Una mirabile vita
Il 25 Marzo
del 1347, giorno nel quale coincidevano la Domenica delle Palme e la festa
dell'Annunciazione, a Siena, in contrada dell'Oca, discesa di Fontebranda,
nasceva Caterina Benincasa, fiore e meraviglia dei ventitre figli di Giacomo,
tintore, e di Lapa Piangenti.
Lasciò scritto
il Beato Raimondo da Capua, suo confessore e primo accurato biografo, che la
bambina « quando poté muoversi da sé, apparve agli occhi di tutti tanto
graziosa e giudiziosa nel parlare, che difficilmente riusciva alla mamma di
tenerla in casa, perché tutti del vicinato e i parenti se la portavano via per
sentirla parlare e godersi della sua compagnia ».
Era questo uno
dei tanti misteriosi presagi, rivelatori della sua straordinaria natura,
preludio delle meraviglie per le quali Caterina avrebbe poi fatto stupire il
mondo.
Aveva appena
sei anni, quando il Signore, vestito di luce e in tutta la sua regale maestà,
le apparve benedicente, accompagnato dai santi apostoli Pietro, Paolo e
Giovanni.
Dopo questa
prima apparizione, la vita della fanciulla si trasformò d'incanto e, da vivace,
quale era, diventò chiusa e meditativa, sempre assorta nella preghiera o
intenta ad ascoltare le vite dei santi che, durante le veglie invernali, andava
raccontandole il domenicano, suo parente, Fra Tommaso della Fonte.
Rifuggendo da
ogni pensiero ed allettamento terreno, un giorno, la giovinetta si recide le
bionde chiome e, con questo energico gesto, intende fermamente consacrarsi a
Dio.
A diciotto
anni entra nella famiglia delle Sorelle della Penitenza di S.Domenico. Così,
rivestita delle candide lane e ornata di rose, di gigli e di viole, si presenta
alle mistiche nozze con Gesù, che le impose l'anello dalle quattro gemme
simboliche, anello che restò visibile solo ai suoi occhi, misterioso segno di
un favore non meno misterioso.
E da allora,
come in uno sconfinato orizzonte, si apre il panorama meraviglioso della vita
intima di Caterina.
I rapimenti e
gli incanti mistici si susseguono con frequenza e sono incalzanti inviti ad
ascese, sempre più ardite, nel cielo del divino.
In una di
queste visioni, il Signore le addita chiaramente la missione, cui era
destinata.
« . . Da ora
in poi andrai di luogo in luogo, di città in città, ma sarò sempre vicino a te,
ti guiderò e veglierò sul tuo ritorno; ti farò dono di una sapienza alla quale
nessuno potrà resistere; ti manderò verso i pontefici e i sovrani e, per mezzo
di te, debole agli occhi del mondo, confonderò l'orgoglio dei forti ».
Con questa
investitura dall'Alto, Caterina inizia un vigoroso e travolgente apostolato di
restaurazione e santificazione, in mezzo alla società del suo tempo, in un
periodo travagliato della storia, quando le contrade d'Italia erano teatro di
gravi discordie e di sanguinose lotte intestine.
In questa
atmosfera, arroventata dall'odio e dalle passioni di parte, Caterina si asside
mediatrice ed arbitra, fra le due Potestà in armi: Impero e Papato.
La figura
della vergine senese campeggia radiosa, sullo sfondo dell’agitato secolo XIV,
in una luce di gloria e di grandezza, che incanta ed abbaglia.
Dalla vita contemplativa del chiostro passa a quella
attiva nel mondo, moltiplicando, in maniera prodigiosa, l'ardore della sua
carità. Instancabile, si aggira nelle corsie degli ospedali a lenire le umane
sofferenze, porta il suo sorriso consolatore ai carcerati, lavora intensamente
per la riforma dei conventi.
