sua sposa, purificata
attraverso il lavacro battesimale. Il matrimonio diventa, perciò, simbolo
dell’unione tra Cristo e la Chiesa, il “grande mistero”, come lo chiama
Paolo, cioè il mirabile disegno salvifico di Dio. L’uso dell’immagine nuziale
per rappresentare la relazione tra Dio e Israele era già stato praticato
dall’Antico Testamento (vedi, ad esempio, Osea 1-3). Ora il matrimonio
cristiano illustrato sulla base di Genesi 2,24 diventa segno della nuova
alleanza ed è in questa luce che il passo è stato letto come la base della
visione sacramentale dell’unione matrimoniale cristiana. ALTRE
ESORTAZIONI E SALUTO 6 Dal rapporto tra
i coniugi la “tavola” dei doveri familiari delineata dall’apostolo passa a
quello tra i figli e i genitori, con un rimando esplicito al comandamento,
presente nel Decalogo (Esodo 20,12), di onorare il padre e la madre. Tuttavia
anche in questo caso si esalta la reciprocità: i genitori devono educare i
loro figli senza esasperarli. Si riserva poi spazio al settore delle
relazioni tra schiavi e padroni. È un’esortazione che risente del contesto
storico in cui vive la Chiesa delle origini. Ma c’è una sottolineatura nuova
e significativa. Da un lato, lo schiavo deve compiere il suo lavoro con
onestà, consapevole che ogni azione del cristiano ha un valore agli occhi di
Dio. Dall’altro lato, i padroni devono comportarsi senza violenze o minacce,
perché c’è sopra di loro un Signore di tutti che non guarda allo stato
sociale o di privilegio, ma giudica ognuno con giustizia. Conclusa la
“tavola” degli impegni del cristiano nella famiglia e nella società, la
lettera si avvia alla fine con un’ampia esortazione ad affrontare con
decisione la lotta spirituale contro il male, che insidia la vita del
credente. Paolo fa esplicito riferimento al diavolo e alle forze oscure che
dominano la storia. Egli le denomina secondo il linguaggio apocalittico come
principati, potenze, dominatori del mondo tenebroso in cui siamo immersi, e
spiriti del male che, invece, trascendono il nostro orizzonte terreno. Si
ricorre, così, alla simbologia marziale dell’armatura da indossare. Anche Dio
nell’Antico Testamento era raffigurato come un guerriero che si schierava,
con il suo re-Messia, a difesa del bene e dei giusti contro l’assalto del
male (Isaia 11,4-5; 59,16-18; Sapienza 5,17-23). Le armi del
cristiano sono la verità come cintura, la giustizia come corazza, le
calzature per annunziare il vangelo, la fede come scudo, la salvezza come
elmo, lo Spirito e la parola di Dio come spada (vedi anche 1Tessalonicesi
5,8). La lotta spirituale dev’essere sostenuta dalla preghiera allo Spirito
Santo, perché sia vicino a tutti coloro che annunziano il vangelo. Paolo si
colloca tra costoro ed è presentato dalla lettera «ambasciatore in catene»
del messaggio di Gesù: anche se non si è certi su questa carcerazione (quella
romana o un’antecedente prigionia, forse efesina), è sulla base di questa
nota che si colloca lo scritto agli Efesini tra le cosiddette “lettere dalla
cattività” (o prigionia). La lettera è chiusa da un intenso saluto. Al suo interno
c’è una particolare esaltazione dell’amore «incorruttibile» che deve unire il
cristiano al suo Signore. Prima, però, si fa riferimento a un collaboratore
dell’apostolo di nome Tichico, inviato come delegato di Paolo. Egli espleterà
la stessa missione anche nei confronti dei cristiani di Colosse (Colossesi
4,7): era, perciò, un rappresentante dell’apostolo nell’area dell’Asia Minore
o almeno in alcuni ambiti di essa, nei quali egli comunicava ufficialmente
notizie e messaggi paolini. |
Paolo Quando appare sul quadrante della nostra storia, Saulo, o con il nome
latino Paolo, ha circa 30 anni. A mezzogiorno. Sulla via che va da Gerusalemme in Giudea a Damasco in
Siria ( Si, quel giorno sognato e atteso doveva
segnare sull'agenda personale una specie di solenne collaudo del suo primo
nome, Sha-ù-l o Saulos (At 7,58).
