Varazze, chiostro di S. Domenico, 11 luglio 2003

QUANDO L’EUROPA NON ERA ANCORA DA FARE

Prof. Vittorio Mathieu, Accademico dei Lincei

 

Ringrazio molto vivamente di avermi dato l’occasione di tornare nella mia città natale. Questa mattina passeggiando per le strade di Varazze pensavo che, se un pirata della strada mi avesse travolto, nelle enciclopedie ci sarebbe scritto “nato a Varazze il 12 dicembre 1923… morto ivi il…”, e la gente penserebbe che non sono mai uscito di casa, invece non è così!

Riprendendo il tema della discussione di questa sera, che non posso sviluppare a sufficienza, avete capito di cosa vorrei parlare già a partire dal titolo “Quando l’Europa non era ancora da fare”: oggi invece l’Europa è da fare, e non sappiamo assolutamente come farla. Riferiamoci a quell’epoca lontana in cui Jacopo da Varagine scriveva la sua “Legenda Aurea  e vediamo in che senso si potesse parlare in allora di Europa: non certamente di una unità politica operativa e attuata, ma certamente invece di una unità culturale dalle radici lontane. Nel mio libro “Le radici classiche dell’Europa”, sostengo che l’Europa sia nata con lo spirito di avventura dei Germani arrivati dalla lontana Asia; scesi nell’Europa mediterranea incontrarono una esperienza per loro stranissima: la stabilità del Senato Romano. Il Germano è abituato ad andare, ad andare, ma arrivato da noi trova qualcosa di fisso e stabile: ne scaturì una specie di simbiosi, di matrimonio tra questi due spiriti diversi. Certamente lo spirito dell’avventura risale secondo me ad Ulisse e da questi è passato ad Alessandro Magno tramite Aristotele ed è stato impersonato nella vita di tutta la comunità in Europa.

 Da una parte anche quando Roma diventa un villaggio di pastori, resta sempre, simbolicamente, un centro ideale, fisso e stabile. Per contro gli altri popoli sono estremamente mobili. Per esempio i Vichinghi, i quali scoprirono l’America prima di Colombo, trovandosi di fronte al confine rappresentato dall’oceano mettono in mare i legni e le navi e vanno: in fondo se fino al 1945 l’atlante era in gran parte colorato di rosa, cioè dei possedimenti coloniali della Gran Bretagna, questo è dovuto al fatto che la spinta migratoria di origine vichinga è stata trasmessa agli inglesi tramite i Normanni. Questi ultimi, che arrivarono anche nell’Italia meridionale, avevano come obiettivo quello di conquistare il mondo senza perdere un qualche centro, un punto di riferimento, fino al trattato di Westfalia. In fondo, però, l’unico Stato nel senso moderno della parola, fu quello della Santa romana Repubblica. Inventato senza dubbio dai romani, fu ereditato dai cristiani romani (molto meno dai cristiani orientali) al punto che quella di “Sommo Pontefice” divenne una carica cristiana e che i templi dedicati a Giove vennero intitolati al Deus Optimus Maximus: ancora Dante chiama Gesù Cristo “O sommo giove che fosti in terra fra noi”. C’è questa continuità culturale che porta fino al tempo di Jacopo da Varagine, concretizzata nel medioevo in una lingua unitaria, anche se parlata soltanto dai dotti. Non c’era invece unità politica, che era soltanto ideale, perché lo stato era sì uno solo, ma estremamente frammentato, dove chi operava localmente era un feudatario, cioè un funzionario statale che però dirigeva personalmente tutti i suoi cittadini: ne abusava, ma anche li proteggeva e li conosceva. L’Europa era una in questa estrema frammentazione. A ben vedere Italia e Germania, le nazioni che si sono unificate più tardi (nel XIX secolo), erano sede di due poteri universali: l’Impero e la Chiesa; mentre gli stati nazionali quali Francia, Spagna, Portogallo, si erano formati prima, in Italia e Germania ci fu questa tendenza dispersiva proprio perché c’era questa universalità del principio. Ora ci troviamo di fronte a una situazione che non sappiamo su che strada indirizzare; dico ci troviamo non perché la cosa ci riguardi personalmente, ma certamente riguarda i costituenti europei nostri rappresentanti, che stanno cercando di varare una carta, la quale non ho ancora avuto modo di studiare. Le carte costituzionali non sono molto operanti, ma spesso espressione di desideri e di diritti programmatici. Per esempio la costituzione italiana sancisce il diritto ad avere una casa, un lavoro: ma chi ha il dovere di dare una casa? e quale casa? chi ha il dovere di dare un lavoro? e quale lavoro? non viene detto e non è facile dirlo… Anche lo stato: come definirlo? lo stato siamo noi…