La sua voce
tuona contro i vizi, le ingiustizie, le sopraffazioni; fulmina, con le sue
lettere, re e principi, richiamandoli al buon governo dei popoli; riporta, con
il consiglio e la persuasione, la pace e la concordia fra gli individui e le
famiglie.
Coraggiosamente
si getta nel ribollimento delle contese più aspre, nel turbine delle guerre più
micidiali, per portare la parola e la benedizione di Dio ai contendenti.
I suoi
contemporanei, meravigliati, ne ammirano le doti di predicatrice religiosa, di
donna politica e legislatrice, di scrittrice, di consigliera di papi, di re, di
repubbliche..
Veramente
gigante e prodigiosa appare l'opera sua.
Poche donne,
invero, di qualsiasi epoca, hanno potuto, come Caterina, estrinsecare, in modo
così ricco e pieno, il loro genio spirituale e lasciare, nella storia, un
suggello così possente della propria personalità.
Gli artisti,
attratti, in ogni tempo, dalla sua figura, ci hanno lasciato una ricca
iconografia della vergine senese.
Magra ed
ascetica, dai grandi occhi luminosi e dal sorriso dolcissimo, la dipinge Andrea
Vanni, in un affresco in San Francesco a Siena; bella, di celestiale bellezza,
la raffigura il Pinturicchio nella libreria del duomo senese; ebbra di divino
amore, in atto di sposarsi a Gesù è rappresentata da Fra' Bartolomeo, in un
quadro che si ammira al Louvre.
Ma se pittori celebri, nel magistero
dell'arte, hanno saputo fissare, sulle tele, le sue delicate sembianze umane,
il ritratto più fedele e verace, rivelatore dell'interiore bellezza, è
quello che la Santa ha lasciato di sé, nelle sue lettere, quando afferma: « La
mia natura è fuoco ».
L'amore,
infatti, che urge nella sua anima e, come fiamma, divampa, costituisce
veramente la nota inconfondibile, che caratterizza la figura e l'opera della
Santa.
E questo
fuoco che, secondo l'espressione di Caterina, si alimenta « nella cella
interiore » e «nel conoscimento di se stessa» non si esaurisce nell'attività
puramente contemplativa, ma si riverbera pure in un'attività illuminante,
dinamica, combattiva, per l'affermazione trionfale del bene.
« Chi non ha battaglia, non ha vittoria » lasciò scritto, nelle sue lettere.
E così
l'ascesi mistica diverrà, per lei, la sorgente inesauribile delle sue
straordinarie energie di grandezza, di grazia, di santità.
Altra caratteristica della spiritualità
cateriniana è che, quando la luce del soprannaturale investe questa creatura,
il divino non sopprime l'umano; anzi riscontriamo un'armonia singolare di
umano e di divino, che si risolve in una intensità di vita interiore ed
esterna, in un meraviglioso intreccio di virtù e di opere.
Ma, a
completamento del suo prodigioso e multiforme apostolato, una impresa di ben
vasto respiro attende ancora la Santa, prima che essa, consumata dalla diuturna
fatica, chiuda serenamente la sua giornata in Roma, il 29 Aprile del 1380, in
età di trentatre anni: la missione alla corte di Avignone, per ricondurre il
papa alla sua sede romana; l'avvenimento strepitoso, con il quale Caterina
riuscirà ad introdurre il miracolo nella storia.
Messaggera di pace ad Avignone
La missione
presso il papa, esule ad Avignone, segnò, per la storia politica e religiosa
dell'Italia e della Cristianità, uno degli eventi più grandiosi e densi di
conseguenze.
Nel
compimento di essa, la Santa rivelò una straordinaria sagacia diplomatica ed
una volontà così tenace ed irriducibile, pari all'altezza del grande disegno ed
alla cruciale gravità della situazione politica di allora.
« Al tempo
della battaglia daremo la vita per la vita e il sangue per il sangue ». Solo
chi aveva la coscienza di essere predestinato dall'Alto poteva usare un
linguaggio così ardimentoso.