Nome semitico che significa 'invocato con preghiere, desiderato ' e che lo
faceva sentire importante nella storia del suo popolo: Sha-ù-l era il nome
del primo grande re d'Israele! "Io sono un giudeo, nato a Tarso,
in Cilicia, educato nella città di Gerusalemme, istruito ai piedi di Gamaliele
nelle rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo per
Dio..."(Atti degli Apostoli, capitolo 22). Voi avete
certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo, quando ero nel
Giudaismo: come perseguitavo la Chiesa di Dio, accanito com'ero nel difendere
le tradizioni dei padri... Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia
madre e mi chiamò a sé con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il
Figlio suo, perché io lo annunziassi ai pagani, io subito andai in Arabía...
poi tornai a Damasco... Dopo tre anni salii a Gerusalemme a consultare
Cefa... Personalmente ero sconosciuto alle chiese della Giudea che sono in
Cristo: avevano solo sentito dire: "colui che un tempo ci perseguitava
adesso annuncia quella fede che allora cercava di distruggere", e glorificavano Dio a causa mia. (lettera
ai cristiani della Galazia, capitolo 1,13-24) Messo a ko sul
ring della via di Damasco da Gesù di Nazaret, Colui che egli considerava il suo
più grande rivale, tutta l'esistenza di Saulo si qualifica ormai in prima e dopo Damasco. E per amore di Gesù 'il mio Signore' diventa volontariamente il
più piccolo colui che, per amore di se stesso, mirava con tutto l'essere a
diventare il più grande A me, il più piccolo di tutti (= paulissimus!) è stata concessa
questa grazia: di annunziare a tutte le genti la straordinaria ricchezza che
è Cristo Gesù. (Lettera ai cristiani di Efeso 3,8; vedi Lettera ai
cristiani di Filippi 3). Scheda personale di Paolo di Tarso Paulos, Paulos (At 13,9) è il suo secondo nome, nome
greco-romano che vuoi dire piccolo. Di poco più giovane di Gesù di Nazaret,
il suo più grande avversario che diventerà il suo Maestro e Signore, Saulo
era nato a Tarso, di Cilicia (l'attuale Turchia allora importante provincia
dell'impero romano), verso il 5 - 6 dell'era cristiana. Frequentò probabilmente nel
paese natale la scuola della sinagoga ebraica e apprese il mestiere del
padre, un abile tessitore di stuoie. Poi a Gerusalemme, allievo del più
grande maestro dei tempo, Saulo fu formato nelle più rigide tradizioni dei
farisei, i religiosi più istruiti e più osservanti della religione ebraica. A
28 anni circa, è dottore in Legge, ufficialmente iscritto nell'albo
della setta religiosa dei Farisei: difensore accanito delle più rigide
tradizioni della sua religione; ostinato e zelante propagatore dei suo ideale
politico e religioso (integralista, terrorista ante litteram?). 1)Dalla nascita
ai 30 anni circa: 2) Dai 30 ai 41
anni circa: 3) Dai 41 ai 53
anni: 4) Dai 53 anni
fino al martirio(63 anni circa): il prigioniero per Cristo, Guida e Pastore,
geniale organizzatore delle comunità. da www.stpauls.it |
Ogni volta che racconto la mia
storia sento riemergere in me, come torrenti in piena, gli stati d’animo, le
emozioni, le passioni, i sentimenti vissuti allora… Gli anni e i secoli non hanno
potuto cancellare l’impronta lasciata sulla mia vita da Gesù di Nazareth, il
Cristo morto su una croce e risorto dai morti, soprattutto se ripenso al
momento in cui mi sono sentito afferrato sulla via che portava a Damasco… Ma
procediamo con ordine… La mia città di origine è Tarso.
Nel primo secolo d.C. Tarso era un porto internazionale animatissimo. Vi
approdava di tutto: dalle spezie alle fedi più eterodosse, dalle stoffe alle
tradizioni più disparate. Un vero e proprio "porto di mare".
