Varazze, chiostro di S. Domenico, 12 luglio 2005
1492: EVANGELIZZAZIONE E DIRITTI UMANI Scoperta dell'America e sclericalizzazione Prof. Mariano Fazio, Rettore dell'Università della S.Croce - Roma a) Le bolle alessandrine
del 1493: donazione papale? Le scoperte colombiane posero nuovi problemi internazionali ai quali bisognava trovare una soluzione. Secondo la mentalità del XV secolo, la scoperta di terre governate da prìncipi non cristiani era motivo valido perché se ne impadronisse il regno che le scopriva. A sua volta il Papato era ancora l'ultima istanza per risolvere problemi internazionali. Non si erano ancora verificati lo scisma anglicano e le eresie protestanti e l'Europa intera era sottomessa, per lo meno moralmente, all'autorità papale. Quando il Portogallo cominciò la sua espansione, la Santa Sede donò le terre chiamate di Guinea alla corona portoghese e salvaguardò l'esclusiva lusitana per la navigazione delle coste africane. Nel 1480 Portogallo e Castiglia firmarono il trattato di Alcaçovas-Toledo, mediante il quale veniva rispettata l'esclusiva portoghese in Africa e veniva riconosciuta la sovranità castigliana sulle Canarie. I marinai spagnoli avrebbero potuto navigare verso l'arcipelago, ma non più a sud. Nulla veniva detto nel trattato, né nelle bolle portoghesi, circa la navigazione verso l'ovest. Quando Colombo torna dal suo primo viaggio, la Corona inizia immediatamente le trattative con il Papa Alessandro VI, al fine di ottenere gli stessi privilegi che, una decina d'anni prima, Roma aveva concesso al Portogallo. Difatti, con questi antecedenti, il Papa concesse, mediante quattro bolle, ciò che era richiesto dai Re Cattolici. Nel breve Inter Caetera del 3 maggio 1493 si concede il dominio di tutte le scoperte di Colombo e si ordina l'invio di missionari; in un altro documento con lo stesso titolo, si segna una linea di demarcazione da polo a polo, che passava cento miglia a ovest delle Azzorre e di Capo Verde. Ad occidente di tale linea la Castiglia avrebbe potuto proseguire le sue scoperte, mentre il Portogallo avrebbe potuto continuare ad esplorare ad oriente di essa. In una terza bolla, alla corona di Castiglia venivano riconosciuti gli stessi privilegi di cui il Regno di Portogallo godeva nei suoi possedimenti. Infine, nella Dudum siquidem veniva concesso alla Castiglia di scoprire e conquistare, partendo verso l’occidente, tutto ciò che il Portogallo non avesse scoperto o occupato partendo verso l’oriente. Il valore dato a queste bolle fu diverso a seconda dei funzionari, delle epoche e degli autori. Ufficialmente la Corona si basò sulla donazione papale come titolo legale di dominio. Però ci fu anche chi interpretò che si trattava solo di una commessa per evangelizzare le nuove terre, poiché il Papa non aveva potere temporale per donare terre che avevano già dei legittimi proprietari: gli indios. Sorse così il problema dei Giusti Titoli. Il Portogallo reagì prontamente davanti all'offensiva diplomatica castigliana: inviò ambasciatori al regno vicino e propose di demarcare i mari e le terre allargando la linea orizzontale di Alcaçovas-Toledo con la quale si impediva agli Spagnoli di avanzare verso il Sud delle Canarie. Così il mondo si sarebbe diviso in un Nord castigliano e in un Sud portoghese. La proposta fu rifiutata in blocco. Non così la seconda: portare la linea demarcatoria di Alessandro VI fino a 370 leghe ad Ovest di Capo Verde. Gli ambasciatori dei due regni si riunirono verso la metà del 1494 in Tordesillas e l'accordo fu rapido. I re cattolici desideravano la pace con il Portogallo e perciò non esitarono a concedere determinati vantaggi. Nel 1529 venne demarcato, mediante il trattato di Saragozza, il meridiano orientale, a 180º dalla linea di Tordesillas. La Especieria (commercio delle spezie) sarebbe stata portoghese. In Tordesillas si stabilì che