« I Comuni
italiani », scriveva a Gregorio XI, « sono assai turbati perché non hanno
da Voi nessuna consolazione e la fazione vostra nemica li incita alla lega
contro la Chiesa ».
In questa,
come in tante altre lettere, dall'accento, ora implorante, ora minaccioso, si
riflette l'indicibile dolore per le sventure dell'Italia e l'ardore del suo
apostolato inteso ad affermare la vocazione cristiana della società.
Per una di
quelle sublimi intuizioni, che splendevano nella sua mente, ella comprende di
non essere soltanto l'ambasciatrice dei Fiorentini, ma la rappresentante genuina
ed autorevole dello spirito cristiano universale. E perciò le sue preghiere ed
esortazioni si fanno più insistenti e assumono, a volte, il tono di un
imperioso comando al pontefice, perché ponga fine alla cattività della Chiesa e
ridoni a Roma il suo primato spirituale.
Tristi e
lagrimevoli erano le condizioni dell'Italia, in quel tempo; città e contrade
divise in fazioni e partiti, che si dilaniavano in lotte fraterne; ogni offesa
e rivalità affogata nel sangue: Roma senza Papa, in preda all'anarchia;
esautorato e senza forza l'Impero; i Signori, sia che fossero fautori della
Chiesa o dell'Impero, unicamente intenti a sopraffarsi a vicenda; le nostre
terre calpestate dalle Compagnie di ventura, che vivevano di saccheggi e di
rapine.
Solo il Papa,
ritornando a Roma, avrebbe potuto, con la sua augusta parola, far cessare tante
calamità, riportare la pace in mezzo alle fraterne discordie e ristabilire
l'unità della patria.
La lotta, che
la Santa deve sostenere ad Avignone, dura parecchio tempo, alternandosi tra
speranze e delusioni. Il re di Francia e la maggior parte della corte
pontificia le sono contro; anche la preoccupazione della sovranità temporale,
pur necessaria all'indipendenza religiosa, è motivo di perplessità e di
indecisione da parte del Papa.
Finalmente la
Santa, superando le fiere opposizioni dei cardinali francesi e quelle dello
stesso re Carlo V, con la sua eloquenza, ispirata da Dio, riesce a convincere
Gregorio XI di tornare a Roma. Né le notizie sconcertanti che giungevano
dall'Italia, né il pianto del vecchio padre Guglielmo di Beaufort, valgono a
far recedere il Pontefice, di fronte alla decisa volontà della Santa.
Alla povera
figlia del tintore di Fontebranda era così riserbata la gloria di fare ciò che
né Dante, né Cola di Rienzo, né Petrarca erano riusciti a compiere.
Tutti gli
storici, senza distinzione di fede, sono stati concordi nel riconoscimento
incondizionato del trionfale successo dell'impresa e delle conseguenze d'ordine
storico e politico che derivarono al nostro paese ed all'Europa intera.
Il Gebhart,
scrittore francese, esprime di lei questo lusinghiero giudizio: « Santa
Caterina è stata la massima figura della seconda metà dei secolo XIV, italiana
e non soltanto santa, mistica prodigiosa, ma anche statista, la quale ha risolto,
pel bene d'Italia e di tutto il cristianesimo la più ardua e tragica questione
della sua età».
E, con
espressioni più calde e vibranti di ammirazione, il Baumann, così scolpisce la
sua figura: « L'ispirazione le aveva prodigiosamente accresciuto le sue
ingenite attitudini a dirigere e a governare: essa le spinge più lungi della
sua stessa Italia, poiché il senso dell'universale dominava i suoi atti: essa
capiva che gli avvenimenti ed i costumi, dei quali subiva lo spettacolo
desolante, si ripercuotevano su tutta la Cristianità».