D’ altronde non si può non essere scettici sulle carte costituzionali se si pensa alla Costituzione emanata da Stalin negli anni ’30. Essa è la Costituzione più liberale che sia mai stata scritta (più ancora di quella successiva, dove già erano presenti alcune restrizioni). In essa non sono presenti alcun tipo di riserve: dato che i cittadini non potevano possedere capitali, veniva loro riconosciuto il diritto di chiedere allo Stato Sovietico le sovvenzioni per protestare contro il sistema sovietico stesso: questa è la costituzione di Stalin! Nessun’altra costituzione è mai stata altrettanto liberale. Evidentemente è rimasta sulla carta.

Ovviamente noi non ci auguriamo che la Costituzione Europea resti semplicemente un elenco di pii o empi desideri, ma indichi il modo di darne attuazione. Una delle questioni su cui anch’io sono stato chiamato a pronunziarmi è il riferimento alla radici classiche e cristiane dell’Europa. In un discorso al Campidoglio ho sostenuto che proprio perché gli Stati europei e l’Unione europea possano essere laici, cioè non pregiudicati da una fede necessaria, devono rivendicare le loro radici cristiane, cristiane in particolare romane, quindi diciamo pure cattoliche. Questo proprio per liberarsi da qualsiasi tentazione di fondamentalismo, oppure di un egualitarismo che non faccia distinzioni col pretesto che la religione sia un fatto totalmente privato. In realtà bastano pochi esempi per renderci conto che relegare la religione a fatto meramente privato non ha senso:  tutti gli edifici religiosi, anche questo chiostro in cui ci troviamo, non sono mai totalmente privati. Lo stesso vale per gli atti di culto: quando si tratta di celebrare un funerale di Stato, questo deve essere officiato in un rito ben determinato, o cattolico, o protestante, o ortodosso, per limitarci ai riti cristiani per i quali l’ecumenismo sta trovando forme valide per tutti. Non è possibile neppure nominare cappellani militari di tutte le religioni, anche perché si solleverebbe il problema di cosa è una religione. Ad esempio il Buddismo è una religione o una filosofia? la stessa domanda vale per l’animismo. Ricordo quando ero nel consiglio direttivo dell’UNESCO, dove due miei colleghi animisti introducevano suggestivamente ogni loro intervento con “Voglia l’anima dei miei antenati che capiti questo…”. Nulla da eccepire e rispetto per tutti, ma quando c’è un’istituzione statale o sovrastatale, ad essa sono assolutamente indispensabili dei riti, che, per quanto laici possano essere, non possono che dipendere dalla tradizione religiosa: si pensi alla laicissima Massoneria, i cui rituali vengono mutuati dalle liturgie cristiane medioevali; un rituale ha sempre una qualche radice storica. Forse si potrebbe fare a meno dei rituali –io stesso non sono molto ritualista-: però ci sono e, o li aboliamo completamente, oppure facciamo sedere il Vescovo o il rappresentante di una certa religione al posto d’onore, anche davanti al Presidente della Repubblica. Ciò risale a una stranissima filosofia, che è la filosofia di Sant’Agostino, la filosofia delle “due città”: quella terrena e quella celeste. In questa prospettiva lo Stato non è solo Stato, ma è diabolico e, in quanto diabolico, è anche quasi paradossalmente provvidenziale. Lo Stato romano non pensa alla salvezza delle anime, pensa a stabilire una pace, come fa dire Dante ad Augusto. In realtà Augusto fece la guerra per tutta la vita e così tutti gli altri imperatori, però una guerra in funzione di una certa pace, una guerra idealmente edificante, non fine a se stessa, non col fine di affermare la propria particolarità, ma avente come scopo e movente un principio universale. Questa