ogni territorio che si trovava da un lato o dall'altro della linea demarcatoria, apparteneva o alla Castiglia o al Portogallo, indipendentemente dalla priorità della scoperta. Così, anche se le prue castigliane furono le prime ad arrivare in Brasile, il territorio situato all'Est della linea, fu della corona portoghese. Si eliminava per il Portogallo il pericolo rappresentato dal principio di priorità stabilito nella Dudum siquidem. Nella piccola cittadina castigliana, Portogallo e Spagna si divisero il mondo. Francia e Inghilterra non si curarono dell'accordo e perfino Francesco I si domandava in quale clausola del testamento di Adamo fosse contemplata questa ripartizione del globo terracqueo[1]. b) I Giusti Titoli e la secolarizzazione della
teocrazia medievale Il cosiddetto dubbio indiano — il dubbio della coscienza cristiana sulla legittimità dell'occupazione dell'America — sorse relativamente presto. Le dichiarazioni di principio dei re di Castiglia e la legislazione che fu elaborata di conseguenza a favore degli aborigeni americani — condizione di vassalli liberi della Corona, buon trattamento, regolamentazioni umanitarie del lavoro — si fondavano sul principio della presunta sostanziale validità della donazione pontificia. I teorici delle giunte di Burgos del 1512, che diedero luce ad un sistema legislativo a favore degli indigeni, continuavano ad essere convinti della bontà di impostazioni proprie della teocrazia medievale, che attribuiva il potere universale — non solo quello spirituale, ma anche quello temporale — al Romano Pontefice. Di conseguenza, il titolo di possesso del Re sulle Indie non era altro che la donazione pontificia. Così si deduce dall'opera del domenicano Matías de Paz, De dominio Regum Hispaniae super indos e da quella del giurista Palacios Rubios, De insulis oceanis. Altri autori, come il maestro nominalista Maior e l'umanista Ginés de Sepúlveda, aggiungevano alle presunte giustificazioni teocratiche, le teorie aristoteliche della schiavitù per natura. Vista la barbarie degli indios, era lecito che i prìncipi cristiani li sottomettessero ad effettivo asservimento, al quale erano chiamati per natura[2]. Bisogna aspettare fino al 1538 per veder rifiutate in modo incontrastato queste teorie. Tale lavoro chiarificatore, che segna non solo un episodio nella storia della coscienza cristiana degli scopritori, ma anche una pietra miliare nella storia della filosofia politica e soprattutto un passo certo nel processo di secolarizzazione che caratterizza la Modernità, fu portato a termine da un domenicano castigliano, fondatore della Scuola di Salamanca: Francisco de Vitoria (1492-1546). La Relectio de Indis è un'opera breve, pronunciata oralmente di fronte al corpo docente dell'Università di Salamanca. È strutturata in tre parti. Nella prima, Vitoria si domanda se gli indios erano veramente padroni prima dell'arrivo degli spagnoli; nella seconda analizza sette titoli usati dai peninsulari che giustificherebbero l'occupazione dell'America e che egli considera totalmente privi di valore; infine, nell'ultima parte della relazione, presenta sette titoli che legittimano il dominio della Corona sulle Indie, aggiungendo un ottavo titolo dato solo come probabile. Le caratteristiche dell'opera fanno pensare che Vitoria appartenga in pieno alla scolastica medievale. Ma gli argomenti che presenta esprimono una tale forza e novità che trasformano il domenicano nel fondatore del diritto internazionale moderno, mettendo in crisi la teocrazia medievale. Vitoria si contrappone ad una tradizione di numerosi autori — teologi e canonisti per la maggior parte — che avevano stabilito solidamente una serie di princìpi giuridici imperniati sulla piena identificazione dell'ordine naturale con quello soprannaturale e nella trasposizione delle attribuzioni dal potere temporale al potere spirituale. Il