Lo stesso
Carducci, con parole fascinatrici, ci descrive la potenza spirituale della
santa veggente: «…surse e passò come un sorriso e ogni passo e ogni atto e
fatto di lei era dimostrazione della Divinità: e l'effetto dell'apparizione di
lei era che, nella terra delle vendette ereditarie, nessun nemico rimaneva e
che tra le battaglie da contrada a contrada, da torre a torre, da casa a casa,
a ogni domanda rispondevasi amore ».
Ritorno da Avignone
La mattina
del 13 settembre 1376, Gregorio XI lasciava il sontuoso palazzo di Avignone, le
cui torri massicce dominavano la verdeggiante vallata del Rodano, e, col
seguito della corte, si imbarcava a Marsiglia, per far ritorno a Roma.
Veniva così a
cessare il lungo e doloroso periodo, iniziatosi nel 1306, chiamato dagli
storici « schiavitù babilonese » e che durò ben settanta anni, durante i quali
la sede apostolica rimase soggetta all'influenza politica del re francese.
Contemporaneamente,
nella stessa giornata, la pellegrina di pace partiva anch'essa da Avignone e,
con la bisaccia a tracolla e il bordone in mano, si incamminava per la via di
Tolone, seguita dai discepoli.
La « bella
brigata » di cui facevano parte, fra gli altri, il Beato Raimondo da Capua, suo
confessore e il Beato Stefano Maconi, discepolo prediletto e suo segretario,
iniziava il lungo viaggio di ritorno, parte per via di mare, su imbarcazioni
occasionali e parte per via di terra.
Attraversata
la costa francese, giungeva alla riviera ligure, percorrendo a piedi, l'antica
e tortuosa strada Aurelia, chiusa tra pinete verdeggianti e luminose spiagge,
in uno scenario incantato di cielo e di mare. Era quella l'unica via di
transito, assai battuta, che aveva conosciuto le marce delle legioni romane.
Molti dei
ridenti paesini, disseminati lungo l'arco costiero, conservano il ricordo di
questo passaggio. A Capo Mortola, una tradizione locale mostra, ancora oggi, il
selciato di una vecchia strada, che la Santa avrebbe calcato. Tra Porto
Maurizio ed Oneglia si erge un'antica torre, nella quale, la pellegrina
apostolica riposò una notte, al canto sommesso della risacca.
Arrivo e fermata a Varazze
Così, di
paese in paese, di contrada in contrada, nella chiarità mite ed affettuosa del
sole autunnale, la comitiva giunse nella nostra cittadina il 3 ottobre del 1376,
vigilia della festa di S. Francesco, quando le prime ombre del
tramonto cominciavano ad illividire il mare e ad incupire le colline.
La sosta a
Varazze, una fra le numerose tappe dei lungo viaggio di ritorno, segna un avvenimento
storicamente importante e memorando, nella vita del nostro paese.
Questo
soggiorno, limitato secondo alcuni biografi ad un solo giorno e a tre giorni,
secondo altri, è autorevolmente documentato da due compagni di viaggio della
Santa, Fra Bartolomeo Dominici ed il Beato Stefano Maconi, domenicani, morti
rispettivamente nel 1417 e 1424.
Il primo, in
una deposizione resa al processo di Venezia del 1411, ha lasciato la seguente
memoria, riportata negli « Opuscola et Litterae B. Raymundi Capuani, editio
nova et locupletior », stampati in Roma, nel 1899, dalla Tipografia
Poliglotta della Congregazione di Propaganda Fide:« Anno 1376 .... in vigilia B.
Francisci (cum) essemus in quodam castello quod dicitur Voragine, prope
Civitatem Januensem, hora vespertina, ipsa vocato Fratre Raymundo, confessore
suo supradicto, dixit esse sibi tunc a Domino revelatum, quod tali die,
revolutis annis, ipse manibus propriis erat translaturus corpus eiusdem sanctae
Virginis de uno sepulchro ad aliud ... ».