è stata la Roma con cui è evidente che inevitabilmente in un primo tempo non potevano non entrare in conflitto sanguinoso i rappresentanti di un altro potere, non di questo mondo, ma che inevitabilmente aveva un suo peso anche in questo mondo: i responsabili delle comunità cristiane. Inoltre i primi cristiani venivano considerati, e specie quelli romani si consideravano, una setta ebraica; l’ebraismo tendeva a una realizzazione piena solamente in questo mondo, non nell’aldilà, e solo per gli Ebrei. Fu San Paolo con la sua grande predicazione a cancellare ogni differenza di persone di fronte all’Assoluto: “Non ci sarà né maschio, né femmina, né servo né padrone…”. Ma finché la dottrina di San Paolo non venne assimilata, e non poche sono le difficoltà per un sua piena comprensione, i primi cristiani considerandosi una setta ebraica non potevano non entrare in conflitto con Roma. I cristiani rappresentavano dunque il dominio spirituale sul mondo e Roma quello non spirituale, finché le invasioni barbariche arrivarono a sconvolgere l’Europa e l’Africa, dopo l’evangelizzazione di Roma e il riconoscimento della religione cristiana da parte del potere imperiale. Questo lasso di tempo di circa un secolo, che come dice Kahn ha del miracoloso, permise ad Agostino di formulare le sue teorie nelle quali formula e teorizza effettivamente una tendenza all’unità, anche imposta, proprio come l’avevano fino ad allora concepita i romani. Non a caso la parola “Sant’Uffizio” si trova in Agostino ed indica il “Santo dovere”, il dovere cioè di sgominare gli eretici e le invasioni perché l’Impero Romano deve essere unico, e con esso la vera religione. In sostanza la sua è un’interpretazione originale del motto evangelico “Date a Cesare quel che è di Cesare”, formula che cronologicamente, secondo l’esegesi, è posteriore alla predicazione di San Paolo. Questa originale interpretazione, nel bene o nel male, fu vissuta sempre in Europa, seppur confusamente, perché da una parte Federico II non voleva certamente essere sottomesso alla Curia Pontificia e dopo essere stato incoronato dal Papa scende in armi contro di lui. Dall’altra parte il Pontefice voleva far valere la sua autorità anche sulla subordinata legge umana e temporale: da qui le continue “lotte per l’investitura”. Questi continui conflitti erano ispirati al principio dell’unità (ut unum sint), da intendersi in modo sempre problematico, ma sempre come un dato di fatto, una meta ideale a cui tendere e da raggiungere concretamente. Era un concetto di unità analogo a quello presente nei concili, dove il consenso intorno ai dogmi della fede e l’unità emergevano a fronte di lotte anche sanguinose. Oggi più che mai è indispensabile ritrovare questo spirito unitario e appunto per ritrovarlo si dovrebbero non dimenticare le sue radici Romane (ma non della Roma di Alberto Sordi, bensì della Roma antica) e cristiane, perché il cristianesimo è diventato romano, anche se c’è un mio amico che mi provoca dicendo “…di quella Roma ove Cristo è bizantino”. Affermazione vera, ma se nei rituali Bisanzio ha influenzato Roma, questa ha controinfluenzato Bisanzio, rimanendo sempre come centro ideale anche quando la Chiesa Orientale si è subordinata al potere temporale. Bisanzio infatti ha sempre ricercato il titolo di “seconda Roma”  e Mosca quello di “terza Roma”: in fondo quell’aspirazione al dominio universale propria del comunismo sovietico, pur vivendo dello sradicamento di ogni religiosità trascendente, si rifaceva in qualche modo alla tradizione della “terza Roma” e, attraverso questa, della prima Roma. Come si vede, c’è molto su cui riflettere se non si vogliono dimenticare le proprie radici.

