"TRISTEZZA"
Don Paolo Notari
 
 
Achedia. Il nome greco è intraducibile nella lingua moderna. Nell’antichità si chiamava accidia. “Atonia dell’anima” la chiama Evagrio Pontico, un monaco vissuto nel quarto secolo. Egli intendeva quello stato d’animo di malavoglia, di disgusto della vita, di scoraggiamento, di pigrizia, di sonnolenza, di malinconia, di riluttanza, di tristezza, di demotivazione…
Successivamente – nella cultura occidentale - San Gregorio Magno l’ha definita “Tristezza”,
nell’elenco che ha fatto dei vizi capitali. Uno studioso contemporaneo l’ha definita “il prezzo di
essere uomo”. È quando non si sopporta di rimanere da soli, non si riesce a stare in armonia con il proprio corpo, si sente come una instabilità che rende incapaci di un rapporto equilibrato con lo spazio e con il tempo. Continua la descrizione di Evagrio: “l’accidia fa si
che il sole appaia lento a muoversi, che il giorno sembri di cinquanta ore”. È come una infelicità non precisata che porta la persona a disdegnare ciò che ha (il lavoro gli affetti, i rapporti in cui vive) e a sognare una vita irraggiungibile, la fa essere inefficiente nel lavoro, nello studio, intollerante e incapace di sopportare gli altri che diventano il bersaglio su cui scaricare la propria aggressività.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica la definisce “una forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, ad un venir meno della vigilanza, alla mancata custodia del cuore”.
Quanti conosciamo che sono tentati di rompere con la propria vita passata, di rompere il vincolo matrimoniale ad esempio, o di abbandonare i voti religiosi, o comunque di “cambiare”.
Gli antichi monaci lo chiamavano il “demone meridiano”. Quello che colpisce a metà del giorno, nelle ore più calde, al momento dell’unico pasto che i monaci facevano.
Oggi ci sono studiosi che vedono un’analogia con la crisi del superamento della mezza età, verso i quarant’anni, quando la vita sembra non crescere più e si fanno seriamente i conti con la parabola ormai discendente, cioè con la morte… “Sembra vi sia una causa biologica
alla base di quel senso di apprensione, di quei tormentati interrogativi, della mancanza di
entusiasmo in uomini e donne poco dopo la trentina…” (Richard Church). C’è chi reagisce
con la depressione, con la svalutazione di sé, l’attaccamento al potere (nelle tante forme che può assumere), col rigidismo legalista, con l’eccesso di bere o mangiare, con l’intontimento…
Ma come combattere l’accidia? Prima di tutto accettando i limiti. Dell’esistenza umana. Le
imperfezioni e le incapacità che ci abitano. Perché il limite è sano. De-limita, appunto. Fa scoprire i confini. Che non siamo infiniti. Saper sorridere e guardare con simpatia i nostri e
altrui limiti è un’arte preziosa e rara. Chi è capace di questo e ci è vicino lo consideriamo una compagnia che rasserena e una persona da non lasciar perdere. Poi la perseveranza. Quando abbiamo ammirato questa virtù nei nostri genitori ad esempio, abbiamo cominciato a considerare il valore sul quale hanno mostrato tenacia come un valore assolutamente
prezioso. Ed è diventato determinante anche nella nostra vita. Quasi sempre.
Poi la pazienza, è cioè l’arte di vivere l’incompiuto, rinunciando alla pretesa infantile di
avere tutto e subito. Poi una vita di relazioni. Aiutano a conservare il senso delle proporzioni. Se ti chiudi in te stesso tutto diventa sproporzionato. Successi e sconfitte. Poi farsi aiutare. Molto spesso la vera umiltà si riconosce nella capacità di chiedere aiuto. Poi la preghiera. Perché protegge e coltiva il cuore. La sede delle decisioni e degli affetti più sacri.
Infine è bene raccogliere da Evagrio Pontico un prezioso consiglio: “fissati una misura in ogni
opera”. Datti una regola. Esercitati a diventare padrone di te stesso.
 
Don Paolo Notari
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1 E. Bianchi, Lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli,
1999, p.49