« Anno 1376
... nella vigilia del Beato Francesco, mentre ci trovavamo in un castello
chiamato Varagine, nelle vicinanze della Città di Genova, verso sera,
(Caterina) chiamato Frate Raimondo, suo confessore, gli confidò che il Signore
le aveva allora rivelato come, proprio nello stesso giorno, a distanza di pochi
anni, esso Frate Raimondo avrebbe trasportato, con le proprie mani, il corpo
della santa Vergine da uno in un altro sepolcro ».
Altra
conferma ci è data ancora dal Beato Stefano Maconi , segretario della Santa, divenuto
poi Maestro Generale dei Certosini. Nei « Fragmenta de S.Catharina senensi » il
Beato Maconi ci ha tramandato la seguente annotazione, scritta di proprio pugno
dal Beato Raimondo da Capua: « Anno Domini 1376 die 5 octobris que fuit
Dominica dies, dum essemus in occidentali riparia Janue apud Voraginem in
reditu nostro de Avinione, in ecclesia ibi principali, immisa in raptu solito,
apparens eidem Virgini Catharina benedicte Dominus ait...». « Nell'anno 1376, il
5 ottobre, giorno di domenica, mentre eravamo nella riviera occidentale di
Genova, a Varagine, dal nostro ritorno da Avignone, nella chiesa ivi
principale, rapita al solito in estasi, apparve alla benedetta Vergine il
Signore e disse...».
Entrambe le
testimonianze, in cui si fa riferimento a due visioni avute dalla Santa nella
Chiesa di S.Ambrogio, concordano sostanzialmente con il racconto steso da certo
Simone Maffeo, su carta pecorina, nel 1381, il cui originale, al pari di tante
altre antiche carte, andò perduto. Di tale relazione esiste un transunto nella
Biblioteca Comunale di Siena, scritto su carta filigrana.
Questo Simone
Maffeo, definito « huomo di credito » è un personaggio rimasto nell'ombra e di
cui ben poco sappiamo. Indubbiamente egli doveva ricoprire qualche importante
ufficio nelle magistrature cittadine dell'epoca, forse quello di cancelliere
della Comunità. La sua figura è essenzialmente legata a questa pagina di
cronaca, la quale, per la ricchezza dei particolari riferiti, costituisce il
documento storico più completo intorno alla vita del nostro paese e
all'avvenimento della fermata in Varazze della Santa. Le antiche carte
null'altro ci dicono di lui se non che, con atto 12 aprile 1418 del notaio
imperiale di Genova, Gregorio dall'Albaino, istituì una fidecommissaria la quale
impiegò, sulla città di Savona, due «luoghi», la cui rendita doveva erogarsi
per la costruzione della Chiesa e convento di S.Maria Nunziata o dell'Eremita,
ora di S.Domenico, in questa città. Il domenicano varazzino, Padre Andrea
Rocca, figura fidecommissario il 22 giugno 1422.
Libera il paese devastato dalla peste
Ecco il sunto dell'importante
documento: « Riferisce un tale Simone Maffeo di Varagine ... che, nell'anno
1376, ritornando detta Santa Caterina d'Avignone da contrattare! negozi
importanti per la Santa Chiesa con la Santità di Papa Gregorio XI, passò in
Varazze, per vedere la patria del B.Giacomo Arcivescovo di Genova, col B.
Raimondo da Capua, suo confessore, et ambedue dell'Ordine dei Predicatori:
trovò il luogo per la strage che dei suoi habitatori fece la peste, quasi
affatto dishabitato, talmente che non vi essendo rimasti che ben pochi, onde
men però che tutte le case erano dishabitate e l'herba cresciuta in su le
porte, stentò a ritrovare chi l'albergasse et alla fine, passando per una strada,
dove si ritrova l'ospitale, chiamata ora dietro la casetta, s'incontrò con una
donna chiamata Orietta Costa, quale l'albergò in sua casa e gli ragguagliò la
causa della distruzione del luogo, onde sì per tal racconto inhorridita, che
per quello havea veduto nelle contrade, si mosse a pietà e fè orazione
particolare per il popolo rimasto e per tutti gli habitatori del luogo,
raccomandandolo alla Santissima Trinità et alla Santissima Vergine Maria.
