Breve storia del popolo Ebraico ( dal Giudaismo al Cristianesimo)
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Nell'estate dell'anno 63 a.C., lungo le strade della Palestina comparvero le colonne
dei soldati romani. Dietro a loro avanzavano cigolando i convogli, rombavano
le pesanti macchine belliche, in un nuvolone di polvere brillavano le corazze
dei legionari, i vessilli ondeggiavano al vento. Comandava le schiere il condottiero
quarantatreenne Gneo Pompeo. Pur coltivando il
sogno segreto di signoreggiare un giorno sul mondo intero, Pompeo amava
attribuirsi la candida veste di arbitro fra le nazioni e sosteneva di non
aver affatto condotto fin qui i suoi soldati per impossessarsi di una terra
altrui: no, era venuto da vero liberatore, da paladino dell'ordine. In quegli
anni egli era all'apice della gloria e godeva del favore dell'esercito.
L'aver sgominato i pirati, vero flagello per i naviganti, e l'aver coronato
di vittoria la campagna d'Asia, sconfiggendo Tigrane
di Armenia e Mitridate del Ponto, aveva rafforzato
la sua posizione tanto a Roma che fuori dell'Urbe. Pompeo aveva trovato il Medio Oriente in
un momento di lotte fratricide tra piccoli re e signorotti locali. Egli era
dunque accorso a «ristabilire la pace», distribuendo titoli e corone, senza
però trascurare di fare di tutto il litorale siriaco
una provincia romana. In Giudea, in quello stesso tempo era in
corso un'aspra lotta per il trono di Gerusalemme tra i due fratelli aventi
diritto, Aristobulo e Ircano.
Essi si rivolsero a Pompeo chiedendogli di essere arbitro della loro contesa.
Vedendo però che le trattative a Damasco duravano più del previsto, Aristobulo a un tratto cambiò idea e rifiutò l'aiuto dei
romani. Informato di tale rifiuto, Pompeo si adirò fortemente, ed ecco che
ora le legioni romane marciavano a passo spedito verso Gerusalemme... ----------- La Palestina, paese di Israele, che ora
attraversavano le coorti romane, e dove un secolo più tardi avrebbe risuonato
la voce di Cristo, è situata allo spartiacque tra Europa, Asia e Africa, la
qual cosa ha sempre fatto di questa terra un pomo della discordia. Molti
conquistatori, nel corso dei secoli, avevano fatto incursioni nel suo
territorio, che peraltro non era particolarmente appetibile non potendo
vantare ne straordinaria fertilità, ne sovrabbondanza di ricchezze naturali. Questa piccola striscia di terra che si
estende lungo le rive del Giordano e del Mar Morto, ha in sé le più diverse
varietà di clima e rilievo. Non per niente è definita «terra dei contrasti».
Nevi eterne imbiancano le cime delle montagne di Israele, le nevicate in
inverno non sono una rarità neanche per il sud del Paese, e d'estate in
alcuni posti il caldo raggiunge punte quasi tropicali. Qui palme e melograni,
fichi e cipressi crescono accanto a salici e boschi di ontani, verdi pianure
sono interrotte da nude catene di roccia. Un tempo la parte più fiorente del Paese
era la regione settentrionale, la Galilea, situata a occidente del lago di Kinneret (o Genesaret) ,
conosciuto anche come Mare della Galilea. In questa regione vivevano molti
stranieri, perciò i giudei la chiamavano «Galilea pagana». A sud essa confina
con la regione della Samaria che un tempo, assieme alla Galilea, costituiva
il regno settentrionale di Israele, distrutto nel 722 a.C. dagli assiri. Questi deportarono molti abitanti delle città, e
al loro posto fecero stabilire in Samaria una moltitudine di persone dalla Mesopotamia e dalla Siria, che si mescolarono agli
israeliti e ne assunsero la religione, conservando tuttavia diversi riti e
usi dei loro avi. I giudei rifiutavano di riconoscere in questi «samaritani»
dei fratelli di fede, poiché li consideravano quasi pagani. Ciò dava adito a
continui conflitti, di cui fanno menzione anche i vangeli. Alcune centinaia
di samaritani ancora oggi vivono in Israele, e come i loro avi considerano
sacro il monte di Garizim, dove una volta si ergeva
il loro tempio. La parte meridionale della Palestina, la
Giudea propriamente detta (giacché i romani chiamavano Giudea tutta la
Palestina), è l'esatto contrario del Settentrione. Ne accogliente, ne
fruttifera, si presenta quasi come un grande deserto puntellato di oasi. Il
suo clima rigido ma sano ha temprato i giudei e ne ha fatto un popolo resistente
e alieno a mollezze. L'ultima città lungo la strada dei romani
per Gerusalemme, che presentava ancora le caratteristiche del Nord, era
Gerico, famosa per le sue acque termali e i suoi palmeti. Là Pompeo stabilì
l'accampamento e di lì guidò i suoi soldati fino alle porte della capitale
giudea. ---------- Gerusalemme, che aveva già una storia di
quindici secoli di glorie e declini, era ormai da tempo una città
leggendaria. Situata sulla montagna, rappresentava quasi una fortezza
inespugnabile. La vista delle possenti mura di cinta turbò Pompeo, che pure
era un esperto nell'arte dell'assedio. Ma i dissidi che infuriavano
all'interno della cinta cittadina vennero in aiuto dell'invasore. Aristobulo si arrese ai romani, e il partito di Ircano aprì loro le porte della città. Coloro però che
non volevano accettare l'intrusione degli stranieri
si rinchiusero nella roccaforte del tempio, pronti a resistere fino alla
morte. L'assedio si protrasse per tre lunghi
mesi, finché i romani riuscirono con sforzo enorme ad abbattere una delle
torri. Quando infine fecero irruzione nel territorio del tempio, furono
sbalorditi al vedere che pur in mezzo ai combattimenti i sacerdoti non
interrompevano la funzione sacra. Per tutto il tempo in cui le guardie
opposero una resistenza accanita e disperata, i sacerdoti non abbandonarono
mai l'altare e caddero tutti sul posto, accanto ai loro difensori. Avvalendosi del diritto di vincitore,
Pompeo decise di visitare il famoso tempio con tutti i suoi locali, compreso
il Debir,
il «Sancta Sanctorum», al
quale aveva accesso, e solo una volta all'anno, unicamente il sommo
sacerdote. Il condottiero romano compiva questa
profanazione spinto da una curiosità irresistibile: sulla religione dei
giudei, infatti, circolavano voci stranissime. Alcuni dicevano che nel Debir vi
fosse una statua d'oro raffigurante una testa d'asino, altri invece
sostenevano che vi tenessero segregato un uomo, condannato a essere
sacrificato in olocausto... Gli occupanti dunque non potevano resistere alla
curiosità: che cosa mai si nascondeva in quel luogo segreto? Che sorprese
inaudite offre il misterioso Oriente alle genti dell'Ovest!... In un silenzio carico d'attesa il pesante
velo si spostò e... Lo stupore di Pompeo e dei suoi ufficiali oltrepassò ogni
limite. Essi si aspettavano di vedere in quel luogo qualcosa di
straordinario, almeno un'immagine, o bellissima o orrida. Ma il «Sancta Sanctorum» era vuoto.