Per queste ragioni l’Europa oggi è da fare, mentre al tempo di Jacopo da Varagine non era ancora completamente da fare. Era piuttosto continuamente rimessa alla prova, rimessa in forse; era in pericolo, dava luogo a continui contrasti, certamente sanguinosi: pensate alle guerre di religione e poi alle guerre ideologiche, che hanno sostituito quelle di religione. Qui Voltaire si trova in arretrato: Voltaire pensa che il nemico da battere sia il Fanatismo, ed ha ragione, ma crede ancora che il fanatismo sia di natura religiosa, invece con la rivoluzione Francese era diventato ormai un fanatismo ideologico. Per esempio Robespierre è una persona religiosa che fa ghigliottinare chi aveva istituito il culto della cosiddetta “Dea Ragione” impersonata da una ballerina dell’Opera: Robespierre lo fa ghigliottinare, ma in realtà lui stesso si presenta come Sacerdote – Vescovo, ministro di un dio che è il dio della professione di fede desunto dai dialoghi di Rousseau, e Rousseau è un calvinista. Si riscontra sempre una tradizione, ma questa tradizione con la rivoluzione è diventata laica, senza comunque perdere il suo spirito universalista; diventa un incontro - scontro di ideologie nazionaliste. Dalla Prussia alla Russia, eccetera, scoppiano guerre nazionaliste, imperialiste e così via proprio perché si conserva una sorta di inconscia fede universale  identificandola nell’età moderna con il particolare. C’è lo stato prussiano con la “nation”. Le nazioni una volta erano le Nazionalità: per esempio Irlandesi, Borgognoni… non erano identificate da idee politiche, né da culture distinte. La rivoluzione francese, quando dice “la nation” dice l’opposto, non più le Gentes in contrapposto al popolo, ai cittadini, ma la nazione, al singolare. E il popolo di Israele diventa la nazione francese, che porterà salvezza, le salut, a tutta l’Europa e a tutto il mondo. Napoleone non ci crede, ma si avvale di questo spirito ed effettivamente tenta una sorta di dominio universale. Quello che una volta era una unità ideale cerca di diventare una unità di fatto, perché si crede alla tradizione, però la si vuole qui, ora, subito impersonata in nazione, in stato – nazione che vuol diventare impero: l’archetipo di tutte le guerre imperialiste è stata la I guerra mondiale; la I molto più deleterea per l’Europa e per le sue aspirazioni della II che può essere considerata la continuazione della I. Si arrivò a tali punti anche per bramosia di rinnovamento, per staccarsi dalle proprie radici, ma in realtà non ci si può staccare da esse, non ci si può staccare dalla storia, tant’è vero che chi non conosce la storia la ripete, crede di “aver inventato l’acqua calda”, che invece fu inventata una, due, tre generazioni fa. Questo è oggi il rischio dell’Europa se non si degna di riprendere, di rimettere in discussione la sua origine dovuta in gran parte alla divisione fra le Chiese riformate e la Chiesa cattolica. E’ inevitabile: non possiamo pensare di abolirla, ma io credo che gli stessi riformati, a patto di intendere la cattolicità dell’altro mondo, possano evitare lo scontro, così come sta cercando di fare da molto tempo la Chiesa cattolica attraverso l’ecumenismo, con uno sforzo per non perdere l’aspirazione universale, ma senza che questa naufraghi in tante confessioni, in tante altre Chiese e religioni. L’ecumenismo è estremamente faticoso, non basta dire “abbracciamoci tutti”: le parole sono molto pericolose. Allora il nostro augurio di cittadini, quando eventualmente qualcuno ci voglia ascoltare, è proprio di riflettere sul passato, non per sclerotizzarlo, ma tutt’altro perché riflettere sul passato ci permette di conservarlo vivo e, in questo senso, oggi l’Europa è da fare. E’ da fare perché la coscienza storica, non intesa come conoscenza dei fatti storici, ma come consapevolezza delle proprie radici, ci permette di riflettere. Leggevo la testimonianza amara di un docente di storia che da un suo allievo si è sentito domandare :”Sento che si parla di una II guerra mondiale, allora deve essercene stata una I !?”.. lui non ne sapeva nulla. Pazienza per gli studenti giovani, ma una volta in Parlamento è stato solennemente affermato :”Bhè, non è necessario che ci sia una terza guerra mondiale; ci sono state due guerre puniche, ma non c’è stata una III guerra punica!”… e in realtà la storia insegna che la III guerra punica venne effettivamente combattuta! Anche queste nozioncelle da scuola elementare, al massimo liceale, si stanno perdendo, neppure è così terribile il fatto in sé di perdere le nozioni, la questione è che si sta perdendo proprio la consapevolezza che siamo qualcuno che ha qualcosa alle spalle; che siamo nani sulle spalle di giganti; che non saremmo niente, se dovessimo inventare tutto, compreso Internet. Ma l’inventore di Internet era uno che si avvaleva dei risultati di altri, che aveva una formazione umanistica, una formazione storica e che, perdendo tempo a studiare cose “inutili” si è formato ed ha dato forma a tante cose “utili”. Se invece ci illudiamo di poterci limitare a imparare solo le cose che “servono” non riusciamo più a trovare i valori e con essi perdiamo ogni speranza. Questo, dunque, è a mio parere il problema dell’Europa d’oggi: ce n’erano tanti altri ai tempi di Jacopo da Varagine, non meno gravi, ma con una certezza di futuro in quanto consci della loro genesi passata. Oggi, se non conserviamo un passato, rischiamo di non avere un futuro.