Nel partire
che fece dal Borgo, disse a quelli che vi si trovavano che fabbricassero una
Cappella in honore della Santissima Trinità, che mai più il luogo sarebbe stato
molestato dalla peste e chi la porterebbe, patendone lui solo la molestia, se
la riporterebbe ».
La disadorna,
ma pur colorita narrazione di Simon Maffeo, probabile testimone oculare dei
fatti riferiti, ci offre un quadro terrificante della desolazione che regnava,
nel nostro paese, quando la Santa, nel tardo pomeriggio del 3 ottobre 1376,
varcata la porta di ponente, entrò, con la comitiva, nel recinto murato.
Il ridente
borgo marino che, dopo le convenzioni del 1343, stipulate con la Repubblica di
S.Giorgio, estendeva allora la sua giurisdizione amministrativa e politica
anche su Celle ed Albisola e, grazie ai suoi fiorenti traffici, aveva raggiunto
una invidiabile prosperità economica, era piombato nel più triste squallore.
Muti i
cantieri, un giorno operosi e risonanti di asce e di piccozze; sprangati gli
usci delle botteghe artigiane, che si aprivano nei « carrugi » stretti e pieni
d'ombra; paralizzata ogni forma di vita commerciale. Sul paese, rinserrato fra
l'alta cinta delle mura medioevali, aleggiava un silenzio di morte.
La peste
aveva paurosamente decimato la popolazione ed i pochi abitanti superstiti, che
si aggiravano per le vie solitarie, recavano sui volti emaciati e nello sguardo
spento, i segni della sofferenza e della fame. Il morbo, esploso violento, era
divenuto più micidiale, anche per la mancanza, a quei tempi, di misure
profilattiche che avrebbero potuto circoscrivere il contagio.
« Tutte le
case erano dishabitate e l'herba cresciuta in sin su le porte ». Queste concise
annotazioni della cronaca di Simon Maffeo non avrebbero potuto rispecchiare con
maggiore efficacia e con più agghiacciante verismo, la paurosa situazione
creata dall'infuriare del flagello.
La zona più
colpita comprendeva il nucleo abitato nei pressi dell'antico Ospedale, in Vico
della Madonnetta, detto dietro la Casetta. Era questo il cuore dell'antico
borgo medioevale, a ridosso degli alti bastioni merlati, con le casette basse e
le vie strette. La vetusta contrada, che era riuscita a sopravvivere alle
incursioni saraceniche ed alle tumultuose vicende dei secoli, oggi più non
esiste.
Le distruzioni della guerra,
nel 1944, hanno sconvolto l'aspetto di questo agglomerato urbano caratteristico
e tipicamente medioevale. Di esso resta ancora un gruppo di vecchie costruzioni
lungo Via Campana e il lato sinistro di Via Malocello. In una delle case di
questa contrada, S.Caterina venne ospitata da Orietta Costa e la tradizione,
ancora oggi, mostra il pozzo interno, detto di S.Caterina. Il furore della
guerra prima e la febbre edilizia poi, hanno pure sommerso l'antica edicola
della Madonnetta, cara e superstite testimonianza dei luoghi legati al
passaggio della Santa e ove essa, mossa a pietà per la sorte degli abitanti,
era sostata in ardente preghiera, impetrando, dal Cielo,. la liberazione dalla
peste.
Proprio in
questi luoghi, aveva fatto promettere ai nostri padri di costruire una
Cappella, in onore della Santissima Trinità, assicurando che il paese non
sarebbe stato più molestato dal terribile morbo.