Era abitato dall'Invisibile... In preda a una strana meraviglia mista a terrore
superstizioso, i romani abbandonarono il luogo sacro temendo anche solo di
sfiorare ciò che i loro occhi vedevano. Ma certamente quei romani sarebbero
stati ancora più meravigliati se avessero saputo che la sorte in quel giorno
li aveva posti faccia a faccia con una religione destinata a diventare la
culla di una dottrina che avrebbe conquistato l'Oriente e l'Occidente, l'Ellade dai bianchi marmi e la loro stessa Roma. In che cosa questa religione si
differenziava dalle altre? Per
rispondere a questa domanda si deve partire da lontano. ---------- Fin dal momento in cui la prima scintilla
dell'intelletto balenò all'interno dell'uomo, questi avvertì subito la realtà
di una certa forza superiore che abbraccia tutto il creato. Per i cacciatori
primitivi era naturale identificare questa forza con ciò che noi oggi
definiamo come natura. Per questo, fin dalla notte dei tempi, gli uomini
hanno cercato in tutto ciò che li circondava - le nuvole e le stelle, i fiumi
e gli esseri viventi - la presenza del divino. In principio questa ricerca portava di
norma a un'ingenua idolatria, alla deificazione di alcuni oggetti e fenomeni
naturali. Più tardi, in India, Cina e Grecia il culto della natura generò
l'idea che il mondo fisico fosse l'unica vera realtà; tale opinione,
tuttavia, andava contro l'intera esperienza spirituale dell'uomo, e non ebbe
molto seguito. Al contrario, col raggiungimento della
maturità filosofica e religiosa da parte delle diverse culture, si rafforzò
la convinzione che la realtà trascendente si differenzi radicalmente da tutto
ciò che è parziale e limitato. L'ultima parola del pensiero precristiano fu proprio la dottrina sulla divinità, su quell'essere sacro e ineffabile che si trova al di là del
mondo fisico e che, comunque lo si chiami - Cielo, Padre o Fato -, non può
essere conosciuto in tutta la sua profondità da nessun mortale. Quest'idea non nasceva solo dall'esperienza dei mistici,
ma aveva anche un fondamento logico; intatti, quale intelligenza finita
potrebbe essere in grado di comprendere ciò che di per sé è infinito? Nonostante la nostra incapacità di
possedere il mistero, nel cuore dell'uomo questo arcano anelito verso l'alto
non si è mai spento. Egli ha sempre cercato di superare la distanza che lo
separa dal cielo, di legare la sua vita con l'«altro» mondo. In conseguenza
di questa contraddizione, nell'umanità continuarono a coesistere due fedi
opposte ma strettamente legate l'una all'altra: la fede nell'Ineffabile e la
fede nelle divinità naturali. Queste ultime parevano essere più vicine
all'uomo, giacché con esse si poteva stabilire un contatto diretto. Si
credeva che esistessero degli strumenti magici per mezzo dei quali l'uomo
poteva influire sui demoni e sugli spiriti. Questa visione utilitaristica
della religione fu certamente quella dominante per migliaia di anni. Il
politeismo e la magia cercavano in questo modo di colmare il vuoto che
separava la terra dal cielo. Questa contraddizione fu superata per la
prima volta dalla rivelazione biblica. La Bibbia infatti parla di un Dio santo,
cioè infinitamente superiore alla creazione, e parla nel contempo dell'uomo
come immagine e somiglianza di questo Dio. Tale misteriosa parentela tra lo
Spirito infinito e uno spirito finito, secondo la Bibbia, rende possibile un
patto, un'alleanza tra essi. L’ alleanza,
dunque, è la via di unione dell'uomo non con gli dèi, ma con la stessa
Origine trascendente che esiste al di sopra del cosmo. ---------- È interessante il fatto che la religione
dell'alleanza era professata da un popolo che non aveva dato origine a una
civiltà potente, non si distingueva particolarmente nel panorama politico
dell'antichità, e solo per brevissimo tempo godette dell'indipendenza
nazionale. Questo popolo, però, ha saputo conservare la fedeltà al suo Dio
attraverso i lunghi secoli della sua difficile storia. Gli antenati di Israele da tempo
immemorabile avevano errato tra la Siria e l'Egitto. La tradizione ha
conservato memoria del capostipite degli ebrei, Abramo (vissuto all'incirca
1900 anni prima di Cristo), a cui è legato l'inizio della religione
dell'Antica Alleanza. Il primo comandamento di questa religione indica
l'importanza delle azioni umane davanti al volto di Dio: «Io sono Dio
l'Onnipotente; cammina davanti a me e sii irreprensibile». Ad Abramo Dio
promise che attraverso la sua discendenza sarebbero state «benedette tutte le
tribù e i popoli della terra», anche se il senso di questa benedizione rimase
per lui un mistero. Nel XVII secolo a.C. gli ebrei, affamati,
si spostarono a oriente del delta del Nilo, dove lentamente furono sempre più
assoggettati dal potere dispotico dei faraoni. La fede di Abramo era ormai
quasi del tutto dimenticata. Attorno all'anno 1230 un gruppo di tribù
ebree che acquistò il nome di «figli di Israele», o più semplicemente Israele, si unì sotto il comando di Mosè, loro grande profeta e
legislatore. Egli riportò il popolo al «Dio dei padri», il «Dio di Abramo,
Isacco e Giacobbe», e lo fece uscire dalla schiavitù. In memoria dell'uscita,
o esodo, dalla schiavitù, cioè di
questa liberazione operata da Mosè, fu stabilita la festa della Pasqua. Gli israeliti si nascosero nel deserto del
Sinai e per un certo periodo vissero nei dintorni del santo monte del Sinai e
dell'oasi Kadesh, dove il profeta proclamò
solennemente le verità base della religione dell'alleanza. Mosè comandò al popolo di adorare un solo
Dio, Signore e Creatore del mondo, chiamato JHWH, nella traduzione greca
Colui che è, Colui che possiede l'essenza, perché è prima di tutto il mondo
sensibile. Il profeta vietò di adorare le forze della natura come anche di
fare qualsiasi immagine dello stesso JHWH. Unico segno della sua presenza tra
coloro che credevano in lui era un'arca, un grande scrigno con delle effigi
di esseri alati, i cherubini; l'arca veniva trasportata su due aste e in battaglia
