Vita di San Maiolo abate di Cluny
di Simona
Gavinelli
Figlio del conte di Forcalquier Maiolo era nato tra il 906 ed il 915 a Valensole dove aveva trascorso l’infanzia e la prima giovinezza come un giovane del suo lignaggio, creandosi una cultura ed una educazione esemplare. Nell’etimologia del nome Maiolus, interpretato come “grande occhio” dal latino magnus oculus, l’agiografo vuole vedere prefigurata la sua capacità di cogliere la verità, valore essenziale per agire con giustizia e rettitudine, e nel corso della narrazione cercherà di dimostrare più volte l’assiduo impegno del personaggio verso gli studi teologici e filosofici si avvicinava sempre di più a Dio. La svolta fondamentale della sua esistenza viene segnata da due eventi, tragici solo in apparenza perché provvidenziali nella mente divina. In senso cristiano, infatti, è sempre importante riconoscere un intervento soprannaturale nelle vicissitudini umane; la morte dei genitori e la conseguente perdita di tutti i beni ad opera delle invasioni saracene, non sono quindi altro che segnali e strumenti per incanalarlo sul cammino che lo attende. In prima istanza gli sembra corretto realizzare il volere divino trasferendosi presso un cugino a Macon per entrare a far parte del clero secolare come canonico. Una volta accolto tra membr
i del clero cittadino i suoi
sforzi si orientano all’accrescimento della sua preparazione culturale mediante
una sapiente selezione dei maestri; tra essi si segnala un certo Antonio, non a
caso un monaco dell’abbazia dell’Ile Barbe di Lione e dunque prefigurazione
della prossima scelta verso l’ideale monastico.
Durante questo periodo non trascura di rafforzare il suo
temperamento con l’esercizio della virtù e attraverso il dominio dei sensi:
controllava la sua lingua evitando di adulare o criticare, e non indulgeva
nell’ascolto o nella vista di oscenità. Viene poi particolarmente evidenziata
la sua generosità nei confronti dei poveri, con un tratto che, ai suoi tempi,
doveva apparire piuttosto singolare per un prelato della sua stirpe. Maiolo si
impone da principio per la sua carità ed il monaco Siro pone l’accento
sull’episodio in cui il santo, assorto in preghiera per scongiurare la
terribile carestia che ha colpito la regione, resta sconcertato dal miracoloso
reperimento di una somma in denaro che poteva essere devoluto ai poveri in modo
da alleviare le loro sofferenza. Pur piacevolmente sorpreso da questo insperato
aiuto del destino, esita ad appropriarsene immediatamente; con cautela, invece,
prima di raccoglierlo, vuole appurare che nessuno abbia perso quel denaro,
manifestando appunto un atteggiamento che, oltre a marcare la sua rettitudine
morale, suona come innata inclinazione al disprezzo del denaro che costituirà
uno dei perni portanti della spiritualità cluniacense.
Il secolo X, soprattutto dalla
seconda metà, viene considerato il secolo dei monaci, proprio grazie
all’attrattiva giocata da Cluny su gente di ogni ordine e grado. L’aristocrazia
affidava al monastero i propri giovani discendenti affinché ricevessero una
educazione confacente al loro rango; i nobili anziani si ricoveravano nel
chiostro per espiare le loro colpe nella perfezione monastica in attesa di un
sereno trapasso; ai monaci si commissionavano infine costanti orazioni per i
defunti. In questo modo essi gestivano idealmente i rapporti con l’aldilà e si
erano creati l’immagine di una minoranza privilegiata in virtù della stessa
posizione così vicina a Dio. L’ideale di castità, e l’atteggiamento di rifiuto
nei confronti della violenza e del denaro li distaccava dai comuni mortali
facendoli sentire simili a figure angelicate e perfette, le uniche degne di
servire Dio con le solenni e complicate cerimonie liturgiche. Il richiamo
esercitato dall’esaltazione dello stato monastico aiuta a capire come Maiolo,
alle soglie della sua elezione ad arcivescovo di Besançon, abbia preferito
raggiungere la valle di Cluny e formulare la sua professione al vecchio abate
Aimardo. Non si può escludere che nel racconto di questa decisione clamorosa
sia insita una sottile polemica mirata a subordinare l’autorità arcivescovile a
quella dei monaci cluniacensi. Con tale appunto si voleva ribadire la totale
autonomia della fondazione da qualsiasi infiltrazione laica o ecclesiastica. Si
cercava inoltre di imporre una nuova ideologia che fosse in grado di superare
la triste ingerenza dei signori laici all’interno delle questioni
ecclesiastiche, in quanto l’impero di Carlo e dei suoi successori si era retto
sulla stretta collaborazione tra il re ed i vescovi da lui prescelti. Alla
risonanza di Cluny non era neppure estranea la considerevole crescita
economica. Tale prosperità era dovuta ad una serie di fattori concomitanti; tra
essi c’era la sua ubicazione in diretto rapporto con le proprietà coltivabili,
il progresso tecnico del settore agricolo che si sviluppò intorno all’anno
Mille, ed un miglioramento sensibile del clima in grado di favorire le culture.