Una nota,
tardivamente inserita nella relazione, aggiunge che la Santa « passò per altra
strada che conduceva verso la Chiesa di Nostra Signora della Santissima
Nunziata, detta allora di Nostra Signora delle Grazie e che da un romito era
custodita, vi entrò e vi fece orazione, quale finita si licenziò da loro col
ringraziarli della carità usatale e con darli la santa benedizione, s'instradò
alla volta di Genova».
La cronaca di
Simon Maffeo chiarisce inoltre, dal punto di vista storico, un particolare
importante e cioè che la Santa si fermò a Varazze per vedere la patria di un
altro luminare e santo del suo Ordine, il Beato Jacobo da Varagine, famoso per
la sua « Legenda Aurea », uno dei libri più noti e ricercati nel Medio Evo, la
cui lettura aveva formato il pascolo spirituale di Caterina giovinetta.
Ma non
dobbiamo dimenticare che, oltre alla pacificazione, attorno al Papato,
dell'Italia, allora divisa e travagliata dalle fazioni, la mente di Caterina
aveva pure concepito un altro ardito disegno: la necessità di una Crociata per
liberare i Luoghi Santi, in possesso dei discendenti di Maometto. Nulla di
strano quindi se, anche per la realizzazione di questo obiettivo, la Santa
abbia approfittato della venuta a Varazze per incontrarsi col Vescovo
Betlemmita Alderamo, allora di stanza in questa nostra città, ove i suoi
predecessori, profughi di Terra Santa, si erano rifugiati, nei precedenti
secoli, creandovi una piccola diocesi autonoma.
Con questo
personaggio, assai influente, al quale facevano capo altri prelati orientali,
certamente la Santa prese contatto, per concretare il piano della progettata
spedizione contro gli infedeli.
Il Santuario votivo
Il primo
sacello, dalle proporzioni modeste, sarebbe stato edificato, pochi anni dopo la
venuta di S.Caterina, come si rileva da una nota aggiuntiva alla cronaca di Simon
Maffeo: « Per la santità della medesma (S.Caterina), per l'evidenza dei
miracoli, per la sua intercessione, restò deliberato dal parlamento di
fabbricare la sudetta Cappella e di celebrare la festa, che viene a 30
d'aprile, di precetto, con voto di andare ad adorarla processionalmente, come
si pratica ogni anno, con intervento di persone forestiere e luoghi circonvicini
».
Il documento
ci rivela così che la venerazione verso S.Caterina era già profondamente
radicata nel cuore dei Varazzini, prima ancora del riconoscimento canonico del
culto, avvenuto, per opera del Papa Pio Il, il 29 Giugno del 1461.
L'esistenza, ab
antiquo, della chiesetta è inoltre attestata da una deliberazione del Generale
Parlamento, del 27 Aprile 1625, in cui si parla di « cappella antica fabbricata
in onore della Santa, posta al principio di detto luogo del Solaro, da levante
». Con tale atto il Parlamento decretava giorno festivo il 29 Aprile e «
proponeva pure di deliberare una regolare forma di culto, supplicando umilmente
il Serenissimo Senato di Genova di approvare quanto sopra ».
Nei documenti
della Comunità vengono ricordati i nomi dei più insigni benefattori che, con i
loro lasciti, provvidero all'ampliamento e al decoro della primitiva Cappella.
Alla cospicua
munificenza della famiglia Dardaglia si deve infatti la costruzione, verso il
1630, dell'attuale chiesa, intitolata alla SS.Trinità, ma sempre detta di S.
Caterina.
Non solo le
persone più facoltose, ma indistintamente tutti i Varazzini, compresi quelli
sparsi nelle due Americhe, con generose spontanee elargizioni, in ogni tempo,
andarono a gara per abbellire il santuario cateriniano, sì da trasformarlo in
un vero gioiello artistico.
