di mons.Antonio
Livi |
Se
una è |
Perché siamo cristiani piuttosto che musulmani o
buddisti? E perché non rifiutiamo l'idea stessa di religione e non ci
professiamo "laici", cioè (secondo l'uso
italiano corrente) miscredenti o atei? Siamo in un'epoca storica nella quale
la religione è divenuta per tutti un'opzione libera
(questo vuol dire, in politica, quella "libertà religiosa" che ogni
Stato dovrebbe garantire ai cittadini). Ma nessuna opzione
è libera se non è ragionata, se non è una scelta coscientemente motivata,
consapevole delle ragioni che ci sono per agire in tal senso. Ci devono
dunque essere delle ragioni per scegliere di essere
cristiani, e queste stesse ragioni sono quelle che giustificano la
nostra convinzione di non dover essere musulmani o buddisti, e tanto meno
atei. Per tutti noi credenti, il problema è di rimettere
costantemente in luce e rafforzare sempre più nella nostra coscienza le
ragioni della nostra fede, che altrimenti rischia di franare sotto l'impeto
delle ragioni (sofistiche) che militano a favore delle altre religioni o
della miscredenza. Si tratta, insomma, di proteggere e far crescere la
nostra fede con la meditazione e lo studio. Come ama ricordare un autorevole
teologo, che è anche vescovo ausiliare di Roma e rettore della
Università Lateranense, «la fede richiede la
fatica di uno studio costante e sistematico, perché il mistero che si ha di
fronte mette perennemente in gioco l'esistenza personale» (Pino Fisichella, Purtroppo,
nell'epoca in cui viviamo, caratterizzata dall'irrazionalismo (che influisce
anche nella coscienza di coloro che professano la
fede cristiana), si può costatare che ben pochi credenti si impegnano per il
necessario approfondimento delle ragioni della fede; allo stesso tempo, però,
se un adulto della nostra società multi-culturale e
multi-religiosa non si lascia trascinare dalla
deriva secolaristica, persevera nel professare la
religione cristiana e non si converte all'Islam, vuol dire che costui ha
fatto una scelta basata su un qualche motivo razionale, almeno implicito. Certamente,
l'impegno di coscienza con cui il soggetto si accinge alla conferma e
all'approfondimento di quelle che sono le ragioni della sua fede è di tipo
"spirituale", cioè morale; ma ciò non
toglie - anzi presuppone - che il suo assenso a una scelta religiosa sia
dettato dalla ragione, perché solo la ragione può fornire la certezza di
conoscere la verità. È impossibile professare e praticare la fede religiosa
se ci si lascia irretire dai sofismi del "pensiero debole": serve
proprio un pensiero "forte", capace di certezze fondate, perché
«nessuno [...] potrebbe
compiere un atto definitivo con il quale finalizzare tutta la propria
esistenza, fondandosi su una premessa che si manifesta provvisoria e incerta. L'esistenza
ne sarebbe segnata negativamente e si svilupperebbe all'ombra della
precarietà e, di conseguenza, del dubbio e dell'angoscia» (Pino Fisichella, op. cit, p. 197).
Il "pensiero debole" è una delle forme di irrazionalismo
che minacciano la vita intellettuale dei cristiani, riducendola a mero
"fideismo". Giovanni Paolo II ci ha avvertiti
che una presentazione del cristianesimo di stampo fideistico
«ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il rischio di non
essere più una proposta universale. È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; al
contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione»
(Fides et
ratio, 14 settembre 1998, § 48). |
È
vero che l'uomo di oggi, nell'Occidente
secolarizzato, si trova dinanzi allo spettacolo di una civiltà costruita
sulla fuga da Dio: una civiltà nella quale però il processo di
secolarizzazione è frenato dalla sempre nuova gioventù della Chiesa, che nei
suoi santi - Pastori e laici - testimonia la vitalità soprannaturale del
cristianesimo; una civiltà, inoltre, nella quale l'Islam si fa presente in
forme spesso violente e comunque multitudinarie. Ci
si trova dunque di fronte alla scelta tra la miscredenza e la religione; poi,
nel caso che si scelga giustamente di professare una religione (perché
l'ateismo è irrazionale, e il senso comune rende tutti gli uomini intimamente
convinti che Dio c'è e che bisogna dargli culto), ci si trova di fronte a
diverse religioni, o meglio diversi modi di
esprimere il culto alla divinità. Quale scegliere? Anche
qui l'unica via da percorrere è la via della ragione, che porta a capire che a una sola religione
si può attribuire il titolo di vero culto. Infatti,
se una è Ma come fa un uomo del nostro tempo a riconoscere il vero culto
fra i diversi culti dei quali viene a conoscenza? Certo, un culto religioso viene normalmente appreso attraverso strutture sociali che
precedono la verifica della ragione, e non si deve sottovalutare il peso
esercitato dalle tradizioni, dagli strumenti di diffusione della cultura di
massa e dall'autorità morale dei genitori e degli insegnanti. Ma anche queste
sono vie della ragione, perché poi, in definitiva, tutto ciò viene a essere la materia prima di un processo di libera
assunzione di responsabilità personale. La vera e matura opzione