precedeva le truppe. Mosè aveva insegnato che, per volontà di
Colui che è, Israele doveva diventare il suo strumento d'elezione, un «popolo
santo», un «regno di sacerdoti», cioè una comunità di persone destinate a
servire il vero Dio. Il culto degli israeliti nomadi non aveva
la grande abbondanza di cerimonie tipica di tutte le religioni dell'antichità
. L'insegnamento di Mosè è riassunto nel Decalogo, dieci comandamenti incisi
su due lastre di pietra. Nella loro sostanza essi riguardano la fedeltà al
Signore-Salvatore e i principi basilari della morale: rispettare il padre e
la madre, non uccidere, non rubare, non fornicare, non calunniare, non
invidiare. Il Decalogo prescrive un'unica pratica cultuale: la legge del
giorno di sabato consacrato a Dio. Alla stessa epoca dei dieci comandamenti
risale probabilmente la preghiera e professione di fede che comincia con le
parole: «Ascolta, Israele! JHWH è il nostro Dio, JHWH è uno. Amerai JHWH, tuo
Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue
forze». La grandiosa semplicità della fede di Mosè
e dei suoi comandamenti, che peraltro fino ad oggi è ancora difficile
osservare, segnò un cambiamento radicale della coscienza religiosa. Non
stupisce perciò che Mosè abbia avuto la non facile sorte del profeta
incompreso. La
Bibbia ci racconta con che difficoltà gli schiavi di un tempo accolsero
l'insegnamento di questo maestro, come insorsero contro di lui, quanto forte
fosse in loro il potere delle superstizioni precedenti. Il profeta però non
cedeva, neanche quando gli sembrava di aver già perso la partita, e il suo
zelo non fu vano. La religione dell'alleanza divenne quella radice salda
dalla quale crebbe la forza spirituale e l'unità del popolo. Già durante la vita di Mosè gli israeliti
cominciarono a penetrare nel paese di Canaan, nome
con cui all'epoca si designava la Palestina, e dopo la sua morte una gran
parte di essi attraversò il fiume Giordano e conquistò con le armi tutto il
Paese. Si compiva così il sogno di molte generazioni: abitare la «terra di
Abramo». La tribù di Giuda si stabilì nella regione
montuosa del sud del Paese, le altre popolarono il nord. Ben presto però gli
israeliti, figli del deserto, si ritrovarono nella condizione di vincitori
che dal punto di vista culturale devono sottomettersi ai vinti. La civiltà
dei cananei, affine a quella fenicia, aveva già
raggiunto un alto grado di sviluppo per quell'epoca.
La loro religione, però, conservava ancora l'antica crudeltà; essi
effettuavano sacrifici umani, avevano il rito dell'immolazione dei bambini,
praticavano la prostituzione sacra. Le feste legate alla fecondità erano
accompagnate da riti sensuali e orge. Sotto l'influenza del popolo in mezzo al
quale doveva vivere, Israele cominciò ben presto a perdere la propria specificità
spirituale. La venerazione di Bàal e delle altre
divinità rurali dei cananei entrò pian piano a far
parte del costume religioso dei contadini ebrei. Come dice la Bibbia: «I
figli di Israele si sono allontanati da JHWH loro Dio». Intorno all'anno 1100, sul litorale cananeo sbarcarono dei soldati provenienti dalle isole
dell'Egeo. Si trattava dei filistei, popolo che possedeva già il segreto
della fusione del ferro. In breve tempo essi imposero il loro potere al
Paese, che in seguito proprio da loro ricevette il suo nome greco di
Palestina. Gli israeliti e i cananei, che non
avevano che armi di bronzo, non poterono opporsi all'occupante. Passò mezzo secolo prima che nel giogo
straniero si vedesse un castigo divino per l'apostasia di Israele. Comparvero
allora dei predicatori che esortavano il popolo a ritornare alla fede dei
padri. Essi risvegliarono le forze della gente e capeggiarono l'insurrezione
contro i filistei. La guerra si protrasse a lungo ma si
concluse con la vittoria che diede origine allo Stato ebraico autonomo. Verso
l'anno 1000, sotto il re Davide, questo Stato riuniva diverse tribù parenti e
si estendeva «dal Nilo all'Eufrate». Davide elesse a capitale politica e
religiosa la città-fortezza Cananea di Gerusalemme, e vi fece trasportare l'arca.
Il profeta Natan predisse al re che il suo zelo
nella fede sarebbe stato ricompensato: uno dei suoi discendenti avrebbe
fondato un regno eterno. Secondo l'uso orientale, quando un uomo diventava
monarca, il sacerdote versava sul suo capo una coppa di crisma. Il crisma,
olio di oliva usato nelle cerimonie, era simbolo di stabilità. Il rito
dell'unzione, dunque, ricordava che il potere è un dono di Dio, il cui
spirito avrebbe sempre accompagnato l'eletto. Perciò ogni sovrano in Israele,
e anche qualche profeta, era nominato Messia, cioè Unto, in greco Cristo. Col tempo però questo titolo
fu riferito solo al grande re che doveva venire. Per gli israeliti la promessa del Messia
coincideva con la speranza comune nell'attuazione dei piani imperscrutabili
di Dio. Tale speranza da sempre era la caratteristica prima dell'Antica
Alleanza. Essa risaliva ai giorni di Abramo; poi il fine trainante di Israele
divenne la terra promessa che indicava Mosè; infine la profezia di Natan diede una nuova direzione alle attese del popolo. ----------- Non si deve comunque pensare che la vita
spirituale di Israele fosse a quel tempo sempre cristallina. Ogni capitolo
della storia biblica ha pagine drammatiche che raccontano lotte e tentazioni,
cadute e tradimenti. La pavidità, le passioni, l'attrattiva dei culti pagani
e le macchinazioni dei politici più volte fecero vacillare la fede di
Israele. Dopo il re Davide i contatti coi fenici e
l'Egitto rafforzarono nuovamente l'influenza del paganesimo, e benché
nell'imponente tempio edificato a Gerusalemme dal re Salomone non vi fosse
nessuna raffigurazione di JHWH (e si rispettasse così la Legge mosaica), accanto ad esso si trovavano vari luoghi di
culto di altre divinità. Quando nel 922 il regno si divise in Nord e Sud,
Israele e Giuda, la minaccia dell'idolatria divenne ancora più grave.