Bastava aggirarsi per le sue vie per sentire le lingue e i dialetti più
diversi: dal greco all’ebraico, dal latino all’aramaico. A volte mi chiedevo
come i miei genitori avessero potuto restare così a lungo in quella città,
rimanendo fermamente ancorati alla tradizione del nostro popolo, come fedeli
sentinelle e gelosi custodi della rivelazione di Dio. Il fascino del mondo che ci
circondava era forte e non erano pochi i nostri amici ebrei che piano piano,
a volte senza nemmeno rendersene conto, si allontanavano dalla fede dei Padri
per vivere secondo uno stile di vita meno coerente. Un simile contesto
incideva parecchio anche su di me: il mio cuore era inquieto, a motivo della
costante minaccia a cui venivano continuamente sottoposte le mie certezze più
profonde; il mio spirito era lacerato dal contrasto che notavo tra
l’affascinante apertura universale della mia città e la severità della vita
familiare. Più crescevo, più il disagio aumentava: per questo i miei genitori
decisero di mandarmi a Gerusalemme, per immergermi nella terra e nella
memoria del mio popolo, sotto la guida di uno dei più grandi e rinomati
maestri: Gamaliele. Del resto potevamo permettercelo. A Gerusalemme vissi gli anni più
belli della mia giovinezza. Il fascino di quella città, cantato da tanti Maestri
e dalla stessa Torah, mi penetrò nel cuore, infondendomi un amore
appassionato per le tradizioni dei Padri e per tutte le sottigliezze della
Legge. Mi distinsi assai presto alla scuola di Gamaliele: non c’era
discussione che sentivo estranea, non c’era domanda a cui io non trovavo una
risposta, non c’era interpretazione della Torah a me sconosciuta. Avevo come
l’impressione di avere Dio in pugno, di avere afferrato il nocciolo di ogni
cosa. In quegli anni, Gerusalemme era
una città lacerata politicamente e spiritualmente. Al peso del dominio romano
e delle sue violenze, si aggiungevano gli intrighi politici delle classi
sacerdotali (i sadducei) e le reazioni violente degli zeloti. Solo i farisei
cercavano di starsene fuori da questo oscuro gioco, cercando nella stretta
osservanza della Legge una risposta a quella generale confusione. Forse fu
per tale motivo che mi trovai così bene in mezzo a loro. Voi nemmeno
immaginate quanti falsi maestri si aggirassero a quei tempi in Palestina,
spacciandosi per profeti o per inviati di Dio, lasciando sempre più
disorientata la mia gente. La prima volta che sentii parlare del Nazareno non
ci feci nemmeno caso! I miei fratelli avevano bisogno di certezze, non di
fanfaroni… avevano bisogno di gustare la forza della Legge, non le voglie di
uomini ispirati chissà da chi! Più studiavo e crescevo, più mi convincevo che
la risposta a tutti i miei interrogativi mi veniva offerta a chiare lettere
dalla Legge mosaica. Quella costituiva il mio grande punto di riferimento. Potrei continuare ma per ora
preferisco fermarmi qui. E’ importante lasciarvi del tempo perché anche voi
entriate un po’in sintonia con quel mondo lontano che io ho percorso in lungo
e in largo. Continuo il mio racconto da dove
l’ho lasciato. Vi parlavo del Nazareno… Ebbene, quel Gesù di Nazareth finì
male: lo inchiodarono su una croce insieme ai ribelli e ai sobillatori
dell’ordine costituito. Io ero convinto che ciò bastasse per mettere una
pietra sopra tutta la sua storia, e invece… più il tempo passava, più
aumentava il numero dei suoi discepoli, che lo ritenevano vivo e operante in
mezzo a loro. Eravamo al limite del buon senso, eppure la loro presenza si
estendeva come una metastasi: vivevano tra noi, circolavano tranquillamente
nel Tempio, frequentavano le nostre sinagoghe senza mai perdere l’occasione
per parlare di Gesù come il Messia di Dio. Molti ne restavano affascinati… si
parlava addirittura di guarigioni miracolose. C’era veramente motivo per
essere allarmati. Alla scuola
di Gamaliele se ne discuteva spesso. Devo confessare che io restai come di
sasso quando sentii il mio maestro esitare di fronte a tutta questa faccenda:
il Sinedrio aveva deciso di usare le maniere forti, arrestando i discepoli
più in vista di quella setta e accordandosi per la loro condanna a morte. La cosa era quasi fatta, quando fu proprio Gamaliele a intervenire
dicendo che tale scelta poteva costituire un grave errore: era meglio
aspettare ancora e discernere se quel movimento veniva o meno da Dio. Quando
seppi di tale esitazione, sollevata da un maestro tanto insigne, mi sentii
invadere dalla rabbia. Era come se tante certezze venissero messe a confronto
con l’orrendo patibolo della croce, come se la forza della Legge dovesse
misurarsi con un corpo nudo, orrendo, appeso a un legno. Quel giorno discussi
a lungo con Gamaliele e più lui sollevava le sue perplessità, più io alzavo
la mia voce, pieno di foga, ribadendo i principi che lui stesso mi aveva
inculcato. Era solo l’inizio di un lungo tormento… Non
passò molto tempo quando un giorno mi imbattei in una specie di rissa: tanta
gente usciva da una delle porte della città, c’erano volti a me ben noti,
dottori della legge, farisei... I loro gesti comunicavano rabbia, come del
resto le loro parole e i loro visi infuocati e sudati. Trascinavano un
giovane, un discepolo di quel Gesù. Mi trovai in mezzo a quella
folla quasi senza accorgermi e come loro agitavo le mie mani, urlavo,
spingevo… Fuori dalla città quel giovane venne lapidato: io assistevo alla
scena con un malvagio senso di compiacimento. I testimoni avevano lasciato i
loro mantelli ai miei piedi. Non dimenticherò mai la serenità di quel volto
che disarmò il mio spirito. La
lapidazione di Stefano, così si chiamava quel giovane, fu la prima di una
lunga serie di violenze contro quella setta. Non c’erano più solo i romani
che costruivano i patiboli, ma anche le mie mani e quelle dei miei compagni.