Le cronache riportano che
l’abbazia, dedicata agli apostoli Pietro e Paolo, fu fondata dal ricordato
Guglielmo il Pio, discendente, in linea dinastica, dalla famiglia imperiale.
L’impostazione pedagogica di fondo, che connoterà l’organizzazione interna dei
religiosi, si ispirava ai modelli ed ai rigidi principi della feudalità. Una
società guerriera, improntata all’azione militare, necessita comunque di guide
spirituali in grado di dirigere, nobilitare e perfino santificare le sue gesta.
In epoca carolingia il ruolo di consiglieri del re era stato ricoperto da
vescovi di alto livello, educati a corte e poi deliberatamente collocati in
sedi nevralgiche dell’impero per garantire al sovrano il controllo politico e
religioso sul territorio. Verso la fine del sec. X si assiste ad una sorta di
crisi diffusa dell’episcopato, messo in ombra proprio dalle nuove tendenze
degli abati cluniacensi che reclamavano il diritto di esser veri ed insostituibili consiglieri regi. Non
si era ancora affermato del tutto l’ideale di un monachesimo radicale:
l’entrata nel chiostro si trasformava in fuga dal mondo peccaminoso e dalle sue
tentazioni. IL contatto con il divino e l’affinamento morale fornivano
piuttosto ai monaci ulteriori capacità per influenzare le cose del mondo
modificandone il corso. Dall’alto della loro torre di perfezione, onorati,
rispettati e riveriti, i monaci di Cluny trovavano anche nello studio delle
Sacre Scritture la giustificazione teorica del loro stato di privilegio.
Significativo, a questo proposito, è l’episodio in cui Maiolo viene sorpreso
dal sonno durante una meditazione notturna in biblioteca, ma, miracolosamente,
la fiamma della candela non riesce a bruciare il foglio su cui ardeva. Il testo
che il nostro stava studiando era il De celesti hierarchia dello pseudo
Dionigio l’Areopagita, da cui la tradizione aveva attinto l’idea portante che
l’armonia concorde, tipica delle gerarchie angeliche, dovesse essere imposta a
tutte le categorie terrene. Le acclamate virtù di umiltà e di obbedienza
servono dunque realizzare questo progetto superiore, là dove l’umiltà si riduce
all’accettazione di sé e dei propri limiti e non diventa umiliazione o rinuncia
al proprio rango, e l’obbedienza garantisce la solidità delle istituzioni. La
consapevolezza di essere quasi uniformati alle gerarchie angeliche, e
soprattutto il declino del potere dei re e dei signori feudali, sprona gli
abati di Cluny ad arrogarsi la giurisdizione completa dei territori da loro
dipendenti tanto da diventare essi stessi effettivi signori “contemplativi” di
proprietà sempre più vaste.
Il suo biografo, il monaco Siro,
non accenna a nessuno di questi risvolti ma concentra la sua attenzione sul
giovano Maiolo. Egli da semplice novizio, grazie alle sue qualità viene eletto
responsabile della biblioteca, una carica di estrema importanza nella struttura
monastica. Tale mansione gli permetteva di applicarsi con maggiore fervore agli
studi biblici e filosofici; sensibile e scrupoloso, evitava tuttavia la lettura
degli autori pagani nel timore che la sua fede potesse essere inquinata. In un
periodo dominato dall’indigenza e dall’ignoranza la cultura rimaneva
appannaggio dei ricchi e soprattutto dei religiosi ed inoltre ingenerava sempre
un senso di rispettosa reverenza verso chi ne fosse provvisto. Non esisteva
però il concetto di scuola pubblica e l’educazione elementare veniva gestita
dalla buona volontà di chi masticava un po’ di latino, ossia dal clero che,
comunque, in troppe circostanze, si rivelava in buona parte ignorante e
sgrammaticato. Il livello di competenza generale non migliorava nelle scuole
capitolari poste presso le cattedrali e
costituite con l’intento di preparare alla professione i futuri sacerdoti ma
anche i notai ed i giudici. All’interno dei monasteri la responsabilità dei
livelli culturali dei monaci ricadeva invece sulle capacità organizzative degli
abati; pertanto poteva capitare che personalità di estremo rilievo fossero in
grado di dare vita ad una élite con precise finalità, come era stato
l’obiettivo di Cluny, nei confronti dello studio della Sacra Scrittura.
