Index scritti di don Armando
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Discorso di addio
alla parrocchia di Trecenta

pronunciato da don Armando Ottoboni
il 13 ottobre 1968

«Di parole soltanto vado a prestito oggi, non di cuore. Se adesso lasciassi parlare il mio cuore, ne verrebbe fuori uno di quei discorsi arruffati e sconnessi che la creanza non vuole si facciano».
E io sono andato a prestito anche di queste parole che sono di don Primo Mazzolari. Vi dirò subito con San Paolo: «Miei cari, come sempre siete stati obbedienti, recate a compimento la vostra propria salvezza, non come se così doveste fare solo quando io sono presente, ma molto più adesso che sono assente» (Fil 2, 12).
Oggi, non so neanche dirvi grazie. Suona troppo interessato il ringraziamento.
E come ringraziarvi tutti? Ho ricevuto da tutti: dalle autorità cittadine fino all'ultimo parrocchiano.
Non posso neppure dirvi che vi voglio bene: parola e sentimento troppo facili in questa circostanza. «Se infatti amate quelli che vi amano, che premio avrete?» dice il vangelo (Mt 5, 46).
Siete tutti miei creditori: di preghiere, di grazie, di benedizioni, di buon esempio, di carità, di perdono, di compatimento, d'amabilità, di conforto, di speranza.
Alzando gli occhi, al primo saluto della Messa: «Il Signore sia con voi», mi sono però accorto che nessuno di voi ha la faccia del creditore spietato; ho visto e vedo volti ancora più buoni del solito, disposti a farmi credito ancora, se ciò fosse consentito, se la mia permanenza non fosse stata interrotta.
Voi non sapete che cosa mi ha fatto il Signore in 14 anni con voi. Per tacitarlo gli ho detto che tutti i miei fratelli di Trecenta son qui a far garanzia per me e a pregare per me.
E Dio crede alla vostra testimonianza: deve credervi per continuare la sua misericordia sulla povertà spirituale del suo sacerdote. E poiché voi mi avete perdonato, Egli, che non si lascia vincere in generosità, mi ha perdonato, mi ha ripreso sotto le ali della sua pietà.
Oggi, mi vesto di voi: le vostre mani mi sono date a prestito per sorreggere le mie povere braccia nell'atto di offerta, il vostro cuore mi è dato per guardare nel calice.
E per questa carità, che Dio benignamente riguarda, non esito più nella mia indegnità e nelle mie limitazioni personali: sono fuori del tempo; sono due mani che voi alzate verso il Cielo e tendete verso gli uomini; un cuore divenuto calice per tutte le vostre pene, una fatica divenuta Pane per la pace di tutti, per la gioia di tutti.
Ci siamo tutti ormai accorti e convinti che è qui, attorno all'altare, quando ci riuniamo in assemblea orante, che misuriamo nel numero, nella partecipazione, nel fervore il calore della carità e la luce della fede che animano un popolo.

E il termometro della religiosità della nostra Parrocchia è andato sempre più crescendo nel calore mistico dell'incontro settimanale della Messa, che resta l'atto più alto della nostra Fede, da cui tutto il resto trae la sua ragione d'essere e lo stimolo nell'operare.
Proprio perché la periodica convocazione dei fedeli fosse sempre più gradita, desiderata, efficace, abbiamo pensato più ad opere esterne a questa chiesa, per la vostra solidarietà diventata la calda e accogliente casa della famiglia parrocchiale.
Abbiamo messo mano al ripristino della torre campanaria perché la sua voce che traduce l'ansia del sacerdote e si fa quasi voce di Dio, avesse a richiamare, a ricordare, a invitare alla chiesa, alla Messa, alla vita cristiana.