Le ricche
decorazioni e i pregevoli affreschi, nell'interno, i quali rappresentano gli
episodi più salienti della vita della Senese e che, in particolare si
riferiscono alla sua venuta in Varazze, sono stati eseguiti, nel secolo scorso,
ad opera dei più rinomati pittori dell'epoca.
Sull'altare
si ammira un grande quadro ad olio, dipinto, nel 1870, dal valente pittore
Francesco Gandolfi di Chiavari; al suo genio sono pure dovuti, nella volta, il
medaglione della SS.Trinità e, nella lunetta dell'abside, il quadro che
rappresenta, con mirabile potenza, la desolazione del colera di Buenos Aires
del 1867. Sempre del Gandolfo, nel presbiterio, « in cornu Evangelii » l'arrivo
di S.Caterina a Varazze, devastata dalla peste e, « in cornu epistolae » il
giuramento fatto dagli Anziani della Comunità, dal popolo e dal Clero di
erigere la Cappella nel luogo indicato dalla Santa.
Discendendo
nella navata, l'occhio è richiamato da due stupendi affreschi, veri capolavori,
dovuti all'ingegno di un celebre figurista, Santo Bertelli, che li dipinse nel
1890. Quello a destra rappresenta S.Caterina che, con le sue infiammate parole,
cerca di persuadere il pontefice Gregorio XI a ritornare in Roma, nell'altro, a
sinistra, l'artista ha ritratto la scena commovente e celestiale di Gesù che
porge il pane eucaristico alla Vergine Senese.
Gli ultimi
due affreschi, in fondo alla navata, risalenti al 1892, sono opera dell'arte
vigorosa di Luigi de Servi da Lucca, pittore dalle tinte smaglianti e dal
disegno sicuro. Nell'affresco a destra è illustrato l'episodio in cui la Santa,
minacciata da un'orda di faziosi, riesce ad ammansirli, offrendo la sua vita;
in quello della parte opposta è dipinta l'estrema dipartita di S.Caterina, con
tale maestria, da suscitare profonda commozione nell'animo.
Nella volta
della chiesa campeggia un grandioso affresco rappresentante lo sposalizio
mistico di S. Caterina, opera del pittore Luigi Gainotti di Genova, allievo del
famoso Nicolò Barabino.
Le decorazioni
e gli ornamenti del presbiterio sono del pittore Benvenuto, quelli della navata
di Francesco e Achille De Lorenzi. 1 putti, meravigliosamente belli, della
volta e quelli che sormontano gli archi delle finestre sono creazioni dovute al
magico pennello di Luigi Gainotti.
Nel 1938, la
primitiva facciata, troppo modesta e che non armonizzava con l'interno, venne
sostituita con quella che si ammira attualmente, opera monumentale, costruita
su disegno del celebre architetto Del Giudice.
Altri
innumerevoli lavori di restauro e di abbellimento vennero compiuti ancora in
questi passati anni, come la esecuzione delle ricche ed artistiche vetrate
istoriate, che completano il rosone centrale e le finestre laterali della
facciata.
A questo
tempio, ingentilito dall'arte e rilucente d'ori e di fregi, sacro palladio
della loro città, i Varazzini, il 30 aprile d'ogni anno, accorrono in devoto
pellegrinaggio, presenti le autorità, per compiere un rito di riconoscenza e di
amore intramontabili.
Nel clima di
un immutato fervore religioso, si rinnova così, per secolare tradizione, la
promessa solenne che i nostri padri fecero alla Vergine di Siena, quando essa
vivente, nel lontano ottobre del 1376, accolse sotto la sua protezione il paese
e lo liberò dalla peste.
Da quel giorno,
i Varazzini non cessano di invocare fidenti l'aiuto di Colei, che prescelsero a
loro Celeste Patrona. Mille voci di un popolo devoto e riconoscente, come
sempre, si levano ancora, nell'esaltazione della Santa che, in trionfale
apoteosi, passa per le contrade della nostra ridente cittadina.