Maiolo fu dunque un
intellettuale, benché non ci abbia lasciato nulla di scritto. Al suo biografo
interessa di più insistere sulle vicende eccezionali che costellarono la sua
vita esemplare. Il racconto dell’invio a Roma da parte dell’abate non è
inserito casualmente, ma, al di là dell’importanza della missione da ultimare,
ribadisce il profondo legame con la sede apostolica di Pietro e Paolo, in
coerenza appunto con la dedicazione dell’abbazia. Per enfatizzare meglio questo
risvolto il monaco Siro evidenzia poi come il primo vero miracolo del santo sia
stato operato durante il viaggio verso Roma. Il miracolo è infatti il segno
tangibile della benevolenza divina verso i suoi figli prediletti in modo che,
per mezzo loro la Sua grazia si irradi su tutta l’umanità devota; diffonderne
la fama serve dunque per segnalare al mondo i fari della cristianità cui i
fedeli devono rivolgersi per beneficiare dei doni divini. Maiolo, invece,
davanti al successo ed al clamore provocato dai suoi interventi, rimane
sorpreso, e si schermisce con umiltà, la stessa dietro cui si trincera quando,
in un primo momento, era deciso a rifiutare la sua elezione ad abate di Cluny.
Lo aveva designato a succedergli il vecchio abate Aimardo, ormai cieco e
prossimo alla morte, ed era stato acclamato con il consenso unanime di stuoli
di monaci, chierici, nobili ed addirittura della gente dei campi. Egli
tuttavia, si sente frenato da un forte senso di inferiorità nei confronti del
gravoso compito che lo attende. Sarà infine l’apparizione in sogno dello stesso
san Benedetto ad infondergli il coraggio di accettare, ma solo per spirito di
obbedienza dato che il monastero si reggeva secondo una sorta di disciplina
militare e non era opportuno esimersi dall’autorità dell’abate. Il monaco,
dunque, soldato di Cristo e combattente per la fede, era tenuto più di tutti
gli altri ad accettare le richieste e gli ordini che gli venivano impartiti
perché essi rappresentavano il mezzo per il compimento della volontà divina.
La proclamazione pubblica della sua intronizzazione avvenne
dinanzi ad un nutrito consesso di nobili, vescovi ed abati delle fondazioni
minori. Per dare inoltre un tono di estrema ufficialità alla cerimonia il
biografo non si limita a descrivere la scena ma riporta l’altisonante discorso
dell’anziano abate Aimardo in cui sono chiaramente ravvisabili gli spunti
propagandistici. Viene in effetti menzionato il fondatore Guglielmo ed il
privilegio pontificio con cui si legava l’abbazia a Pietro, principe degli
apostoli; si aggiungono infine i riconoscimenti regi di cui godeva, e si
conclude con il ricordo dei due abati che lo precedettero, Bernone ed Oddone.
