Varazze, chiostro di S. Domenico, 16 luglio 2004

UN MONDO DI CITTA'

Prof. Arnaldo Bagnasco

 

Sono molto grato a don Giulio che mi ha dato l’opportunità di partecipare a questa settimana di iniziative culturali che si richiamano a Jacopo da Varagine.

Noi ricordiamo il beato Jacopo per molti motivi, e certamente pensando a lui viene subito alla nostra memoria la Legenda Aurea, forse il libro più letto nel Medioevo dopo la Bibbia, della quale peraltro Jacopo fu traduttore in lingua volgare, una traduzione oggi perduta. Ma di lui conosciamo anche cronache della vita politica e civile genovese, della quale – come tutti sappiamo - fu un rispettato e ascoltato protagonista di primo piano.

Ed è proprio questo aspetto della complessa figura di Jacopo che mi è venuto subito alla mente quando il parroco e Marco Damonte mi hanno chiesto di proporre un tema per questa serata. In effetti siamo entrati in un’epoca nella quale le città stanno ridiventando, per molti aspetti, momenti decisivi e attivi dell’organizzazione complessiva della società. Naturalmente quasi sempre lo sono state, ma come cercherò di mostrare la loro posizione e il loro ruolo stanno cambiando, e anche se la storia non si ripete mai, tuttavia il cambiamento sta avvenendo in una direzione che per certi aspetti porta le città, come vedremo in particolare le città europee, ad assomigliare di più alle città-stato del tipo di Genova, ai tempi di Jacopo. Ma, come ho già detto, la storia non si ripete mai e le città sono oggi anche molte cose diverse, molto diverse dal passato e diverse fra loro. Anzitutto per le dimensioni: ai tempi di Jacopo Genova contava grosso modo centomila abitanti ed era una delle più grandi città d’Europa. Oggi Tokyo è la più grande città del mondo con poco meno di trenta milioni di abitanti, vale a dire metà della popolazione italiana.

Il titolo della conversazione di questa sera – un mondo di città – sta anzitutto a significare che nel mondo contemporaneo, considerando tutti i continenti, ormai la maggioranza della popolazione vive in una città, e non più prevalentemente dispersa sul territorio o in piccoli villaggi. Più precisamente, le previsioni statistiche dicono che questo avverrà nel giro dei prossimi venti anni. Noi, dunque, viviamo in un mondo di città. Per questo motivo, molti problemi sociali di oggi – la povertà, la sicurezza, la salute, e così via - si presentano come problemi urbani, o comunque si manifestano e sono concretamente e quotidianamente vissuti e gestiti a livello di città. Questi problemi delle società di oggi non possono evidentemente essere risolti solo a livello di città, ma non solo le città si trovano in prima linea nel farvi fronte, sono anche luoghi e attori decisivi per concorrere ad affrontarli con successo. Sono dunque luoghi decisivi di un possibile impegno sociale e politico per una società più a misura d’uomo.

 

Ma andiamo con ordine.  Per mostrare il significato delle città per l’organizzazione complessiva della società, vi propongo di gettare un rapido sguardo, a volo d’uccello, alle città nella storia. In effetti, basta osservare in momenti successivi la dimensione delle più grandi città in Europa – il nostro volo si limiterà all’Europa – per vedere che questa classifica segue i grandi tornanti della storia e rivela facilmente il ruolo nella storia delle città.

Nell’anno mille Costantinopoli e Cordova, con circa 450.000 abitanti sono le più grandi città dell’Europa. Costantinopoli è allora la capitale dell’Impero bizantino e Cordova è la sede del più potente califfato della Spagna, all’epoca della massima espansione dell’Islam in Europa. Anche Palermo, quarta città d’Europa, è all’epoca una città islamica. Roma allora è molto più piccola: solo 35 mila abitanti, due volte Varazze di oggi.

Spostiamoci di quattro secoli. Nel 1400 Costantinopoli, Cordova, Palermo sono uscite dalla classifica delle dieci più grandi città.  Non ci sono più città delle dimensioni che queste avevano quattrocento anni prima, e la città più grande d’Europa è ora Parigi, già capitale di uno stato in formazione, ma subito dopo troviamo Milano (125 mila abitanti), Bruges, Venezia, Genova, Gand. Queste sono le più grandi delle nuove città commerciali e finanziarie del capitalismo nascente, le libere città-stato in un corridoio che dall’ Italia risale fino al mare del Baltico: è l’Europa delle città, fatta di molte piccole isole urbane in un vasto continente ancora in gran parte agricolo e feudale. In questo corridoio centrale si produce e accumula ricchezza, mentre a destra e a sinistra si consolideranno progressivamente grandi stati nazionali, che accumuleranno forza militare e capacità di grandi amministrazioni: la Francia, la Spagna, la Prussia. Genova era dunque una di queste città-stato, e già lo era due secoli prima ai tempi di Jacopo.