Volevamo soffocare quella piaga ed eravamo convinti che i sistemi forti
potessero bastare. Dalla mia parte, avevo il sostegno delle autorità
religiose e questo era un forte scudo di fronte ai richiami della mia
coscienza: entravo nelle case dei credenti, li obbligavo a raccontarmi su che
cosa si fondava la loro fede, li costringevo a bestemmiare, li minacciavo,
sputando, urlando, incatenando, percuotendo! Dio mio a che
punto ero arrivato!!! Questo tuttavia non bastava a restituirmi la pace. Più
colpivo, più mi sentivo disarmato; più ferivo, più la mia violenza esigeva di
essere sfogata… e intanto quella setta continuava a crescere e a estendersi,
nonostante tutto. Agire solo a Gerusalemme e nei dintorni era come battere
l’aria. Bisognava dare un segno forte che si stava facendo sul serio: per
tale motivo mi presentai al sommo sacerdote chiedendo l’autorizzazione di
condurre in catene a Gerusalemme anche i seguaci che si erano nascosti oltre
il territorio che apparteneva alla giurisdizione del procuratore romano. La
richiesta era forte ed esplicita: volevo andare in Siria, più precisamente a
Damasco. Il sommo sacerdote mi guardò fisso negli occhi e dopo un attimo di
esitazione si compiacque per tanto zelo. Del resto la mia fama e la mia
determinazione erano ormai ben note… Mentre
però mi dirigevo verso Damasco, il mio tormento interiore si acuì. Nella mia
mente lottavano le immagini delle violenze commesse e la reazione disarmante
delle mie vittime; il mio cuore era lacerato tra la rabbia e la tristezza,
tra il furore appassionato e un immenso e devastante vuoto. Ricordo che il
mio procedere era lento, le mie gambe erano pesanti come macigni. Il sole era
una palla infuocata che mi bruciava le braccia, mi inaridiva il volto, mi
seccava la lingua… A un certo punto sentii dentro di me come uno squarcio, una luminosità fastidiosa e
dolorosa che si proiettava sul mistero che io volevo soffocare… una chiara
presa di coscienza di ciò che ero, di quello che stavo facendo… Era come se
tutti quei volti che io avevo percosso, umiliato, insultato, - volti di
uomini, donne, bambini, volti di giovani e anziani -, riemergessero sotto le
sembianze di quell’uomo, di quel Gesù di Nazareth, ripetendo: “Saulo, Saulo,
perché mi perseguiti?”. Tale domanda all’inizio fu come sussurrata, sgorgando
da dentro, poi si fece sempre più forte, rimbombando nel mio cuore,
intontendolo… Sudavo, tremavo, mentre quella luminosità interiore che non
veniva da me si faceva sempre più fastidiosa e dolorosa… le mie articolazioni
si scomposero… crollai... Mi
fecero rinvenire i miei compagni: ricordo che mi facevano trangugiare acqua,
ma non era di quella che aveva bisogno il mio spirito. Non riuscivo a
reggermi, non avevo il coraggio di riaprire gli occhi, mentre le mie mani
cercavano punti di riferimento in un paesaggio sfuocato. Ero uno straccio. A
Damasco arrivai in queste condizioni. Un certo Giuda mi accolse nella sua
casa: chiesi una stanza, oscurai la piccola apertura che dava sul cortile e
mi rannicchiai in un angolo, tremando come un bimbo impaurito. Dentro di me
c’era la notte. Vedevo solo macerie, le macerie causate dal crollo di tutte
le mie certezze e da quella luminosità dolorosa che aveva trapassato il mio
spirito. Rimasi in quella posizione per tre giorni, rifiutando ogni cibo e
ogni bevanda. Dopo
quei giorni neri e vuoti come la morte e aridi come il deserto, si presentò
un uomo di nome Anania. Il suo saluto aveva un timbro incerto ma la sua voce
mi infondeva pace. Lo sentii avvicinarsi e percepii le sue mani che si
posavano lievemente sul mio capo: in quei brevi istanti sperimentai per la
prima volta che cosa è la Grazia, quale è la potenza del Risorto. Era una