Nel culto della tradizione, e nella fedeltà ai defunti, protettori nella comunione dei santi, Cluny radica la sua forza. Il ritratto di Maiolo come abate riprende le linee della sua formazione spirituale precedente. Nella Vita redatta dal monaco Siro si insiste sempre sul suo amore per la lettura e la meditazione della Sacra Scrittura, da cui traeva gli insegnamenti morali per guidare e correggere con giusta moderazione monaci e laici. Il paragone proposto è quello dello specchio, nel quale ci si osserva per verificare e correggere i propri difetti. Diventa perciò indispensabile rammentare a questo punto che esisteva un preciso genere letterario denominato “specchio” che era stato sfruttato su larga scala dall’aristocrazia carolingia, perché essa si era trovata alle prese con il difficile equilibrio tra i doveri militari, legati alla guerra di conquista, e gli insegnamenti del vangelo; aveva quindi il bisogno costante di confrontarsi con gli insegnamenti di un vademecum morale. Maiolo dunque studiava e leggeva costantemente. Anche mentre era in viaggio, in sella al suo cavallo, teneva un libro tra le mani e ricreava lo spirito con le sante letture. Continuava ad applicarsi agli studi, e, come negli anni giovanili, evitava però di accostarsi agli autori profani, o per meglio dire, cercava di selezionarli e poi di affrontarli con intelligenza e spirito critico, memorizzando i concetti più importanti dei filosofi e scartando gli aspetti relativi all’amore profano ed alle cose del mondo. La sua preparazione in campo filosofico e nel diritto canonico non era certo trascurabile ma garantiva una solida tutela dottrinale da opporre agli attacchi esterni o alle pretese politiche avanzate dai contemporanei. Al tempo stesso la sua ampia cultura conferiva vivacità ed interesse alle sue conversazioni e riusciva a risultare piacevole anche quando si impegnava nelle prediche destinate alla edificazione morale dei fedeli. Era in grado di trovare parole adatte per ognuno, differenziando i messaggi a secondo del carattere delle persone e delle circostanze; alcuni venivano dunque ammoniti, altri blanditi, altri terrorizzati perché il fine ultimo era la lotta contro il demonio e le sue tentazioni per arrivare alla salvezza eterna. Il suo principale ruolo di abate lo spingeva poi ad intraprendere iniziative di largo respiro per allargare la cerchia dei proseliti e dei sostenitori del monastero. In virtù della sua personalità carismatica e del favore crescente goduto da Cluny, Maiolo si era guadagnato credito presso molti potenti dell’epoca ai quali, con discrezione, proponeva l’ideale monastico come via privilegiata per distaccasti dai beni e dalle preoccupazioni del mondo per abbracciare una via celestiale verso il regno eterno. Riuscì pertanto a suscitare molte vocazioni, tali da ingrandire le fila di quella che era considerata l’autentica milizia divina. Con lo stesso impegno si sforzava di infondere una disciplina più radicale ed un nuovo impulso alle comunità monastiche, rinfocolando il senso del servizio divino secondo lo spirito della regola benedettina. Si compiaceva quindi del rigore con cui i suoi monaci realizzavano le loro attività e destinavano lunghe ore del giorno in preghiera, in meditazione e nelle lunghe liturgie eucaristiche e professionali.
L’occhio dell’agiografo si spinse anche negli aspetti della vita quotidiana dell’abate, nella sua manifesta capacità di interpretare con equilibrio i precetti della regola monastica. Maiolo si distingue infatti per la compostezza del comportamento, estraneo a forme di vistosa teatralità e dagli eccessi compiaciuti. La sua attività lo portava spesso nelle dimore dei potenti a contatto con personalità di rilievo che vivevano secondo i rituali dell’epoca, ma l’estrazione sociale e l’esperienza maturata prima all’interno del clero secolare, poi alle prese con i concreti problemi del monastero, gli avevano conferito una grande capacità di mediazione con il suo prossimo che gli permetteva di adeguarsi a luoghi e situazioni. Non eccedeva nel consumo di vino e non esagerava nei digiuni proprio perché era convinto dell’importanza della misura in tutte le cose. Con la medesima moderazione aveva cura dell’abbigliamento che, nel rispetto delle abitudini del tempo, doveva segnalare la dignità e l’autorevolezza della sua carica senza scadere in un’eleganza troppo compiaciuta o in una trascuratezza ricercata che potesse far pensare alla figura di qualche santo penitente. Imperturbabile davanti alle lusinghe degli adulatori, sicuro di sé e consapevole della propria cultura