Nel 1700 la più grande città d’Europa torna ad essere Costantinopoli, questa volta  capitale dell’Impero Ottomano, con 700 mila abitanti, ma seguono subito Londra e Parigi, due capitali di  stati nazionali, mentre le città-stato perdono rapidamente terreno.

Nel 1900 ai primi posti sono saldamente insediate le capitali politiche degli stati nazionali, che concentrano popolazione, ricchezza, funzioni di governo. Londra è la più grande città. con 6 milioni e mezzo di abitanti, e vengono poi Parigi, Berlino, Vienna, Pietroburgo, Mosca. Compare però anche un nuovo tipo di città. Con oltre un milione di abitanti Manchester e Birmingham sono le due più grandi città di un nuovo tipo: le città industriali, le fumose città-fabbrica del capitalismo industriale.

In questa rapida ricognizione storica, le città risultano le tracce dei grandi mutamenti generali dell’organizzazione sociale, ciò che rivela la loro importanza.  Ma anche abbiamo visto che sul lungo periodo entrano e escono di scena, crescono e diminuiscono di dimensione, e che ne esistono di tipi diversi: capitali politiche di grandi imperi; piccole città-stato commerciali come Genova, che producono ricchezza con traffici e finanza; capitali dei nuovi stati nazionali che si formano lentamente nel corso dei secoli, grandi città-fabbrica della nuova industria moderna.

 

Ci siamo fermati all’inizio del Novecento: cosa è successo dopo e cosa sta succedendo oggi?  Per vederlo ci spostiamo ora a un quadro mondiale.

Nel 1975 New York era la più grande metropoli del mondo (con venti milioni di abitanti) seguita da Londra e Parigi. Ma venti anni dopo, nel 1995, il quadro è già molto mutato. Le città europee escono dalla scena e New York arretra al terzo posto, Los Angeles è solo settima: il fenomeno metropolitano ha ormai le sue punte avanzate fuori dall’Occidente sviluppato. Tokyo, con 27 milioni, e poi San Paolo, Città del Messico, Bombay, Shanghai, Pechino, Calcutta, Seoul sono le più grandi città del mondo, tutte sopra i dieci milioni di abitanti. Ma il quadro è in rapido movimento. Le proiezioni ci dicono che nel 2015 né l’Europa, né gli Stati Uniti avranno ormai una metropoli fra le dieci più grandi del mondo, e la più grande agglomerazione, Tokyo, raggiungerà come dicevo all’inizio poco meno di 30 milioni di abitanti. 

Dobbiamo fare qualche osservazione importante leggendo questi dati. Anzitutto le dimensioni non sono più, come lo erano una volta, un buon rivelatore dell’importanza di una città nell’organizzazione economica e politica in un’epoca di economia globalizzata, vale a dire sempre più organizzata a scala planetaria, superando le distanze. Da questo punto di vista si è osservata la comparsa di un nuovo tipo di città, la cosiddetta città-globale, dove tendono a concentrarsi funzioni di governo e controllo dell’economia mondiale. Le maggiori imprese, banche, società finanziarie, agenzie pubblicitarie, società di telecomunicazione, grandi studi legali che operano a scala transnazionale sono organizzatori della nuova economia che tendono a concentrarsi in relativamente pochi luoghi strategici. Se grandi città come New York e Tokyo sono città-globali, nel senso detto, lo sono anche centri minori come Miami, Sydney o Toronto, e in Europa, Parigi, Londra, Francoforte, Amsterdam, Zurigo, tutte città queste che non sono fra le più grandi del mondo. La globalizzazione dell’economia ha influenzato anche le grandi metropoli dei paesi in via di sviluppo: alcuni centri come San Paolo, Buenos Aires, Città del Messico sono in certa misura città-globali. L’impatto delle nuove funzioni è tuttavia minore e comunque meno visibile, proprio per le enormi dimensioni dell’agglomerato urbano che richiama immigrazione dalle campagne povere.