problema dell'effettivo dominio degli indios su terre e beni americani prima dell'arrivo degli Spagnoli, è l'occasione storica che si presenta a Vitoria per formulare una dottrina che oggi chiameremmo personalista, ispirata all'antropologia di san Tommaso d'Aquino. Opponendosi all'Armacano, a John Wyclif e ai valdesi «i quali difendevano la teoria che il titolo di dominio è lo stato di grazia»[3], sostiene che gli indios sono effettivi padroni dei loro beni perché «il dominio si fonda sull'immagine di Dio»[4]. Essere immagine di Dio è proprio dell'uomo per la sua natura razionale, non per la grazia. Appartiene all'ordine naturale. In virtù delle sue potenze razionali, l'uomo ha il dominio sui suoi atti. Come dice san Tommaso, citato dallo stesso Vitoria, «una persona è padrona dei suoi atti quando può scegliere questo o quello»[5]. La capacità di dominio dell'uomo deriva dalla sua condizione personale — autodominio — e, di conseguenza, nessun peccato né infedeltà — che gli fanno perdere beni soprannaturali, ma non la sua condizione personale — impedisce all'uomo di essere padrone dei suoi beni. Non solo squalifica la teoria della grazia come titolo di dominio naturale — considerata da Vitoria come "eresia pura"— ma nega anche il valore della presunta teoria aristotelica della schiavitù naturale sostenuta da alcuni autori medievali. Dimostrando un'apertura mentale sorprendente per la sua epoca, lontana da un atteggiamento etnocentrico, afferma che gli indios «hanno a modo loro l'uso di ragione. È evidente che seguono un certo ordine nelle loro cose: hanno città debitamente governate, matrimoni ben definiti, magistrati, nobili, leggi, professori, industrie, commercio; tutto ciò richiede l'uso di ragione. Inoltre hanno anche una certa forma di religione e non sbagliano nemmeno nelle cose che sono evidenti ad altri, cosa che è un indizio dell'uso di ragione. Dio e la natura non li abbandonano in ciò che è indispensabile per la specie; la facoltà principale nell'uomo è la ragione ed è inutile la potenza che non si riduce in atto»[6]. Il fondamento del titolo del dominio giuridico sulla natura della persona umana, senza far ricorso a nessun argomento di ordine soprannaturale, può sembrare una verità semplice e quasi evidente. Tuttavia dobbiamo tenere presente che nel 1538 la dottrina era nuova. Non rappresentava una novità totale — san Tommaso d'Aquino e i suoi migliori commentatori, come Tommaso di Vio, detto il Caietano, avevano già segnalato chiaramente la distinzione tra i due ordini — ma Vitoria sistematizza in un tutto coerente questa dottrina, applicandola ad un caso specifico che era di scottante attualità. Nella seconda parte della relectio, Vitoria passa in rassegna i falsi titoli presentati dagli Spagnoli per giustificare l'occupazione delle Indie. Non faremo un'analisi dettagliata delle argomentazioni vitoriane. Segnaleremo soltanto la novità rivoluzionaria dell'impostazione del domenicano nel criticare la tradizione teocratica medievale. Coloro che sostenevano come titoli giuridici validi il dominio universale dell'Imperatore o del Papa, anche se apparentemente appartenevano a fronti politici opposti, in realtà si nutrivano di identici princìpi teorici. L'idea dell'impero universale è molto antica — basti pensare ai grandi imperi orientali — ma nella Cristianità medievale acquista aspetti propri. L'imperium totius mundi si trasforma nel Sacrum Imperium a capo del quale si trova il Papa, il quale, a sua volta, delega all'Imperatore il potere temporale universale del quale è depositario. Le cerimonie di incoronazione dell'Imperatore da parte del Romano Pontefice mostrano in modo patente ed emblematico la teoria politica su cui si basavano. Vitoria considererà che né il dominio universale dell'Imperatore, né il dominio universale temporale del Papa sono titoli giuridici validi per