religiosa - che accetta alcune proposte e ne rifiuta delle altre - nasce
nell'intimo della coscienza personale, e sopravvive solo se le ragioni di
quella scelta sono di volta in volta convalidate. Ogni uomo, prima o poi, si rende conto del fondamentale dovere di
ricercare personalmente il vero culto di Dio, verificando razionalmente la
validità del proprio credo o della propria miscredenza. È questo
- anche se molti non ci hanno mai pensato - il contenuto del primo
comandamento del Decalogo, che esprime innanzitutto la legge naturale, quella
che Dio ha impresso nella coscienza di ogni uomo. La legge naturale prescrive
che si riconosca Dio come creatore e come Padre,
come legislatore e giudice, tributandogli il giusto culto. E
ciò comporta il discernimento della vera religione. |
Ora, il cristianesimo si presenta appunto
come la vera religione: non solo una
vera religione (nel senso che realizza l'essenza della religione) ma proprio la vera religione, l'unica che Dio
abbia rivelato come parte integrante del suo piano di salvezza. Il cristiano deve rendersi conto che il
cristianesimo, rispetto alla legge naturale prescritta dal Decalogo, è una
religione sublimante, mentre tutte
le altre religioni risultano deformanti, sia pure in diversa misura. Nelle altre religioni la
ragione è in grado di rilevare qualche sostanziale contraddizione con
l'essenza della religione, e pertanto con la legge naturale: è il caso di
talune erronee concezioni di Dio (politeismo, panteismo), o del manifesto
disconoscimento della pari dignità di tutti i figli di Dio (discriminazioni
tra gli uomini a motivo della razza, dell'etnia, del
sesso, del censo), o dell'identificazione del potere religioso con il potere
politico, o dell'uso della violenza per la propria espansione territoriale.
Nessuna contraddizione si può rilevare invece nella religione rivelata, che
anzi sublima ogni dettame della coscienza umana, perfeziona ogni qualità della natura umana e infine la eleva alla
partecipazione della stessa natura divina. L'evidenza di ciò la si ritrova innanzitutto nella dottrina cristiana, che
ogni fedele dovrebbe conoscere adeguatamente (per questo Giovanni Paolo II e
il suo successore Benedetto XVI hanno dato tanta importanza allo studio del Catechismo della Chiesa Cattolica). Ma
questo è solo il primo passo; poi occorre arrivare alla certezza che tale
sublime religione è davvero rivelata da Dio, e che è l'unica a essere rivelata in modo definito e direttamente da Dio
stesso, attraverso l'incarnazione del Figlio suo. Questo è così importante
che Dio ha voluto - come insegna il concilio
Vaticano I - aiutare la nostra fede non solo con le «mozioni inferiori dello
Spirito Santo», ma anche con «prove e segni esterni» capaci di fondare una
conoscenza oggettiva e comunicabile. I procedimenti della grazia che opera
nel segreto dei cuori non sono visibili; lo sono invece i segni esteriori, e
su di essi può e deve pronunciarsi la ragione,
proprio per consentire a Dio di attuare i suoi disegni di salvezza mediante
il Vangelo. Contro la deriva fideistica, è
necessario ribadire la razionalità dell'atto di fede
(cfr Antonio Livi, Razionalità della fede nella Rivelazione,
Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2005). Ciò significa che l'uomo deve
rispondere alla rivelazione divina esercitando la funzione critica della sua
ragione, ossia verificando di persona, attraverso i segni e le prove fornite
da Dio stesso, la credibilità della testimonianza (la sua
non-contraddittorietà, alla luce delle leggi metafisiche e logiche), e prima
ancora la credibilità del testimone. Nella Scrittura questo contesto razionale è costantemente enunciato: si pensi a
come l'apostolo Paolo si presenta a coloro dai quali si aspetta una risposta
di fede: «In mezzo a voi si sono compiuti i segni del vero apostolo, in una pazienza a tutta prova, con
segni, prodigi e miracoli» (2 Cor
12, 12). Sempre in riferimento alla testimonianza
degli Apostoli, {Eb
2, 4). Ecco dunque quelli che tecnicamente si chiamano "motivi di credibilità" e che motivano la certezza di essere
proprio di fronte a una rivelazione divina, proposta da un uomo che parla in
nome di Dio (il "profeta") o addirittura da Dio stesso fatto uomo
(il "Verbo incarnato"). I "motivi di credibilità"
non hanno carattere metafisico, bensì storico-empirico; ma determinati eventi
storici possono servire come prova della divinità del cristianesimo solo se
interpretati alla luce dei princìpi metafisici,
ossia in definitiva alla luce dei "praeambula fidei". Ciò riguarda la credibilità dei profeti dell'Antico Testamento, poi le
prove della divinità di Gesù, e infine i segni della presenza viva di Gesù
nella storia (indefettibilità e santità della
Chiesa); infatti, anche se tali segni sono sperimentati empiricamente nelle
vicende storiche, essi sono indizi della presenza di Dio proprio perché
presuppongono la certezza che ci sia un Dio creatore, il solo che possa
santificare gli uomini e il solo che possa inoltre operare miracoli, cioè
interventi di carattere creativo. • |