Dappertutto si innalzavano altari dedicati a Bàal e
Astarte, e non si fu lontani dal riconoscere
ufficialmente il paganesimo come seconda religione di Israele. Tale crisi spirituale era accompagnata da
profondi cambiamenti sociali. L'assolutismo dei monarchi che estesero sempre
più i propri privilegi, lo sviluppo delle disuguaglianze sociali, la mancanza
di diritti e la rovina della classe contadina, le ingentissime
tasse, la penetrazione in Israele del
lusso e del sensualismo della civiltà
fenicia... tutto ciò non poteva non preoccupare quelle persone che serbavano
fede nel Messia e soffrivano per la decadenza della nazione. Essi si rifacevano
agli antichi ideali del Sinai, alla fede semplice e pura del passato
patriarcale. Fu proprio da quest'ambiente
che provenivano i profeti, inviati di Dio che incitavano il popolo a
svegliarsi dal torpore spirituale. Essi in genere predicavano nel tempio. Non
volevano affatto fondare una nuova religione, ma piuttosto rinnovare e
purificare quella religione che era stata tramandata dal tempo di Mosè. I
profeti rifiutavano di mentire alla gente in nome di un falso patriottismo e
cominciarono senza esitazioni a rimettere in causa l'intero sistema di vita
nazionale. ---------- I profeti furono attivi nella stessa epoca
in cui la crisi spirituale della maggioranza dei Paesi civili suscitò
un'intera ondata di rivoluzioni religiose. Si trattava di una svolta storica
dell'umanità cui si può paragonare solo la comparsa del cristianesimo. La
vecchia visione del mondo che metteva al centro di tutto il rito,
l'esorcismo, l'azione magica, cominciava a vacillare. Dalla Cina all'Italia,
per tutto il mondo comparvero
dei grandi maestri dell'umanità,
che cercavano di offrire nuove risposte alle più scottanti questioni della
vita e della fede. Gli autori dell'Upanishad, Buddha, Mahavir, Lao-Tze, Confucio, Zarathustra,
i filosofi greci: furono questi saggi a dare al mondo una formazione
spirituale prima della venuta di Gesù di Nazareth. Essi furono certamente i
suoi precursori, benché da un punto di vista strettamente teologico non
possiamo usare questa parola che per i profeti di Israele. Molte caratteristiche comuni apparentano i
profeti di Israele con i grandi maestri d'Oriente e d'Occidente. Anch'essi
come gli asceti indiani, sapevano che Dio, in quanto sorgente assoluta
dell'Essere, oltrepassa tutto ciò che è terrestre- come il saggio persiano Zarathustra, lo proclamavano Luce e Bene perfetto; come
Eraclito, lo contemplavano come forza dinamica, simile al fuoco; come Anassagora e Platone, vedevano in lui l'Intelletto di
tutte le cose, la Sapienza del mondo. D'altra parte, pero, i profeti erano
lontanissimi dal considerare con Buddha la vita
terrestre come un male e una dolorosa illusione; a differenza dei filosofi
greci della scuola eleatica, essi non ritenevano
che il Creatore e il reale fossero un'unica entità inscindibile . Affermavano
invece che Dio, pur nella sua maestà, è legato alle creature da vincoli
d'amore, e che l'uomo è il suo eletto a cui Egli si rivela. Ciò che è più misterioso nei profeti è
l'ispirazione. Essi non costruivano delle ipotesi, non cercavano di creare
dei sistemi speculativi. Con le loro labbra Dio stesso annunziava
direttamente la sua volontà. Abitualmente i discorsi dei profeti cominciavano
con le parole: «Così dice JHWH». Lo spirito divino si impossessava di loro
con una forza che li conquistava, e la gente era attenta a ciò che essi
dicevano come alla voce stessa di Dio. Questo miracolo stupiva gli stessi
profeti; succedeva persino che essi non capissero fino in fondo ciò che Dio
rivelava attraverso di loro. Essi si sentivano strumenti, araldi e
inviati dell'Onnipotente. Nello stesso tempo, però, non assomigliavano
affatto ai vati pagani del tipo delle pizie che profetizzavano in stato d!
eccitazione e di inconscio delirio. Nell'esperienza dei veggenti della
Bibbia, è sempre uno spirito umano equilibrato e luminoso
a porsi di fronte all'Essere Supremo che si rivela come Persona. Dio parlava al mondo, ed attendeva da esso una risposta.
Si compiva così nella persona dei profeti l'unione della creatura col
Creatore, si realizzava quella alleanza che era la base della fede di
Israele. I profeti non solo vivevano l'incontro con
Dio nel profondo del loro essere, ma vedevano la sua mano nella vita dei
popoli. E ciò significava una scoperta unica rispetto alle altre religioni. Scrive lo storico inglese Christopher Dawson: «La legge
eterna che i greci ravvisavano nello sviluppo ordinato e nel movimento della
materia, per i giudei si realizzava nelle vicissitudini della storia umana.
Mentre i filosofi indiani e greci riflettevano sul carattere illusorio o
eterno dei processi cosmici, i profeti di Israele affermavano il fine morale
della storia e leggevano gli avvenimenti del presente alla luce del loro
rapporto con la volontà divina». Osservando i ritmi immutabili della natura
- l'alba e il tramonto, l'alternarsi delle stagioni o il movimento degli
astri -, la maggioranza dei filosofi dell'antichità era approdata alla
concezione del carattere ciclico dell'essere. Tutto, secondo tale teoria, si
muove come in un cerchio, tutto ciò che è già successo si ripeterà certamente
e niente può cambiare alla radice. Con la nascita, la morte e la
rigenerazione, l'universo e l'uomo sono presi in un vortice eterno. Agli
antipodi di questa convinzione, la Bibbia mostra che la creazione è orientata
verso l'alto, tende alla perfezione. E anche se insieme al bene crescono le forze
del male, alla fine dei conti queste saranno debellate e si aprirà al mondo
la via per il regno di Dio. In
altre parole, i profeti furono i primi a cui si svelò l'orientamento e il
senso della Storia. Grazie ai profeti la dottrina di Mosè
acquisì i connotati di una religione universale, che sorpassa del tutto gli
antichi culti nazionali. Secondo Pascal, unica
espressione della fede della Bibbia «deve essere l'amore per Dio; e Dio
giudica tutto il resto». Questo amore esigeva non tanto cerimonie, quanto senso
di umanità, benevolenza e giustizia. È per questo che la giustizia sociale
occupa nella predicazione dei profeti un posto così importante. I maestri di Israele, per quanto fossero
diversissimi per carattere, temperamento e estrazione sociale, avevano tutti
una caratteristica che li accomunava: l'inflessibilità nei confronti di quei
rinnegati, tiranni e ipocriti che speravano di «ingraziarsi» il Creatore con
sacrifici e doni. Ecco
sorgere il tonante Elia (850 ca.), difensore dei perseguitati e degli oppressi,
che senza alcun timore getta in faccia rimproveri e ammonizioni al re in
persona. Ecco il pastore Amos (770 ca.), uomo del
popolo, che non ama farsi chiamare profeta, ma che non può tacere quando il
Signore gli ordina di percorrere le città ed annunziare il giorno del
giudizio. Egli mette in guardia: che gli israeliti non facciano conto della
loro elezione; di essa saranno degni solo coloro che seguono la legge di
giustizia del Signore: «Non siete forse per me come gli etiopi, voi, figli di
Israele? -, dice JHWH. - Non ho forse fatto uscire Israele dall'Egitto così
come i filistei da Caftòr e i siriani da Kir?». Ecco Osea (750 ca.), che piange la
decadenza spirituale del regno del Nord. Egli
annunzia che l'amore tra le persone e più gradito a Dio dei più sfarzosi
rituali: «Misericordia io voglio, non sacrifici» -, dice il Signore
attraverso di lui. Ecco Isaia, cittadino di Gerusalemme di
nobile origine, consigliere influente del re (730 ca.). Egli non si lascia
ingannare dallo splendore apparente della corte, le folle che riempiono il
cortile della casa del Signore non lo convincono- Né l'incenso, né le
preghiere possono sostituire la purezza del cuore e la giustizia degli atti. «A che mi servono i vostri numerosi
sacrifici? -, dice JHWH - Quando vi presentate davanti al mio volto, chi
esige da voi questo? Smettete di calpestare i miei atri, non offritemi più sacrifici inutili! Allontanate dai miei
occhi le vostre malefatte, smettete di fare il male, imparate a fare il bene;
cercate la giustizia, trattenete il violento, proteggete l'orfano, difendete
la vedova». I profeti sono stati spesso considerati
come degli utopisti sociali. In realtà essi non propugnarono nessuna riforma
politica. Se infatti Platone ha teorizzato un regime con la comunione dei
beni e un controllo del governo su tutte le sfere della vita, e il filosofo Gìàmblico sognava
la città del Sole dove tutti sarebbero stati uguali, i profeti invece
mettevano al primo posto la fede e i compiti morali dell'uomo. Essi sapevano
bene che non bastano i cambiamenti esteriori, che l'armonia del mondo non è
possibile che come risultato dell'armonia tra la volontà di Dio e quella
degli uomini. Ma proprio per questo i profeti
rifiutavano di chiudere gli occhi davanti alle piaghe della società in cui vivevano.