Siamo così arrivati a una seconda osservazione. La crescita dimensionale comporta ovunque problemi di organizzazione sociale difficili, ma questi sono davvero drammatici nel caso dei paesi più poveri, in modo particolare dell’Africa. Quello che maggiormente impressiona in questi casi è la difficoltà dei problemi a fronte della rapidità della crescita. Faccio solo un esempio. Lagos, in Nigeria, che aveva nel 1995 circa 10 milioni di abitanti, raggiungerà 24 milioni nel 2015. Questo significa che in venti anni ingloberà una popolazione pari a undici volte quella attuale del comune di Milano. Davvero siamo di fronte a delle bombe demografiche innescate in molti punti del mondo. Non possiamo aspettare i tempi di una qualche specie di riequilibrio naturale sul lungo periodo: a questa scala, gran parte del problema delle città sfugge alle possibilità di intervento delle sole città. Diventa anche un altro problema, rispetto a quello che possiamo porci questa sera: perché diventa il problema dell’organizzazione economica e politica del mondo.

 

Torniamo dunque a un quadro più circoscritto, più vicino ai nostri, certamente meno gravi problemi. Forse lo sguardo che abbiamo dato alle difficili metropoli del terzo mondo ci permetterà un maggiore equilibrio nel valutare i nostri problemi, oltre che ricordarci le nostre responsabilità più generali in un mondo che diventa più piccolo. Torniamo dunque di nuovo alle nostre città, e riprendiamo qualche tema che avevo avanzato all’inizio.

Dobbiamo anzitutto considerare quello che appare un paradosso. Viviamo in un mondo che diventa sempre più piccolo. Usiamo la parola globalizzazione per indicare che sempre più le economie nazionali stabiliscono relazioni a distanza, con reti di produzione e distribuzione che si espandono su tutto il mondo. Assistiamo a flussi crescenti di persone, idee, informazioni, prodotti, movimenti sociali, che come fiumi passano da un luogo ad un altro. Nonostante ciò, è evidente a tutti i ricercatori che un tale processo di globalizzazione è accompagnato da un parallelo processo di regionalizzazione: vale a dire, non si perde, anzi spesso cresce l’importanza delle forme stabilizzate di convivenza e organizzazione sociale in regioni, città, paesi. Il paradosso sta nel fatto che oggi tutti possono muoversi con più facilità, e che un’impresa può spostarsi con facilità altrove, seguendo le convenienze del mercato; tuttavia, il radicamento locale delle persone e delle attività continua a essere decisivo, anzi assume nuovi significati e convenienze. Come mai?

Ci sono tre ordini di motivi. Il primo riguarda quella che i sociologi chiamano la cultura, e il bisogno psicologico di una identità, nella quale riconoscersi. Se il mondo diventa piccolo perché è possibile stabilire veloci relazioni a distanza, è anche vero che diventa al tempo stesso grande e lontano nell’esperienza quotidiana di ognuno di noi. Abbiamo la sensazione che molto della nostra vita dipende da decisioni che sono prese non sappiamo da chi e non sappiamo dove. Le culture e le tradizioni locali diventano allora elementi rassicuranti, che permettono anche di tessere con facilità rapporti con altri che tali culture e tradizioni condividono. Queste culture locali sono importanti, ma per funzionare devono continuamente essere rielaborate, aperte all’esterno, capaci di assimilare quanto serve a mantenerle vive adattandole. Pena la chiusura e l’isolamento. Le culture locali che guardano solo indietro, chiuse in se stesse, non sono in grado alla lunga di soddisfare quel bisogno di identità e di riconoscimento per cui sono ridiventate oggi importanti.

Un secondo motivo di ciò che abbiamo chiamato regionalizzazione, è di natura economica. E’ vero che gli uomini, le imprese, i capitali possono spostarsi con facilità, tuttavia l’economia continua a essere organizzata per sistemi economici locali. Ci sono buone ragioni per spostarsi seguendo i mercati, questo aiuta a mantenere efficienza; ma ci sono anche convenienze a rimanere ancorati in un sistema locale che fornisce risorse che altrimenti possono andare perdute. Anni fa, lo abbiamo capito bene in Italia guardando ai cosiddetti distretti industriali di piccole imprese, quelle specie di paesi-fabbrica che si sono diffusi come funghi nei decenni passati soprattutto in regioni come il Veneto, l’Emilia, la Toscana, le Marche, anche la Lombardia. Qui si trovavano insieme una serie di fattori favorevoli allo sviluppo di particolari produzioni che di solito chiamiamo del “made in Italy”: abbigliamento, scarpe, pelletteria, mobili, ma via, via anche produzioni più complesse della meccanica o dell’elettronica. Fra i fattori favorevoli c’erano tradizioni artigiane locali, ma anche vie di comunicazione attrezzate, banche locali diffuse, buone scuole e servizi sociali, famiglie contadine che potevano immettere nel nuovo mercato del lavoro uomini e donne che già avevano una casa e che se all’inizio non guadagnavano molto potevano però anche contare sulla produzione per l’autoconsumo del resto della famiglia; nel tempo le tecniche e il saper fare ereditato erano aggiornati sino a costituire un sapere diffuso, specifico di quel tipo particolare di produzione. Inoltre, la conoscenza diretta permetteva rapporti facili e più sicuri di collaborazione. Oggi molti di questi distretti si sono più aperti all’esterno, si sono aggiornati e hanno tenuto il passo; altri si sono chiusi troppo nei caratteri originari, e sono in  difficoltà. L’esempio comunque mostra che cosa sia un sistema economico locale, dove uomini e imprese trovano convenienze comuni in risorse localizzate, anche nelle economie di oggi aperte sul mondo.