e del proprio valore intellettuale, non raccoglieva le provocazioni di quelli che gli ponevano quesiti insidiosi sulla Sacra Scrittura; sapeva anzi gestirsi con oculatezza senza ricorrere ad astrusi sotterfugi e reagiva con una apparente candida ingenuità, ma senza incertezze o esitazione, opponendo valide argomentazioni desunte dalle Scritture stesse. Tutto questo patrimonio spirituale affondava le sue radici nell’esercizio quotidiano della meditazione solitaria. Dovunque fosse, anche nel corso di un viaggio, trovava il modo di appartarsi per pregare e piangere sull’umana fragilità. Ricercava così la via per perfezionare il suo cammino verso la virtù intesa come obiettivo da conseguire nella crescita interiore che non ha bisogno di testimoni esterni né del conforto della gloria del mondo. La virtù autentica, in effetti, realizzata nella pienezza dell’umiltà, sconfina dai limiti angusti e la sua fama risuona per tutto il mondo. Maiolo si scopre così noto ormai in ogni luogo, in Italia, in Germania e nella Gallia di allora, e finisce per assumere una dimensione quasi ecumenica. L’intento del biografo non è comunque quello di delineare un uomo con toni leggendari. Di conseguenza nel narrare i miracoli da lui realizzati l’autore usa toni molto sobri ed insiste più sul valore della preghiera e sugli aspetti spirituali che ne derivano piuttosto che sulla capacità soprannaturale di compiere eventi prodigiosi. La missione primaria di Maiolo è di salvare le anime che devono essere liberate dai demoni ed avviate alla vita eterna. La rassegna dei miracoli più tradizionali, come la guarigione di ciechi, o di malati in preda a febbri esiziali, serve al monaco Siro per consolidare l’alone di santità che accompagna il suo abate, anche se, in alcuni casi, tali interventi danno adito ad interpretazioni più complesse. A questo proposito risultano particolarmente significativi i miracoli avvenuti durante i viaggi a Roma. In quel difficile frangente storico il Papato aveva perso molto del suo prestigio politico e gravitava nell’orbita degli Ottoni. La capitale della cristianità tuttavia manteneva una sua pregnanza spirituale perché veniva soprattutto vista come il luogo che conservava la tomba degli apostoli, e ad essa si dirigevano i pellegrini di ogni religione. Il movimento sulle vie che dalle Alpi solcavano l’Italia fino al soglio papale, denominate pertanto vie romee, si era inoltre intensificato a causa delle attese angosciose legate all’approssimarsi dell’anno Mille. Nonostante i pericoli del viaggio e le difficoltà che si potevano incontrare lungo il percorso da tutta Europa si muovevano verso Roma stuoli di donne e di uomini penitenti e tenaci nella pratica del digiuno e della castità. Ed è dunque per dare maggiore risalto a queste pratiche devozionali che il monaco Siro dà ampio spazio alla narrazione del primo miracolo di Maiolo sintomaticamente compiuto, come si è già avuto modo di ricordare, nel corso del suo primo viaggio a Roma. Era stato da poco insignito della carica di apocrisario dell’abate Aimardo, ossia era divenuto responsabile delle offerte devolute al monastero, e veniva anche impiegato come ambasciatore per mantenere i contatti diretti con il pontefice, poiché si confidava nella sua abile eloquenza e nella sua competenza dottrinale. In questa missione era stato affiancato dal suo confratello Eldrico ma durante il viaggio di ritorno verso l’abbazia, mentre si trovavano nei pressi di Ivrea, quest’ultimo fu colpito da febbri improvvise che l’avrebbero portato alla morte se non fosse stato salvato dalle preghiere di Maiolo e dalla sua unzione con l’olio santo. L’episodio ebbe vasta risonanza perché rimarcava la fama di santità che stava crescendo intorno al personaggio e, con tutta probabilità, arrivò agli orecchi dell’imperatore Ottone I e soprattutto di sua moglie Adelaide. Prima di entrare nell’ordine cluniacense Eldrico era infatti stato uomo di corte e, come conte palatino, aveva intessuto stretti rapporti con Adelaide ed il suo primo marito Lotario e poi con Ottone I. Da quel momento dovette iniziare la stima incondizionata della sovrana nei confronti di Maiolo dato che volle spalleggiarlo nella sua ampia opera di riforma dei monasteri italiani. Per raggiungere tale obiettivo Maiolo, una volta divenuto il successore del vecchio abate Aimardo, valicò ripetutamente le Alpi allo scopo di pianificare la nuova svolta religiosa delle comunità monastiche, in pieno accordo con le direttive dei papi riformatori come Giovanni XIII (965 – 972) e Giovanni XV (985 – 996) e dell’imperatore stesso.