La loro appassionata protesta era dettata dalla fede nella grandezza della
vocazione dell'uomo. Essi annunciavano il «giorno del Signore» in cui finirà
il regno del male tra gli uomini. Isaia
vide con gli occhi dell'anima l'unto del Signore attraverso il quale Colui
che è avrebbe stabilito il suo regno. Allora tutti i popoli avrebbero conosciuto la verità
eterna e abbandonato gli idoli e i peccati; Dio «tergerà ogni lacrima» e la
terra ridiverrà l'Eden. Il profeta Geremia (630 ca.) collegava la fine del
vecchio mondo con una Nuova Alleanza, che non sarebbe più stata incisa su
lastre di pietra, ma nel cuore degli uomini. ---------- Questa attesa escatologica dei profeti
rinforzò in loro il senso di responsabilità nei confronti del proprio popolo.
Esso aveva ricevuto la rivelazione, perciò i suoi peccati erano doppiamente
gravi; ad esso era stata affidata la missione di portare tutta l'umanità a
Dio, ma se gli eletti si rivelavano indegni avrebbero perduto la protezione
celeste. Sarebbero venuti i pagani dai Paesi più lontani a distruggere il
regno di Israele e quello di Giuda. Queste funeste profezie ben presto si
avverarono: nel 772 il regno ebraico del Nord fu cancellato dalla faccia
della terra dagli assiri, e nel 586 il re dei caldei Nabucodonosor II prese
d'assalto Gerusalemme, bruciò il tempio e deportò la maggioranza della
popolazione giudea in Babilonia. Una simile catastrofe avrebbe potuto
portare alla scomparsa totale di Israele e della sua religione. Ma ciò non
accadde. Il lievito dei profeti era così potente che anche lontani dalla
patria i giudei continuarono a sentirsi il popolo di Dio. La prova servì a
rafforzare nella gente il sentimento della penitenza, e fu proprio da allora
che le seduzioni dei pagani non ebbero più su di loro un cosi grande potere.
I profeti che vissero tra il popolo esilialo, Ezechiele (580 ca.) e il Deutero-Isaia (550 ca.), proseguirono l'opera dei loro
predecessori: predicavano nelle case di preghiera, colloquiavano col popolo,
scrivevano libri. Sotto la loro influenza i giudei pian piano si
trasformarono in una comunità compatta, la chiesa dell'Antica Alleanza. Mezzo secolo più tardi, la prigionia sulle
rive dei fiumi di Babilonia ebbe termine, poiché la Caldea
fu conquistata dai persiani. Nell'anno 538 il re Ciro, fondatore del più
grande impero d'Oriente, concesse a tutti gli stranieri deportati in
Babilonia di far ritorno alle loro terre. Ispirati dai discorsi dei
predicatori, molti giudei ritornarono alla terra dei padri. Ma i sogni arditi
degli entusiasti, che immaginavano che i giorni del Messia sarebbero arrivati
subito, si scontrarono con la cruda realtà: al posto del gran regno di
Israele che avevano lasciato era stato formato un piccolo principato
sottomesso alla Persia, comprendente solo Gerusalemme e i suoi dintorni. La
fortezza di Davide era ridotta a un cumulo di rovine, e presto i nuovi
arrivati si ritrovarono a vivere in miseria. Il tempo dei profeti era ormai passato,
ora si doveva imparare a vivere secondo i loro consigli, ma nessuno aveva ne
forze, ne energie, ne speranze nel futuro. Quando da Babilonia giunse il
sacerdote Esdra, trovò il tempio ricostruito alla bell'e
meglio e il popolo in uno stato di totale apatia spirituale. Ma Esdra aveva portato con sé il testo
completo della Legge di Dio, detto Torah, una
raccolta di cinque libri (in greco Pentateuco}
attribuiti a Mosè. La Torah
deriva dai dieci comandamenti del profeta, completati nel corso dei secoli
dai sacerdoti che mettevano per iscritto la tradizione orale e le regole
risalenti al tempo di Mosè e che inclusero nel libro alcune norme liturgiche.