legittimare l'occupazione dell'America da parte della Corona spagnola. Secondo il maestro domenicano, tutti gli uomini sono liberi e uguali nel diritto, per natura. Nell'istituzione concreta dei poteri pubblici, oltre al suo fondamento nella natura sociale dell'uomo, intervengono le volontà umane libere e il diritto positivo. La divisione delle nazioni si verificò nel corso della storia in modo quasi spontaneo e nel processo di formazione intervenne in modo decisivo il consenso dei membri del gruppo[7]. Vitoria, contrapponendosi a giuristi della taglia di Bartolo di Sassoferrato, non trova nessun titolo né di diritto naturale, né divino, né umano che possa attribuire all'Imperatore il dominio su tutto l'universo. Quando il domenicano analizza il secondo titolo non legittimo — il dominio universale del Papa — non lesina argomenti, giacché, per dirlo con le sue parole, coloro che considerano il Sommo Pontefice monarca di tutto l'orbe, anche in materia temporale, lo fanno "con arroganza"[8]. Contro Enrico di Segusio, Antonino di Firenze, Agostino di Ancona, Silvestre Prierias e altri autori medievali e rinascimentali, Vitoria afferma che «il Papa non è un signore civile o temporale di tutto il mondo, parlando di dominio e potestà civile in senso proprio (...); anche ammettendo che il Sommo Pontefice avesse questa potestà politica su tutto l'orbe, non potrebbe trasmetterla ai prìncipi secolari (...); il Papa ha potestà temporale in ordine alle cose spirituali; questo è dato, in quanto necessario per amministrare le cose spirituali (...); il Papa non ha nessun potere temporale su questi barbari né sugli altri infedeli (...); anche se i barbari non volessero riconoscere nessun dominio del Papa, non si può per questo far loro guerra, né impossessarsi dei loro beni e dei loro territori»[9]. Le conclusioni anti-teocratiche di Vitoria si fondano su argomenti di ragione e sulla testimonianza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa. Questo suo umanesimo cristiano permise al domenicano di fare un lavoro di vaglio tra elementi propri della dottrina cristiana e elementi spurii, frutto delle tradizioni politiche umane, che potevano avere un valore circostanziale storico, ma che non appartenevano al deposito della Rivelazione. Vitoria sfronda la selva di argomentazioni teologiche e canoniche interessate. Dopo il suo lavoro critico, appare la luce: i diritti dell'ordine naturale, i quali non sono soppressi dall'ordine soprannaturale, ma da esso incorporati ed elevati. Proprio questa difesa dell'ordine naturale, unita all'affermazione dell'assoluta gratuità dell'ordine soprannaturale, permettono a Vitoria di stabilire la necessità di evitare la coazione in materia di fede. «Anche se la fede fosse stata annunciata ai barbari in modo probabile e sufficiente ed essi non avessero voluto riceverla, non è lecito, per questa ragione, far loro la guerra, né spogliarli dei loro beni»[10]. Credere è un'azione libera e la fede è un dono di Dio. Raccogliendo la tradizione tomista e quella di molti altri dottori medievali, Vitoria metteva in guardia dalla tentazione di imporre con la forza la verità cristiana, violando così l'intimo sacrario della coscienza personale[11]. Analizzando i titoli con i quali si considera che la Spagna ha diritto ad occupare le Indie, Vitoria abbandona la sua vena critica, per lasciare spazio ad uno spirito costruttivo che sarà la base di una teoria razionale del diritto internazionale. L'affermazione della socievolezza naturale, l'esistenza di una comunità di nazioni che deve tendere al bene comune universale, l'obbligo morale di ciò che oggi chiameremmo "ingerenza umanitaria" sono elementi propri dell'umanesimo cristiano professato dal domenicano e che nelle presenti circostanze mondiali rivestono un'angosciosa attualità. Il concetto di ingerenza umanitaria appare, in altre