Maiolo verso Roma
tra Papato ed Impero
Nel riportare gli avvenimenti che contraddistinsero il secondo viaggio a Roma, motivato, come si è ribadito, anche dai legami della tradizione cluniacense verso gli apostoli e dall’energia riformatrice di alcuni papi, il monaco Siro è piuttosto confuso. Il suo intento oratorio ed il suo messaggio spirituale non hanno come fine la corretta sequenza cronologica dei fatti o la loro portata storica. Per Maiolo si prospettano infatti tappe significative soprattutto sotto il profilo politico e religioso perché sottolineano la sua abilità e la sua capacità organizzativa nel promuovere la diffusione della riforma monastica lungo la penisola italiana.
Il primo personaggio che lo accoglie mentre è ancora in procinto
di valicare le Alpi e però Ariberto vescovo di Coira. L’incontro appare
piuttosto sorprendente perché la città, in effetti, si trovava un po’ fuori
mano per coloro che dalla Borgogna dovevano arrivare in Italia. Ma con tutta
probabilità Maiolo aveva scelto deliberatamente di seguire la valle del Reno.
Dal racconto sembrerebbe che questa seconda calata in Italia fosse dovuta ad
una espressa richiesta dei monaci dell’abbazia di S. Paolo fuori le mura in
Roma, la quale vantava uno stretto legame con Cluny, confermato dal ricordo di
una visita compiuta a suo tempo da s. Ottone di Cluny, il predecessore dell’abate Aimardo. La filiazione monastica
versava in tristi condizioni economiche per cui Maiolo, generoso come sempre,
consegnò una lauta somma di denaro. Fonti esterne lasciano tuttavia intendere
che il problema più grave risiedeva nella mancanza di un priore dopo che il
precedente era stato ucciso ad opera dei Saraceni mentre stava rientrando in
Francia nella sua sede originaria di Tours. Questo fatto drammatico
giustificherebbe l’ampia diversione compiuta da s. Maiolo per raggirare le Alpi
occidentali infestate dai Saraceni, e la discesa attraverso il Gran San
Bernardo passando per la città di Coira. L’ossequio ammirato che gli tributa il
vescovo del luogo è di nuovo un richiamo indiretto all’autorevolezza di san
Maiolo, e dell’ordine da lui rappresentato, che risulta tale da determinare la
subordinazione delle più alte personalità ecclesiastiche. Per il monaco Siro è
però importante precisare che la preoccupazione costante del suo abate non sia
tanto quella di assicurare la salute dei corpi ma la salvezza dell’anima per la
vita eterna.
Sulla via del rientro dalla città degli apostoli fece tappa a
Pavia. Qui, con il favore dell’imperatrice Adelaide, fondò una comunità
monastica, direttamente dipendente da Cluny, che, in armonia con la profonda devozione
cluniacense verso la Madonna, intitolò a Santa Maria ma che poi, dalla sua
persona, prese il nome di San Maiolo. Nelle sue intenzioni c’era l’idea di
costituire un ricovero per i membri dell’ordine che stazionavano nella capitale
imperiale e di creare, al tempo stesso, un avamposto per la diffusione
cluniacense in Italia. Appariva in effetti ben comprensibile che Maiolo, forte
dell’approvazione imperiale, ambisse ad avere un punto di riferimento proprio
in un centro amministrativo, economico e culturale di rilievo che, in aggiunta,
poteva fregiarsi di essere stato prima capitale longobarda e del regno italico,
ed ora era residenza italiana della corte degli Ottoni. A Pavia fu richiamato
qualche anno più tardi dalla devota imperatrice Adelaide e durante questo suo
terzo viaggio nei lidi italiani colse l’occasione per proseguire nel
consolidamento della presenza monastica sul territorio fondando sempre in quel
luogo San Salvatore. Poi si mosse verso Ravenna, un’altra città altamente
significativa sotto il profilo economico e religioso, allo scopo di
ripristinare le consuetudini del monastero di SantApollinare in Classe. Non
deve comunque essere sottovalutata la portata storica di questi monasteri
perché non solo essi costituivano un vero polmone ed un riferimento spirituale
per la comunità, ma in un’epoca di ristagno e disorganizzazione sociale ed
economica, rappresentavano le prime ed efficaci iniziative di aggregazione
lavorativa. Il monastero benedettino aveva nobilitato e santificato il lavoro
manuale che la cultura classica ed aristocratica considerava invece umiliante
cioè un marchio infame riservato alle classi meno abbienti. Pur condividendo
tali premesse l’orientamento di Cluny tendeva a privilegiare il servizio divino
e quindi a demandare a schiere consistenti di braccianti ed artigiani laici
l’onere delle fatiche quotidiane. Con l’organizzazione delle attività ripartite
all’interno della fondazioni, sempre più numerose ed estese territorialmente,
si coinvolgevano grandi masse di persone e si scongiurava, in parte, la miseria
più nera. Furono però anche poste le basi di un immenso e temibile impero che
finì per trasformarsi in uno stato nello stato ed in una chiesa nella chiesa.