D'ora in poi essa sarebbe stata l'unico
codice religioso, morale e civile di Israele. Temendo però l'influenza dei vicini popoli
pagani, Esdra e i suoi successori, i dottori della legge, studiarono il modo
di isolare i giudei dagli altri popoli; l'osservanza ligia del sabato, le
limitazioni alimentari e le altre norme perseguivano lo stesso fine: quello
di salvaguardare la fisionomia della comunità. A prima vista si ha l'impressione che i
dottori della legge abbiano soffocato l'eredità dei profeti sotto il peso di
un'infinità di piccole prescrizioni. Il tempo tuttavia ha mostrato che le
loro drastiche misure di segregazione erano giustificate: fu infatti proprio
grazie a questa impenetrabile corazza di precetti che la religione della
Bibbia uscì integra dalla battaglia che dovette sostenere in Palestina sotto
il re greco Antioco Epifane. A quell'epoca,
già da tempo la Grecia non era più la terra della democrazia: quest'ultima, infatti, era stata vinta dalla lotta tra le
fazioni, le guerre e le discordie. Dappertutto il popolo aspirava a un forte
governo centralizzato. Perciò, quando nel IV secolo a.C. Alessandro il
Macedone si autonominò monarca, egli non fece altro
che portare a compimento il processo che era cominciato già un secolo prima. Per conferire al potere regale la massima
autorità, Alessandro si fece aggiungere al novero degli dèi. Così pure fecero
i suoi successori, e uno di questi era appunto Antioco IV Epifane,
che regnò dal 175 al 163. Questo monarca, che veramente presumeva di essere
un superuomo, voleva riunire i popoli a lui sottomessi inculcando a tutti la
civiltà ellenistica col suo stile, i suoi gusti e la sua religione. L'impresa
di Antioco
non aveva incontrato ostacoli, ma ecco che la fede di Israele divenne per lui
pietra d'inciampo. Il clero regolare, i dottori della legge e
il popolo in principio non gli facevano che una resistenza passiva, ma non
appena egli profanò il tempio facendovi costruire un altare a Zeus, e
cominciò a infondere il politeismo con la violenza, il popolo insorse.
L'insurrezione ben presto divenne una guerra di liberazione nazionale che fu
portata avanti da Giuda Maccabeo, condottiero della
stirpe degli Asmonei. Negli anni della lotta, ancora una volta
risuonò la parola profetica; un ignoto veggente che si nascose dietro il nome
di Daniele scrisse un libro in cui stigmatizzava la tirannia e le
persecuzioni religiose. L'autore ha rappresentato le grandi potenze sotto le
spoglie di belve fameliche e ha predetto che verrà l'ora in cui scenderà dal
ciclo un Salvatore che porrà fine agli imperi di queste belve. A differenza
dei reggenti di questo mondo, rappresentati come mostri, il Messia, secondo
Daniele, sarà simile a un uomo, a un figlio
dell'uomo. Questo contrasto indica il cambiamento totale che aspetta il
mondo. Tale nuova ondata di ispirazione fece
miracoli. Maccabeo inflisse all'esercito di Antioco
una serie di duri colpi, liberò Gerusalemme dai nemici e buttò fuori dal
tempio l'altare pagano o, come dicevano i giudei, «la porcheria». Quando
Giuda Maccabeo morì in battaglia, la sua causa fu
portata avanti dai fratelli. Infine, nel 140, Simone Asmoneo
divenne re-sommo sacerdote e fu incoronato. Israele ottenne così
l'indipendenza e ristabilì le frontiere che aveva avuto al tempo di Salomone. Cosi pure si rafforzarono le comunità al
di fuori dei confini dello stato, le «chiese della diaspora», che ebbero il
ruolo di anello di congiungimento tra il popolo eletto e il resto del mondo,
furono gli ebrei della diaspora a tradurre per primi la Bibbia in lingua
greca. Al tempo della nascita di Cristo dei quattro milioni di ebrei, quasi
tre milioni vivevano in terra straniera. Più tardi l’esistenza in tutto il
mondo di questi focolari ebraici renderà un servizio importantissimo agli
apostoli del cristianesimo. ---------- La dinastia degli Asmonei
non riuscì comunque a soddisfare le aspettative del popolo: troppo presto i
nuovi re divennero dei mediocri despoti, che non tenevano in alcun conto la
Legge di JHWH. L'arbitrio dei nuovi signori provocò l'allontanamento dei
fedeli più zelanti dalla casa regnante. Inoltre, la tradizione voleva che
fossero monarchi in Israele solo i discendenti di Davide, e di conseguenza
gli Asmonei non erano sopportati che come reggenti
temporanei, Anima dell'opposizione alla corte divenne
un gruppo di persone devote che si chiamarono farisei, i «separati». In principio essi tentarono di rovesciare
la dinastia regnante, ma la loro rivolta fu soffocata spietatamente, e
centinaia di farisei furono messi in croce dal re Alessandro Janneo. Dopo la morte di quest'ultimo,
la posizione dei farisei si rafforzò. Essi tuttavia col tempo si
allontanarono sempre più dalla vita politica e si dedicarono unicamente ad
attività religiose; molti di loro divennero commentatori della Legge e
rabbini, maestri. Nelle scuole e nelle sinagoghe i farisei svolgevano il
difficile e fondamentale lavoro di rafforzare nel popolo le basi della fede e
della morale. L'incondizionata donazione a Dio, i legami familiari saldi, la benevolenza,
l’amore per la libertà e la giustizia: tutto ciò fu inculcato al popolo dai
migliori rappresentanti della corrente dei farisei, tra i quali il più
illustre fu il saggio Hillel, che giunse a
Gerusalemme intorno al 40 a.C. Egli sosteneva che il senso della Legge è
contenuto nella regola d'oro: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse
fatto a te, e considerava tutto il resto «commento» a questa norma. Tra i dottori della legge vi era anche
un'altra corrente capeggiata dall'avversario di Hillel,
Shammaj. Se il primo accettava volentieri le
conversioni alla fede di Israele di persone di diversa etnia, l'altro le
respingeva con disprezzo. Shammaj attribuiva un'importanza fondamentale a
quella che definiva la «tradizione dei padri», e i suoi discepoli amavano
aumentare il numero delle prescrizioni cultuali e fare sfoggio della propria
devozione. I farisei erano molto stimati dal popolo;
invece i sadducei,
l'aristocrazia sacerdotale in stretto legame con la corte, erano loro avversi
e non ne condividevano molte posizioni. Contrariamente ai farisei, i sadducei ritenevano che per l'uomo tutto finisse con la
morte, riconoscevano solo il Pentateuco e ritenevano secondari gli scritti
dei profeti. Gente ricca e superba, i sadducei non
prestavano particolare attenzione alle profezie riguardanti il Messia ed
erano decisamente orientali verso le cose di questo mondo e la politica. Contemporaneamente alla confraternita dei
farisei, attorno al 160 in Palestina comparve una sorta di ordine monastico chiamato
i «figli della luce», o esseni. Non volendo aver a che fare col mondo, fonte di
peccato, gli esseni si ritiravano nel deserto per
vivere in solitudine. Verso l'anno 140 il loro capo, che chiamavano «maestro
di giustizia», fondò una colonia sulle rive del Mar Morto, a Qumran. Là,
lontani dalla vanità del mondo, gli esseni vivevano
e lavoravano in comune, e passavano il tempo libero dal lavoro in pasti
rituali, preghiere e letture della Bibbia. Nelle loro comunità, che in totale
contavano fino a quattromila persone (cifra più che notevole per un piccolo