Grazie per l’attenzione.

 

 

RIPORTIAMO DI SEGUITO PARTE DEL DIBATTITO SUCCESSIVO

·        L’aspetto economico della globalizzazione sembra prevalere prepotentemente su ogni altro aspetto di tale fenomeno, compreso quello culturale: come valuta questo fenomeno? Lo giudica pericoloso?

La ricerca dei mezzi e la ricerca dei fini sono due preoccupazioni che corrono sempre insieme e non credo siano destinate a elidersi. Non vanno confuse, ma neppure bisogna preoccuparsi eccessivamente del prevalere dell’una sull’altra. Siamo uomini, perciò limitati e bisognosi di mezzi: addirittura talvolta è necessario sacrificare i propri fini per necessità contingenti legate alla mera sopravvivenza fisica. Non credo che cercando i mezzi si debbano necessariamente per questo perdere i fini, gli scopi della vita, ma non credo neppure che in nome di un’idealità vacua si debba trascurare la solidità degli strumenti.

La globalizzazione economica è un fenomeno esistito da sempre, quantomeno a partire dal neolitico. Si pensi alle isole Eolie che vivevano esportando ossidiana in tutto il Mediterraneo, ma non appena questa fu soppiantata dal bronzo, gli abitanti di queste isole caddero in disgrazia. Si pensi poi alla Via della Seta nel medioevo.

Certo oggi i mezzi di comunicazione e la conseguente presa di coscienza dei drammatici divari economici tra le varie parti del mondo ha accentuato la differenza tra chi sta meglio e chi sta peggio.

 

·        Come conciliare il recupero delle radici cristiane per recuperare l’identità europea col dato di fatto della globalizzazione che porta con sé altre altre esperienze religiose? In particolare quale rapporto Occidente – Islam?

Anzitutto puntualizziamo che noi conserviamo la nostra religione senza cercare di imporla con mezzi coattivi o violenti. Per poterla mantenere abbiamo però bisogno di una necessaria difesa, perché altrimenti cadiamo preda di una religione –quella islamica- che non ha una organizzazione ecclesiale, né una qualche forma di unità se non di fronte al nemico, battuto il quale si frammenta al proprio interno in diversi partiti perennemente il lotta fra loro. Noi oggi parliamo tanto di solidarietà, ma questa parola è nata abbastanza tardi, nella II metà dell’800 per opera congiunta di un gesuita e di un fra massone. La solidarietà si forma sempre e solo contro qualcuno. Se per ipotesi i marziani invadessero la terra, tutti gli uomini diventerebbero solidali tra di loro. Allo stesso modo gli islamici sono estremamente solidali tra loro contro gli infedeli e pure contro di noi che pur credendo nella rivelazione biblica siamo considerati dei degenerati. Finita questa unità contro il nemico, gli islamici si scannano immediatamente fra di loro: per questo la salvezza non può venire da loro, ma dalle nostre radici. Io credo si possa sperare in una “cristianizzazione” degli immigrati islamici, senza coazione, ma per la legge del cuius regio et religio, per cui la religione più diffusa e predominante in un paese tende a prevalere e incorporare quelle minoritarie. Se però accogliendo, come necessario, questi immigrati, non soltanto portiamo loro tutto il rispetto possibile, ma addirittura ci prosterniamo, ci subordiniamo a loro, ecco che ci suicidiamo presentandoci con una cultura inferiore alla loro, più debole e perciò da sradicare secondo il loro punto di vista. Anche l’attuale Pontefice con le continue richieste di perdono si espone a questo pericolo: gli altri non comprendendo il suo gesto evangelico ne approfittano e noi non ci guadagniamo niente.

Per quanto poi riguarda la questione del terrorismo, bisogna dire che l’unico modo per far capire agli islamici che Allah non vuole la violenza è sterminare i terroristi. Visto che per loro Allah è comunque grande ed è anche causa diretta di tutto ciò che accade, metterli di fronte ai fatti della disfatta di questo modo violento di fare proselitismo seminando terrore è dimostrare loro che stanno sbagliando.

La necessità è dunque quella di non essere indulgenti. Siamo in guerra, un aguerra diversissima da tutte quelle combattute fin ora.

 

·        Analizzate le difficoltà che l’Europa sta attraversando, lei mantiene viva una speranza, crede in un futuro roseo, oppure si abbandona al pessimismo?

Confesso che intimamente ci credo. In fondo c’è una provvidenza intrinseca nella storia, che potremmo definire “vichiana”. Gli strumenti sempre più universalistici e il progresso tecnologico (che, si badi, resta progresso fin tanto che l’uomo governa le macchine, senza lasciarsi dominare da esse) mi fanno essere ottimista nei confronti di una globalizzazione buona, senza che ciò implichi la perfezione: le guerre resteranno sempre, non saranno mai estinte, ma potranno in futuro diventare meno frequenti.