Nell’aprile del 972 Maiolo raggiunge finalmente Roma dove
celebra la Pasqua e si unisce al consesso degli alti dignitari dell’epoca per
festeggiare il matrimonio di Ottone II con
la principessa bizantina Teofane. Il monaco Siro non fa cenno a tale
episodio, forse perché poteva sembrare un dettaglio secondario nella vita del
santo, o si può avanzare la timida ipotesi che il biografo abbia assimilato il
raffreddamento intercorso tra Maiolo e Ottone II rispetto al rapporto
costruttivo mantenuto in precedenza con il padre. Sentiva di avere stabilito
con Ottone I una piena intesa ed aveva sviluppato una speciale sensibilità che
gli aveva fatto presagire con un anno di anticipo la morte prossima del suo
imperatore. Il dono divino della preveggenza si era però manifestato ancora
circa una decina di anni dopo, con il figlio Ottone II, che aveva incontrato a
Verona, e che inutilmente aveva cercato di distogliere da un fatale viaggio a
Roma, in cui avrebbe trovato la morte.
Ottone II aveva un temperamento molto diverso dal padre di
conseguenza Maiolo, dopo la sua elezione al trono, per diversi anni preferì
restare al di là delle Alpi ad occuparsi delle dipendenze cluniacense sul suolo
francese. Le incomprensioni familiari dovute in modo particolare alla
incompatibilità tra la principessa bizantina e l’energica suocera Adelaide, in
un torbido clima di corte animato da rivalità, sospetti e vendette, costrinsero
anche l’imperatrice madre a cercare rifugio presso il fratello nella nativa
Borgogna. Proprio in questo delicato momento di tensioni intestine compare
l’autorevole figura dell’abate di Cluny, chiamato in causa da Ottone II al fine
di mediare una definitiva riconciliazione con la madre. Maiolo si rende allora
nume tutelare della dinastia imperiale, ed in metafora il fatto vuole ribadire
il giusto ordine della gerarchia familiare anche attraverso l’esaltazione del
ruolo della madre all’interno della famiglia, diretta emanazione della madre
celeste.
Alquanto controversa risulta invece l’interpretazione del rifiuto opposto
sempre ad Ottone II e all’imperatrice Adelaide in relazione al pontificato. Per
quanto non fossero mancati i pontefici inclini ad un riassetto morale e giurisdizionale
della chiesa, la Roma papale aveva perso il suo smalto ed il suo prestigio fin dall’epoca
in cui Carlomagno aveva trasferito ad Aquisgnana
la capitale dell’impero. Con l’avvento della dinastia degli Ottoni ed il loro recupero
propagandistico della romanità non si verifica una effettiva affermazione del primato
ecclesiastico. Ottone I in sostanza subordinava ai suoi fini di controllo politico
le iniziative sostenute dalla gerarchia ecclesiastica e si era perfino adoperato
per rinnovare alcune preghiere liturgiche scavalcando l’autorità di Roma ed imponendo
il pontificale detto romanico-germanico. I pontefici venivano proclamati sulla base
degli umori delle varie fazioni romane e, con la stessa facilità, potevano essere
soppressi, come era accaduto a Benedetto VI, imprigionato in Castel Sant’Angelo
e poi assassinato. La città eterna conservava solo il suo carisma spirituale come
luogo santo per la presenza delle reliquie degli apostoli e dei santi martiri.
In siffatta cornice storica
il monaco Siro presenta l’umile ma fermo rifiuto di Maiolo che adduce a pretesto
la sua inadeguatezza davanti a tale riconoscimento ecumenico, mentre si proclama
preoccupato per il suo gregge lasciato oltralpe a Cluny; si dichiara poi animato
da un profondo spirito di povertà, così in contrasto con lo sfarzo della corte pontificia,
ma è comunque un desiderio di povertà molto soggettivo visto che si trattava di
un abate aristocratico capo del potente
e ricchissimo monastero di Cluny. Oltre alla sfumatura agiografica in quest’ultima
affermazione si può probabilmente cogliere una velata allusione polemica contro
la corruzione e le forme simoniache che avevano tristemente macchiato la condotta
di molti prelati dell’epoca. Nella sostanza pare in effetti indubitabile che per
Maiolo fosse più gratificante essere alla testa della grande Cluny in progressiva
espansione piuttosto che incarnare la propaggine spirituale del potere ottoniano.