paese), confluivano sognatori
di ogni sorta, persone deluse e stanche della vita. La maggior parte degli esseni osservava la castità, alcuni invece conducevano
una normale vita familiare. Convinti assertori della venuta imminente
del Cristo, i «figli della luce» si preparavano ad accoglierlo degnamente ed
erano persuasi che nel giorno del giudizio tutti sarebbero andati incontro
alla morte, eccetto loro. Gli attacchi ostili dei membri della setta
contro la dinastia Asmonea procurarono delle
persecuzioni al «maestro di giustizia». I suoi accoliti dicevano che l'ira
divina si sarebbe scagliata sulla casa reale per vendicare queste
persecuzioni. Tale vaticinio degli esseni si compì
mezzo secolo dopo la morte del loro capo spirituale: nell'anno 63 la
Palestina fu occupata dalle schiere di Pompeo, il quale la annetté
all'impero, non lasciando a Ircano II che un potere
irrisorio. Nel 40, poi, il senato romano conferì il titolo di re della Giudea
al condottiero idumeo Erode, che, dopo una guerra
civile di tre anni, sali al trono di Davide. ---------- Intanto gli ebrei della diaspora
continuavano ad assorbire e fare propri molti elementi della cultura greca. I
più colti cercavano di conciliare la filosofia classica con la Bibbia. Molto
in questa direzione operò Filone di Alessandria, contemporaneo di Erode. Egli
parlava della forza divina che, seguendo i pensatori ellenici, definiva
Logos, cioè Verbo, Parola. Il mistero della divinità, diceva Filone,
è incomprensibile e ineffabile, ma quando la divinità manifesta la sua
potenza e la sua bontà, lo fa attraverso la Parola. Con la Parola l'Essere
crea e sostiene l'universo, nella Parola si manifesta ai mortali. Questo
concetto di Filone della Parola come intermediario tra il Creatore e il
cosmo, aiuterà in seguito a formulare le verità del vangelo nella lingua
della filosofia. L’avvicinamento di questi ebrei al mondo
ellenistico fece sì che molti pagani si interessassero alla religione di
Israele. Il rifiuto dell'idolatria, una sana moralità, il vivo sentimento
religioso dei giudei fruttarono loro le prime conversioni. Cominciavano così
a realizzarsi le parole dei profeti circa il fatto che i popoli pagani un
giorno si sarebbero rivolti al Dio della verità, del bene e della giustizia.
In diversi luoghi la parola «giudeo» cominciò a designare la confessione
religiosa piuttosto che l'appartenenza etnica. Così nel II, e soprattutto nel I secolo
a.C. i proseliti, cioè quelle persone che avevano abbracciato il giudaismo,
comparvero in grande quantità in diverse regioni dell'impero romano. Molti di
costoro si erano convertiti sotto l'influenza degli scritti della veggente
greca Sibilla. Questo nome era in realtà uno pseudonimo che usavano i
missionari ebrei dell'Egitto; essi annunciavano la fine del mondo come
castigo divino per il fatto che la gente era caduta in balìa degli idoli e
dei despoti. Di bocca in bocca correva la notizia che dalla Giudea sarebbe
venuto un uomo destinato a diventare signore dei popoli. Intanto, però, il potere mondiale in
realtà si concentrava sempre più nelle mani dei romani. La trasformazione di Roma in un impero era
cominciata pia attorno all'anno 200 a.C., dopo la
vittoria definitiva sul suo più temibile avversario, la città di Cartagine. La potenza militare però si era rivelata
fatale per l'assetto repubblicano della stessa Italia. Ormai troppe erano le
terre da mantenere in soggezione, e l'esercito era diventato troppo influente
perché le strutture democratiche della gestione dello stato potessero mantenersi.
A furia di promesse, costrizioni e corruzioni, i vari dittatori avevano man
mano reso vane la maggior parte delle libertà politiche. La repubblica era
ormai soffocata e Roma andava a vele spiegate verso la tirannia. Dopo le guerre civili e il terrore degli
insanguinati anni 30 a.C., Ottaviano Augusto,
nipote di Giulio Cesare, non ebbe difficoltà a stabilire il regime
assolutistico. Secondo quanto dice Tacito, Augusto, «facendosi chiamare
console ed accontentandosi apparentemente del potere di tribuno per difendere
i diritti del popolo, dapprima conquistò il favore dell'esercito con vari
doni, quello della gente semplice con le distribuzioni di pane e quello di
tutto il popolo con le mollezze del mondo, per poi, acquistate sempre
maggiori forze, sostituirsi al senato, alla magistratura e alle stesse
leggi». Già Giulio Cesare aveva proibito le
organizzazioni e unioni di ogni sorta, comprese le più inoffensive; il regime
di Augusto, poi, introdusse un controllo continuo e totale della popolazione.
A dispetto delle sue ostentate arie di democratico, Ottaviano vigilava
attentamente su ogni possibile focolaio di malcontento e in ciò si serviva di
una fittissima rete di spie. Molti, comunque, ritenevano che
l'assolutismo non fosse altro che il prezzo ragionevole della tranquillità,
della stabilita politica e della durevolezza della pace mondiale. Il tempo di
Augusto fu considerato come il periodo di maggior splendore per Roma, il
secolo d'oro della sua cultura. Fu infarti sotto Augusto che il Campidoglio si
levò con fierezza sul mondo intero, suscitando dappertutto venerazione e
terrore. L'aquila romana estese le sue ali dall'Atlantico al Medio Oriente,
dalla Britannia alle coste dell'Africa, e la città
sui sette colti divenne davvero quel centro a cui «portavano tutte le
strade». La perfezione dell'arte militare,
l'organizzazione e la disciplina valsero ai romani la posizione di padroni
indiscussi del Mediterraneo. I funzionari dello stato portavano via dai Paesi
sottomessi immense ricchezze che convergevano a Roma da tutti gli angoli
della terra: schiavi, avorio e belve per il circo dalla Numidia,
marmo dalla Grecia, grano dall'Egitto, vetro e porpora dalla Fenicia.
Carovane di mercanti recavano tappeti, tessuti e pietre preziose da
Babilonia, dall'Arabia, dall'India, perfino dalla Cina. Roma fu completamente
ricostruita, al punto che si diceva che a Cesare fosse stata consegnata di
pietra per lasciarla poi di marmo. Ottime strade collegavano Roma alle
regioni più lontane dell'impero, e ciò favorì lo sviluppo del commercio e,
contatti con le province. L'uguaglianza giuridica di tutti coloro che erano
divenuti cittadini romani permise l'avvicinamento di popoli d'Oriente e
d'Occidente. Insomma, si sarebbe potuto dire che il sogno degli stoici di uno
stato unitario in cui ogni uomo è cittadino del mondo, stesse giungendo a
compimento. Non fa dunque meraviglia il fatto che i
poeti di corte esaltassero la persona di Augusto e non lesinassero i
panegirici. D'altronde, lo stesso Cesare incoraggiava gli adulatori e
sosteneva con tutti i mezzi la propria autorità. Pian piano, a partire dalle
province orientali, cominciò a diffondersi il culto dell'imperatore, e ben
presto in tutto l'impero sorsero templi dedicati ad Augusto. Dappertutto all'imperatore
so cantavano inni sacri, lo si nominava «padre della patria» e soter,
salvatore delle nazioni. Questo spettacolo dell’ascesa di un impero
con a capo un uomo-dio impressionava fortemente la gente dell'epoca; non per
niente si parlava di «regno indistruttibile», stabilito per tutti i secoli.