cascata di luce che irrompeva nel mio cuore, trascinando via tutte le mie
sozzure. Mi aggrappai alle braccia che
quell’uomo aveva steso sul mio capo, affondando il mio volto nel suo
petto e piangendo come un bambino, come un bambino, come un bambino…. Mi
fermo qui. Ciò che vi ho raccontato ha bisogno di tanto silenzio per essere
compreso. non basta la ragione, non basta l'ascolto, non basta lo studio di
ciò che sta scritto di me su tanti libri. Ci vuole il silenzio. Il silenzio
davanti alla croce. allora capirete. Ne sono sicuro. Come
vi dicevo la volta scorsa, ad Anania devo davvero molto. Ognuno di voi ha un
“Anania” prezioso preparato esclusivamente per sé: si tratta di qualcuno che
apre la strada, indica la via, aiuta a discernere, è segno della presenza di
un Altro… Ero
ancora fisicamente debole quando iniziai il mio ministero di testimone
dell’amore di Dio a Damasco. Chi mi ascoltava provava sconcerto, meraviglia: nella città i giudei
mi consideravano totalmente impazzito, mentre i discepoli di Gesù
sospettavano un inganno, una trappola. Anania faceva quel che poteva per
difendere la mia causa… Solo il tempo poteva dare una garanzia al mio
annuncio: del resto, li capivo… Ma il tempo mi giocò un brutto tiro e al
posto di garantire la mia testimonianza, la soffocò: un giorno capii che la
mia vita era in serio pericolo. C’era chi spiava i miei passi e i miei
movimenti; addirittura il governatore del re Areta faceva tenere sotto
controllo le porte della città, aspettando l’occasione propizia per
uccidermi. Per scampare al pericolo mi nascosi in una cesta e mi feci calare
durante la notte dalle mura della città, fuggendo verso Gerusalemme. Ma
anche a Gerusalemme le cose non andarono meglio: da un lato subivo la
pressione delle minacce dei miei fratelli giudei, dall’altro il rifiuto dei
miei nuovi fratelli in Cristo. Solo l’intervento di Barnaba, un discepolo in
gamba e colmo di Spirito Santo, certamente inviato da Dio, facilitò il mio
inserimento nella comunità. Fu in quell’occasione che incontrai per la prima
volta Pietro e Giacomo, anche se devo riconoscere che la loro accoglienza non
fu molto calorosa nei miei riguardi. La mia vita continuava ad essere
esposta a un grave rischio per cui, alla fine, si decise che era opportuno
che io ritornassi per un po’ di tempo a Tarso. Uscire dalla circolazione
avrebbe aiutato a dimenticare quanti mi avevano in odio. Questione di mesi,
pensavo, e invece, a Tarso i mesi diventarono anni… Ad un certo punto ebbi
quasi la sensazione che Dio mi avesse abbandonato. Solo con il senno di poi,
capii che quello era il tempo del deserto, della riflessione, della
maturazione: il seme del Regno cresceva dentro di me e non c’era istante
della mia giornata in cui non meditavo attorno al paradosso di quel Messia crocifisso
e risorto, il cui annuncio doveva suonare davvero una stoltezza per i giudei
e un’idiozia per i pagani. Eppure in quel Dio nudo appeso al legno io trovavo
il cuore di tutta la buona novella! Un
giorno stavo trafficando al porto, quando vidi Barnaba venirmi incontro:
quella visita inaspettata mi invase di gioia. Da quando ero partito da
Gerusalemme nessuno dei fratelli era più passato a farmi visita… Il mio cuore
esplodeva di commozione. Intuivo che Dio mi stava affidando qualcosa. E
infatti, Barnaba era venuto a Tarso per prendermi con sé e portarmi ad
Antiochia. Non indugiai neppure un istante e la sera stessa ero già in
viaggio verso quella città. Barnaba mi spiegava che il cammino dei fedeli ad
Antiochia era giunto a una svolta decisiva: ci si trovava di fronte alla
prima comunità composta da pagani e questa era ritenuta una sfida per tanti
fratelli provenienti dal giudaismo che guardavano la cosa con sospetto. Ci