Mi pare di poter cogliere nello schema del sacro rito della Messa, la falsariga, il filo conduttore, la filigrana, della mia presenza in mezzo a voi, della vostra amorosa presenza vicino a me.
I quattro anni della mia prima esperienza di giovane cappellano (dal 47 al 51) sono stati quasi la liturgia introduttiva, il tempo della parola, dell'accostamento e dell'avvicinamento, l'inizio del dialogo, la presa di contatto. Mi facevano buona scorta i bambini e i ragazzi di allora, fatti quasi angeli di una buona novella a tanti pressoché sconosciuta.
Tra la liturgia iniziale e quella centrale, la eucaristia, c'è stato un tempo di pausa in altra parrocchia, quasi per ripensamento, un'abilitazione a fare il mio offertorio, che avvenne appunto 14 anni fa. Con tutta la consapevolezza della mia insignificanza, ma con tutta la certezza del vostro amore mi sono offerto a voi tutti, per essere cosa vostra, per appartenervi completamente. Furono anni meravigliosi e faticosi, pionieristici e avventurosi. Un grande atto di fede, un credo senza pregiudiziali, in Dio e nella innata bontà dei miei parrocchiani siglò quel momento - Dio fu presente in modo tangibile e voi foste tanto vicini per aiutarmi ad alzare il calice nel mio e vostro sacrificio.
La chiesa rinnovata, il campanile rimesso a punto, l'asilo a fianco delle 4 opere parrocchiali, la chiesetta di Santa Chiara salvata e tante altre piccole cose operarono la consacrazione, quasi la transustanziazione dei molti desideri, di pressanti attese, di angustianti sacrifici. Fu il momento estasiante e culminante del grande atto liturgico pluriennale.
Questi ultimi anni erano diventati il terzo momento della nostra Messa: il tempo della comunione, della comune unione, dell'intesa perfetta, della gioia scambievole, della fraternità più viva. Tutto si era ormai placato e reso pacato. Lo stare assieme faceva scoprire continuamente nuove ineffabili emozioni, dolcissime consolazioni. Il grande atto liturgico si compiva e ci faceva dire con la Bibbia: «Quant'è bello e giocondo stare assieme come fratelli!» (Sal 132, 1).
Ora la mia e vostra Messa si chiude. Siamo giunti al commiato.
Con il saluto di congedo vi accompagna la mia benedizione, avvalorata da quella più grande del Signore.
Scenda su ognuno di voi larghissima per confortare le vostre amarezze, per sostenervi nelle aspre difficoltà della vita, per ridonare pace ai vostri cuori.
Siano benedetti i vostri bambini perché crescano sani e forti, generosi e puri. Scenda la pace del Signore sul vostro lavoro, sulle vostre fatiche perché mai vi manchi quanto è necessario.
Andate pure alla vostra vita di ogni giorno, ai vostri affanni, alle vostre gioie. La mia Messa è finita: ricomincia la vostra.
E diciamo pure con serenità e pace nel cuore: rendiamo grazie a Dio perché è di Lui solo che abbiamo bisogno. Gli uomini passano: Dio rimane.
Lui è necessario, noi siamo provvisori. Lui è tutto: noi siamo niente.

Tra le mani mi resta una cosa vostra tanto preziosa, indovinata, la più bella che potevate darmi per quello cui serve, per ciò che dice, per quello che ricorda: un calice. Dentro c'è colato il vostro affetto, le dolci memorie, la mia riconoscenza per voi. Ogni mattina, stringendolo tra le mie mani, nell'azione più sublime che uomo possa compiere, penserò di stringere ancora i vostri cuori e le vostre anime. Farò questo in memoria di voi.

Faccio mio un pensiero di Papa Giovanni, che parafraso e accomodo per voi e Trecenta. È tratto dal discorso di saluto e commiato dal popolo bulgaro nel Novembre 1934, quando era nunzio in Oriente:
«Secondo una tradizione conservata fino ad oggi, nell'Irlanda cattolica, nella notte di Natale, ogni casa pone alla finestra un lume, affinché avverta Giuseppe e Maria che, se passassero di là in quella notte, cercando rifugio, là dentro c'è una famiglia che li attende, attorno al fuoco e alla mensa imbandita.
Cari fratelli, nessuno conosce le vie del futuro! Dovunque io dovessi andare, se qualcuno di voi passasse dinanzi alla mia casa, di notte, in condizioni angosciose, costui troverà alla mia finestra un lume acceso.
Bussa! Bussa! Non ti domanderò se tu sei cattolico o no; fratello di Trecenta, basta, entra! Due braccia fraterne ti accoglieranno, un cuore caldo di amico ti farà festa».

don Armando Ottoboni