Per i popoli sottomessi, però, questa prospettiva era tutt'altro
che rosea; non volevano arrendervisi, e alla fine
del regno di Augusto vari disordini si verificarono in molte province in cui
si guardava a Roma come a un oppressore.
I giudei credevano che Roma, la belva apocalittica sarebbe presto caduta ad
opera della spada del Messia. ---------- I successi militari non evitarono a Roma
pesanti conflitti interni. I possedimenti terrieri e le finanze si concentravano
sempre più nelle mani di un'oligarchia; da tutta l'Italia, folle di contadini
caduti in miseria si riversavano nell'Urbe, dove vivevano di espedienti e
sussidi dello Stato. Le lunghe guerre inondarono letteralmente la capitale di
schiavi (ve n'era più di un milione), che spesso fomentavano le insurrezioni,
cercando a ogni costo di poter fare ritorno ai propri lidi. Questi vani
tentativi, però, si concludevano puntualmente con spietate repressioni; fu
così che dopo i massicci disordini dei gladiatori capeggiati da Spartaco,
seimila ribelli furono crocifissi lungo la strada da Capua
fino a Roma. La crisi spirituale non era meno profonda.
Le antiche credenze e i miti ormai in tanti non suscitavano che ilarità; la
religione perdeva il suo significato e non era più che uno dei tanti doveri
civici. Cicerone, d'altronde, aveva pur detto che il culto ufficiale non
serve che a far rispettare l'ordine dalle masse. C’erano anche intellettuali che andavano
ancora più in là: il poeta Lucrezio vedeva nella religione un pericoloso
errore, e nel suo libro De rerum natura
ritornava al materialismo dei filosofi greci Democrito
ed Epicuro. Secondo la dottrina di questi ultimi,
l'universo non sarebbe altro che un fenomeno casuale, risultante dalla
combinazione accidentale degli atomi e destinato presto o tardi a scomparire.
Lucrezio vedeva già dappertutto i sintomi dell'autunno del mondo, preludio
della sua decadenza e fine. Idee simili si diffondevano largamente non solo
in Occidente, ma anche in India e in Cina. Ma la natura stessa del suo spirito non
permette all'uomo di arrendersi così facilmente a quest'idea
dell'insensatezza dell'essere; così, pur avendo perso la fede in tutto, la
gente rifiutava di vedere la vita come un lampo della materia, al quale
necessariamente avrebbero fatto seguito le tenebre. Ecco perché, quando
vennero a contatto con le religioni orientali, i romani ne provarono una
fortissima attrazione. L'Occidente fu letteralmente conquistato dai più vari
culti stranieri; la dea egiziana Iside ebbe le preghiere dei sudditi romani
dalla Britannia ai Balcani,
a Roma sorsero sinagoghe ebraiche, templi della dea-madre della Frigia Cibele, del dio persiano Mitra. Predicatori vaganti
annunciavano verità che giungevano dalle rive del Gange, dalla Partia, dall'Asia centrale; riebbero popolarità le sacre
rappresentazioni greche che promettevano ai partecipanti l'immortalità e la
conoscenza di mondi superiori. L'occultismo, l'astrologia, la magia e ogni
sorta di chiromanzia trovarono devoti accoliti in tutte le classi sociali; la
brama di mirabilia fece crescere le superstizioni e la ciarlataneria. A questo spettacolo, coloro che erano
propensi allo scetticismo dovettero perdere del tutto la speranza di
conoscere il senso della vita; giunsero certamente alla conclusione che
all'eterna domanda dell'uomo: «Che cos'è la verità?», non c'è risposta.
Insomma, lo sbaraglio delle idee era totale. Sotto uno stesso tetto potevano
convivere manìa di sensazioni mistiche e assoluto
agnosticismo, anelito alla purezza e sbandamento morale. Non erano rare le
famiglie in cui il padre si rinchiudeva in uno stoico disprezzo delle vanità
del mondo, la madre frequentava assiduamente riti notturni di settari, il figlio inventava sempre
nuovi tipi di piacere e cercava forti emozioni. ---------- L'uomo, insomma, era giunto a un bivio, e
da ogni direzione sentiva delle voci che lo invitavano: «Sii indifferente
alle gioie e alle tristezze della vita, immergiti nella meditazione» gli dicevano
i buddisti e gli stoici; «Vivi secondo natura come tutti gli altri esseri»,
insegnavano i filosofi cinici e gli epicurei; «La felicità è nel sapere e
nella meditazione», obiettavano gli empirici; «Purificati con riti segreti e
giungerai all'immortalità», assicuravano i vari occultisti; «Sii fedele al
Dio uno e rispetta la sua Legge», annunciava la religione di Israele. E
l'aquila romana, sempre alla ricerca della preda, planava su questo vortice
di spiritualità in cui, come nel caos primordiale, si mescolavano principi
contraddittori. Di tanto in tanto rinverdiva la speranza che sarebbe apparso
qualcuno che avrebbe fatto uscire l'umanità da questo labirinto. Il poeta
Virgilio preannunziava la nascita di un bambino che avrebbe dato inizio a una
nuova era di Saturno. I buddisti attendevano Buddha
Maitrya, gli induisti un'ennesima incarnazione del
dio Visnù, i persiani il Salvatore Saoshianta, i giudei il Messia... Di anno in anno, in Palestina l'attesa di
azioni divine si faceva più spasmodica. La gente sperava che stesse per
scendere dal ciclo il profeta Elia che doveva compiere l'unzione dell’Inviato
di Dio. Molti si immaginavano questo Inviato come un grande guerriero, che
avrebbe annientato i regni dei pagani; altri credevano semplicemente nella vittoria
finale del bene sul male, della luce sulle tenebre, dell'immortalità sulla
morte; credevano, insomma, che Dio avrebbe «visitato il suo popolo». Infine, quando tutto sembrava già compiuto
e finito, sul buio orizzonte della storia spuntò il chiarore del mattino. Nel
ventesimo anno del regno di Angusto, nel paesino di Nazareth, una fanciulla galilea si sentì dire: «Partorirai
un bambino e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande, sarà detto "figlio
dell'Altissimo", e JHWH gli darà il trono di Davide, suo padre. Regnerà
sulla casa di Giacobbe per sempre, e il suo regno non avrà fine». Tratto
da: Gesù Maestro di Nazareth - la storia che sfida il tempo di
Padre Aleksandr Men’ |