voleva qualcuno che conoscesse bene il mondo pagano, che fosse ben ferrato
sui principi del giudaismo e che allo stesso tempo avesse un’esperienza forte
della gratuità di Dio: Barnaba aveva pensato a me. Fu ad Antiochia che
cominciammo a essere considerati non più come una setta interna al Giudaismo,
ma come qualcosa di distinto: la gente ci chiamava con un nome ben preciso:
“cristiani”. Antiochia
divenne una sorta di “quartier generale” per tutto il nostro ministero: non
saprei dirvi quante furono le città che visitai, quanti furono i viaggi che intrapresi…
Non lo dico per vantarmi, ma per aiutarvi a sfiorare la potenza dello Spirito
che apriva le strade del mio apostolato, infondendo nel mio povero vaso di
creta uno slancio illimitato. Non sono mai stato un uomo forte, anche se
questa può essere l’impressione che traspare dalle mie lettere. A Corinto i
falsi fratelli approfittavano di questo, insinuando che i miei scritti non
erano in sintonia con la mia persona: se questi erano duri e forti, la mia
presenza era al contrario debole e dimessa. Ma la potenza di Cristo si
manifestava proprio in questo. Quante
fatiche, quante prigionie, quante minacce, quante percosse ho sopportato per
il vangelo! Per ben cinque volte ho ricevuto dai giudei i trentanove colpi,
tre volte sono stato battuto a sangue con le verghe, una volta mi hanno pure
lapidato… per non parlare dei naufragi o
dei pericoli a cui era costantemente esposta la mia vita: pericoli di
briganti, dei pagani, dei falsi fratelli; pericoli sulle strade, sui mari,
sui fiumi, nei deserti, nelle città… e poi i travagli, le veglie, i digiuni,
la fame, la sete, il freddo… Eppure tutto questo non bastava per
scoraggiarmi: era troppo grande l’esperienza che avevo fatto sulla via di
Damasco, era troppo forte la certezza che in quel Gesù morto e risorto si celava
la rivelazione più grande che l’uomo avesse mai ascoltato! Due erano i punti
saldi che mi sostenevano: il mistero della croce e il pensiero costante delle
giovani comunità che lo Spirito aveva dato alla luce servendosi del mio
povero ministero. E vi posso assicurare che tanti erano i rischi a cui queste
giovani chiese erano esposte: c’era chi voleva annacquare la centralità della
croce, chi preferiva il compromesso alla persecuzione, chi pretendeva che i
pagani dovessero farsi circoncidere… C’era una paura enorme di essere espulsi
definitivamente dal Giudaismo ufficiale… quanto ho dovuto lottare su questi
aspetti, quanto ho dovuto soffrire! Su
questo sfondo gli anni volarono e mi ritrovai ben presto con due mani,
strette come una morsa attorno alle mie braccia. Mi stavano conducendo alla
morte. Ricordo che non pensavo minimamente a me stesso... L’unico timore che
mi attraversò il cuore pochi attimi prima di morire fu la paura che le
giovani comunità non potessero reggere a tante minacce… Chiudendo gli occhi,
con il mio ultimo pensiero le passai in rassegna, una dopo l’altra,
stringendole insieme a me attorno al mistero della croce e affidandomi con
loro a quell’uomo nudo appeso su di essa… Il mio racconto
termina qui. Quanto avete letto è poca cosa... ma so che le prime comunità
cristiane hanno messo a vostra disposizione le mie lettere e Luca, un mio
discepolo, vi ha lasciato la sua testimonianza a mio riguardo nel libro del
Nuovo Testamento che porta il titolo di Atti degli Apostoli. Vi affido al Dio
del Signore nostro Gesù Cristo, pregando perché egli conceda anche a voi di
conoscere i tesori della sua gloria e di afferrare la larghezza, la
lunghezza, l'altezza e la profondità dell'amore di Cristo che trascende ogni
conoscenza umana. la sua grazia sia su tutti coloro che lo cercano con amore. |
da www.stpauls.it
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