Con il tempo ci siamo accorti che una simile logica di sviluppo toccava anche le città.  Le città sono evidentemente sistemi più complessi e differenziati, ma ogni città ha una sua specifica economia, che ha bisogno di essere a contatto con scuole e università che diffondono una specifica cultura scientifica e tecnica, con centri di ricerca che queste conoscenze producono, con sistemi finanziari sensibili alle loro specifiche necessità, ma poi via, via anche con una buona organizzazione che renda facile la vita quotidiana, un sistema sanitario efficiente, comunicazioni fisiche e elettroniche con il mondo bene attrezzate, e così via. In certa misura questo è sempre stato vero. Il fatto nuovo è che i settori e le filiere dell’economia diventano sempre più differenziate, tecnicamente e organizzativamente, e che sono in rapida e continua evoluzione; una città deve avere le idee chiare, scegliere i prodotti e i servizi su cui puntare e fare arrivare all’appuntamento tutto ciò che serve per la loro crescita, producendo la conoscenza e i servizi necessari, o attrezzandosi per acquisirli all’esterno.

 

Su questo si innesta allora un terzo motivo che spiega le tendenze che abbiamo chiamato di regionalizzazione,  un motivo che – dopo la cultura e l’economia - riguarda la politica.

Con l’apertura dei mercati e la globalizzazione gli stati nazionali sono in difficoltà. Si vedono scavalcati da una economia più libera e sregolata, hanno difficoltà a formulare e fare rispettare politiche economiche e fiscali efficaci. Si verifica allora un fenomeno che si ripete nella storia. Quando poteri superiori sono confusi o in difficoltà le città riacquistano spazi di autonomia e iniziativa politica. Era il caso, lo abbiamo visto, delle vivaci città-stato nella confusione di poteri fra Medioevo e Rinascimento, quando gli stati nazionali erano ancora in formazione. Ecco perché all’inizio dicevo che per qualche aspetto le città di oggi ricordano la Genova di Jacopo da Varagine.

In effetti, le città oggi si stanno attrezzando per presentarsi all’esterno come attori politici e economici in certa misura unitari: fanno una loro politica estera, per così dire, contrattano con Roma e con Bruxelles, a seconda dei casi, fanno alleanze tra di loro per sostenere una legge, e così via. Al loro interno, prende forma un nuovo modo di fare politica. Perché, come ha detto un economista, una volta uomini, capitali, imprese erano radicati in una città, oggi sono ancorati a una città. Ci sono per loro importanti vantaggi a essere in un porto dove collaborano con altri, trovando ciò di cui hanno bisogno; ma se queste condizioni vengono meno, salpano l’ancora e se ne vanno, più facilmente di una volta. Fare politica a livello locale significa allora, oggi convincere attori diversi, pubblici e privati a coordinare sul lungo periodo le loro strategie e i loro investimenti, in modo che arrivino sempre all’appuntamento le cose che rendono conveniente continuare a cooperare. E’ un nuovo mestiere difficile, che i politici devono imparare a fare rapidamente. E’ quella che oggi si chiama la pianificazione strategica delle città.

Ma la politica locale è caricata di altri, nuovi e pesanti compiti che riguardano i servizi, l’assistenza, la sanità, in generale quello che si chiama il sistema di welfare. Molti compiti che prima erano dello stato sono ora scaricati a livello locale. Una organizzazione pubblica con scarsi mezzi finanziari e una rete di iniziative associative devono imparare a dialogare per farsi carico in modo efficiente di questi problemi.

Come dice un grande sociologo contemporaneo, Ralph Dahrendorf, il problema delle società di oggi è come tenere insieme sviluppo economico, equità sociale e partecipazione democratica. Le cose che ho detto sulla nuova politica nelle città sono forse sufficienti per intuire che nelle città di oggi si fanno esperimenti interessanti su come tenere insieme valori accettabili di queste tre dimensioni. E che quelli che si fanno a scala locale possono essere anche esperimenti per applicazioni più generali. Le città possono insegnare molto al riguardo.