parole, nello svolgimento del quinto titolo legittimo: «un altro titolo può essere la tirannia degli stessi barbari o le leggi tiranniche a danno degli innocenti, come quelle che ordinano il sacrificio di uomini innocenti o l'uccisione di uomini senza colpa al fine di mangiarli»[12]. Al di sopra delle leggi positive di una nazione ci sono le leggi dell'umanità, che si inquadrano nell'ambito del diritto naturale e divino: «Ne è la prova il fatto che Dio abbia mandato ognuno a prendersi cura del suo prossimo e tutti questi sono il nostro prossimo»[13]. La Spagna potrebbe intervenire nelle Indie in difesa della dignità umana offesa da consuetudini che negano alcuni diritti fondamentali. Ciò implica una concezione della sovranità nazionale limitata e l’esistenza di una comunità di nazioni comunemente responsabile del bene dell’intera umanità. Quello di Vitoria è un umanesimo cristiano. Che si intende per questo umanesimo? Vitoria, anche se pienamente inserito nella tradizione scolastica tomista, è imbevuto delle correnti di pensiero contemporanee. Non invano l'umanista valenzano Luis Vives scrive da Parigi ad Erasmo da Rotterdam che Francisco bonas litteras attigit feliciter iam inde a puero[14]. E Giovanni Vaseo, umanista fiammingo, scrive che «mai si è avuto in Spagna un uomo tanto dotto in tutte le discipline delle arti e negli studi sull'umanità»[15]. Vitoria attinge all'umanesimo spagnolo di Antonio de Nebrija e di Pedro Mártir de Anglerìa, ma si confronta sempre anche con l'ambiente umanistico di Parigi, centro intellettuale d'Europa. Quello di Vitoria è un umanesimo che pone l'uomo nel nucleo della speculazione filosofica, ma che, lungi dallo sfociare in un antropocentrismo, sottolinea il carattere creaturale dell'uomo e il suo ancorarsi esistenziale alla trascendenza. Umanesimo cristiano, che si purifica dalle aderenze teocratiche estranee al deposito della fede e che armonizza gli elementi naturali e soprannaturali dell'uomo chiamato alla vita della grazia. Con Vitoria e la Scuola di Salamanca si entrava in un mondo moderno (riconoscimento dell'autonomia del temporale) e cristiano (riconoscimento della dignità della persona come immagine di Dio e della chiamata universale alla fede e alla grazia). La novità apportata da Francisco de Vitoria nella sua Relectio de Indis nei rapporti tra l'ordine naturale e soprannaturale e tra il potere temporale e quello spirituale supera nelle sue impostazioni i princìpi teorici e le concrezioni storiche della teocrazia medievale. Suppongono inoltre una secolarizzazione tendente a stabilire la legittima autonomia dell'ordine temporale senza tagliare le radici che lo uniscono alla trascendenza. La Relectio de Indis è una delle porte da cui si passa dal mondo medievale al mondo moderno[16]. [1] Cfr. M. FAZIO, La América Ingenua, Dunken, Buenos Aires 1996, pp. 48-50. [2] Cfr. T. URDANOZ, Síntesis teológico-jurídica de la doctrina de Vitoria, in F. de VITORIA, Relectio de Indis, Corpus Hispanorum de Pace, BAC, Madrid 1967, pp. XLVIII-XLIX. [3] F. de VITORIA, Relectio de Indis, cit., p. 14. [4] Idem, p.18. [5] S.Th. I-II, 82, I, ad 3. [6] F. de VITORIA, cit., p. 30. [7] Cfr. T.URDANOZ, cit., pp. LXXXIV-LXXXV. [8] F. de VITORIA, cit., p. 43. [9] Idem, pp. 46-53. [10] Idem, p. 65. [11] Cfr. il mio lavoro Descubrimiento de América: derecho natural y pensamiento utópico, in "Acta Philosophica" (Roma) 1992, vol.I, fasc. II, pp. 215-232. [12] F. de VITORIA, Idem, p. 93. [13] Ibidem. [14] V. BELTRAN DE HEREDIA, Personalidad del Maestro Francisco de Vitoria y trascendencia de su obra doctrinal, in F. de VITORIA, Relectio de Indis, cit., p. XVII. La traduzione italiana dice così: «Fin da bambino si impose con ottimi risultati negli studi classici». [15] Ibidem. [16] Cfr. M. FAZIO, Due rivoluzionari: Francisco de Vitoria e Jean-Jacques Rousseau, Armando, Roma 1998. |