Index scritti di don Armando
Index scritti di don Armando


Così don Armando ricorda la sua esperienza pastorale nella parrocchia di Valliera nel periodo dell’alluvione del Po. Questo scritto è stato pubblicato su "Lettera della Commenda", Maggio-Giugno 1997, numero speciale in occasione del suo 50° anniversario di ordinazione presbiterale.


I mille giorni di Valliera
(appendice del "Diario di un curato di campagna")

Quarantasei anni fa, in un giorno feriale per il calendario, festivo e gioioso per il mio cuore, trepidando, iniziavo la mia prima esperienza di parroco, allora giovanissimo. Era la fine di settembre del 1951.
Lasciavo Trecenta, dove avevo svolto il primo servizio ministeriale come cappellano, e venivo inviato a Valliera, un paese che, almeno allora, non appariva sulle carte geografiche: una strada lunga che intersecava la statale per Adria e continuava sul vecchio argine del Canal Bianco, punteggiata di poverissime abitazioni, che alla meno peggio davano ospitalità a quasi 1500 anime.
Con le poche masserizie di casa, che la mamma, rimasta sola, conservava come unico suo patrimonio, arrivavo in quel paese, alla chetichella.
Quando qualcuno notò l'arrivo del nuovo parroco, le due piccole campane sopra la chiesa squillarono, non so se per avvertire dell'"avvenimento" o per far festa. Fu comunque tutta la mia festa d'ingresso: i primi a farsi notare sono stati i bambini. Erano tanti, malamente vestiti, molti scalzi. Piovigginava. E iniziò subito la mia attività.
Dopo pochi giorni scomparve l'orticello davanti alla bicocca, chiamata casa canonica, e ci fu "oratorio".
Non tardammo ad intenderci. Ero giovane, ero povero come loro. Non avevo scuola. Non c'era beneficio. La "congrua" neppure. La parrocchia doveva essere ancora riconosciuta dallo Stato. Comunque, una fetta di polenta e un po' di pesce, qualche patata “americana” quella povera gente spartiva volentieri anche col parroco.
Il Vescovo di tanto in tanto mi passava un piccolo sussidio: per me e la mamma bastava. La sorella non era ancora con me.
Intanto mi viene comunicato che il 14 novembre ci sarebbe stata la visita pastorale. Mi dò da fare per tutto ben disporre e per organizzare una calda accoglienza al Vescovo.
Non leggevo i giornali, non solo per mancanza di tempo, ma anche perché in paese non si vendevano. Non sapevo che nei primi di novembre, per le piogge ininterrotte, i fiumi erano in piena e che il Po minacciava di rompere. La giornata che per il Polesine fu una delle più tragiche di questo secolo, per me, indaffarato nell'impegno della visita pastorale, fu, oltre che di fatica, giornata di grande soddisfazione. Tutto il paese passò lungo l'argine verso la chiesa ad incontrare il Visitatore, che (ricordo) si disse meravigliato e sorpreso perché i bambini presenti all'esame di catechismo erano più numerosi degli iscritti: 180 infatti sfilarono davanti a lui.
All'indomani della "grande" giornata, vedendo passare sulla alta strada arginale gente con buoi e carriaggi, venni a sapere che, la sera innanzi, il Po aveva rotto e che l'acqua dilagava nel Polesine.
Ero a Valliera da soli 40 giorni. Ancora non avevo finito di sistemare le poche cose di casa.
Il 16 novembre, giorno del mio 27° compleanno, in paese c'era solo una ventina di persone. Tutti erano fuggiti. Nessuna casa, neppure la mia, e la chiesa, erano risparmiate dall'acqua. La mamma trovò per qualche giorno ospitalità in un paese del padovano, Codevigo, poi a Lendinara, che era stata risparmiata.
Il parroco della Cattedrale di Adria Mons. Pietro Mazzocco che mi aveva cresciuto a Lendinara e mi aveva avviato Seminario, mi accolse fino a quando l'acqua si ritirò dalla chiesa e dalla casa: la vigilia dell'Immacolata.
Per quella festa la mamma era ancora con me: nell'umidità di tre stanzette, senza riscaldamento, senza servizi, senza tutto.
Poi ci fu il Natale, celebrato in una stanza al primo piano di una vecchia abitazione. Poi l’inverno. Poi il ritorno di qualcuno. La comunità cominciava a rifarsi. Ma intorno c’erano solo desolazione e squallore. Diverse case erano state abbattute dal corso dell'acqua, che in via Cavedon era stata fiume e vortice.
I pagliericci (materassi di cartocci di pannocchia), che erano il letto della maggior parte degli abitanti di Valliera, ormai fradici, erano gettati sulla strada. I mobili scollati dall'acqua erano accatastati come legna da ardere.
Ma vennero gli aiuti. Tutti ebbero qualcosa e sì ricominciò a vivere. A giugno del ‘52, per la festa patronale di San Rocco, c'era anche il campanile nuovo, al posto di quello che l'alluvione aveva reso pericolante.
Quando ci contammo per quell'occasione, eravamo poco meno di mille. Gli altri non tornarono più. Avevano trovato lavoro e sicurezza in Lombardia e in Piemonte. Con quelli che rimasero continuai a lavorare per tre anni intensi e indimenticabili. La mia storia era ormai la storia di tutti gli altri che come me avevano fatto l'esperienza dell'acqua, della paura, della ripresa e della ricostruzione.
Ora, Valliera ha una bella chiesa nuova, un’accogliente casa per il parroco, tante nuove e linde abitazioni. Ha avuto perfino la visita del Presidente della Repubblica! Quando la rivedo non la conosco più.
Sopra quella prova sono passati gli atri quattordici anni di Trecenta e quelli di Rovigo. Forse, dal settembre del 1951 al settembre 1954, ho vissuto i giorni più duri dei miei anni di prete.

don Armando Ottoboni