Le città, per quanto ho detto, risultano in ogni caso momenti cruciali dell’organizzazione complessiva di una società. In questa prospettiva, siamo allora oggi in grado di valutare pienamente una particolarità dell’Europa. Con alle spalle la storia che ho prima brevemente ricordato, l’Europa, ci dicono i geografi, non è diventato il continente più urbanizzato del mondo, ma nessun altro continente possiede una così fitta armatura di centri grandi, medi e piccoli, ben collegati fra loro, che organizzano la società nello spazio: da un qualsiasi punto d’Europa si può raggiungere in auto una città al massimo in un’ora. Nelle nuove condizioni dello sviluppo, questo patrimonio in parte è tornato a riattivarsi, ma costituisce una risorsa straordinaria ancora da valorizzare; sulle città possiamo a ragione fare affidamento, come serbatoi di identità radicata nella storia, come motori di sviluppo economico, come attori capaci di nuove forme di partecipazione politica. La civiltà delle città è certamente un tratto distintivo dell’identità europea, destinato a durare.

 

Concludo con la domanda che forse avrei dovuto fare all’inizio: in sostanza, cosa è una città? Intuitivamente tutti lo sappiamo, ma vi assicuro che chi ha provato a darne una definizione precisa e univoca si è trovato di fronte a molti problemi. Sociologi, storici, geografi ci hanno proposto molte definizioni, che sono molte perché la città può essere osservata da punti di vista diversi.  Scelgo allora quella che mi piace di più, una definizione formidabile, anche se sembra una battuta di spirito. E’ stato un antropologo a suggerirla: una città è un posto dove si può trovare una cosa mentre se ne cerca un’altra. Sembra uno scherzo, ma non è così. La definizione infatti rivela la funzione culturale delle città, e il meccanismo per cui nella storia la città è stata sempre il crogiuolo delle innovazioni. Il punto è che in città possiamo continuamente incontrare persone diverse, esperienze per noi nuove e inattese, e questa possibilità di accedere a diversi modi di vedere, pensare, fare può rimescolare le nostre carte mentali, affinare, complicare nostri modi abituali di vedere. La varietà, ma anche la casualità di queste esperienze aumenta la possibilità di nuove sintesi culturali inattese. Inoltre, la città è abbastanza grande perché chi fa l’ esperienza di trovare una nuova idea combinando una sua precedente con una che ha trovato per strada, trovi anche qualcuno che accetti di coltivare la novità. In questo modo può nascere una corrente artistica, un settore di nuovi servizi, al quale non si era mai pensato, un movimento politico. La novità potrà rivelarsi caduca, non attecchire, essere respinta; in altri casi diventerà un nuovo patrimonio condiviso. Da questo punto di vista, una città, una vera città è un posto dove si può trovare una cosa mentre se ne cerca un’altra. La definizione non dà eccessiva importanza alle dimensioni: una grande città può essere troppo omogenea e isolata, e non permettere questi effetti, mentre vivace e attiva può essere anche una piccola città, se è abbastanza aperta e diversificata.

A questo punto dobbiamo però mettere in conto i caratteri delle grandi metropoli di oggi, diventate più pericolose, caotiche, conflittuali. Questo suscita comprensibili reazioni di paura e distacco: nelle grandi città le differenze sono segregate in luoghi diversi, senza comunicazione. Nelle grandi città dei Paesi avanzati le classi sociali più segregate sono quelle più ricche, che tendono a isolarsi in fortini ben difesi. L’equilibrio tra accessibilità al diverso e separazione è un equilibrio obiettivamente difficile, per diverse ragioni. Osserviamo però che se prevalesse la separazione, la non accessibilità al diverso, questa – nei termini della nostra definizione – significherebbe la morte della città.

 

Abbiamo fatto insieme questa sera un viaggio nel tempo e nello spazio, partendo dalla Genova di Jacopo da Varagine, sino alle grandi megalopoli di oggi, cariche di problemi. Avrei potuto parlarvi di molte altre cose delle quale si occupano i sociologi quando studiano le città, ma sarei comunque soddisfatto se fossi riuscito con quanto vi ho detto a comunicarvi la sensazione che vale davvero la pena di impegnarsi nella vita sociale e politica delle nostre città, di prendersi cura della città, nelle piccole come nelle grandi cose.

 

 

( Varazze, 16 luglio 2004 )