Ad ogni buon conto Ottone II non dovette gradire particolarmente questo diniego
e l’atteggiamento compassato e poco disponibile di Maiolo segnò una ulteriore compromissione
nel suo legame con l’imperatore.
Il momento più drammatico della sua vita resta comunque la sua cattura da parte dei Saraceni per le implicanze e le conseguenze politiche e religiose con cui si è caricata tutta la vicenda. Con sapienti accorgimenti retorici il biografo prepara l’atmosfera dell’attacco a sorpresa modulando i toni in un crescendo di emozioni. Da una parte si avverte il pericolo incombente dei Saraceni che, verso la fine del secolo X erano approdati sulle coste settentrionali dell’Italia e, taglieggiando i viaggiatori e depredando tutto ciò che trovavano, erano poi risaliti lungo le valli alpine fino alla zona del Gran San Bernardo. Dall’altra parte si configura Maiolo che procedendo trionfalmente, accompagnato da un ampio corteggio di proseliti, è in procinto di riguadagnare Cluny. Per accelerare i tempi del rientro si inoltra per la via più breve verso il passo del Gran San Bernardo, sperando che la virulenza delle incursioni saracene sia sopita. Gli fa da cornice l’amenità dei paesaggi alpestri che si snodano davanti ai suoi occhi tra salite, valli verdeggianti e ruscelli montani. All’improvviso il corteo viene travolto dall’orda degli infedeli che ingaggia un duro combattimento scandito da ritmi epici. Riaffiora la matrice germanica e guerriera del monachesimo altomedioevale con l’immagine dell’abate sul campo di battaglia che, addirittura, trova il modo di salvare miracolosamente uno dei suoi uomini bloccando con la mano una freccia nemica. L’unico scarto è a trasposizione verbale che tende a mitigare concetti altrimenti troppo violenti per il genere agiografico. Il monaco è il soldato di Cristo, in armi solo per grave necessità, e lo stesso Maiolo viene definito “ottimo combattente”, capace però di usare come unica difesa lo scudo della fede e come arma la parola di Dio. Preso prigioniero dalle parti di Orsière, presso il fiume Dranse, viene relegato in una orrida caverna in cui si trasforma in un martire testimone della fede. La sua personalità eccezionale e magnetica colpisce i suoi carcerieri ed egli si impegna a dialogare con essi per intavolare questioni dottrinali. Anche questa apertura al confronto religioso con i Saraceni non è un elemento trascurabile perché è indice di un clima di accettabile tolleranza dottrinale ben diverso dalla drastica intransigenza che, verso la fine del secolo successivo, porterà alle crociate. Tipico è poi il ricorso all’accennato sogno premonitore, in cui si prefigura la sua prossima liberazione per intercessione di s. Pietro protettore di Cluny, e l’insistenza sulla devozione mariana. A causa dell’attacco saraceno egli aveva smarrito il suo prezioso bagaglio di libri e come conforto durante la prigionia gli era rimasto tra le mano solo un’opera di s. Gerolamo dedicata alla Madonna Assunta. Poche settimane lo separavano da quella festa e desiderava ardentemente festeggiarla cristianamente dopo avere riacquistato la libertà. La sua fede e la preghiera costante alla Vergine celeste gli aveva consentito di sciogliersi di pesanti ceppi che lo tenevano prigioniero proprio per comunicare agli infedeli la dimensione della persona che si erano permessi di oltraggiare. Nel frattempo si premura di inviare una lettera di suppliche a Cluny affinché venga raccolta l’ingente somma richiesta per il suo riscatto, ed infine, soddisfatte le pretese dei Saraceni, viene rilasciato esattamente il 15 agosto, giorno della Madonna Assunta. La cattura dell’abate di Cluny ebbe larga eco nelle popolazioni di Provenza e Borgogna che restavano sotto l’incubo costante degli attacchi saraceni e questa emozione generale fu in grado di scuotere le genti e di spronarle alla riscossa. Qualche anno più tardi, infatti, si verificò di nuovo uno scontro con i Saraceni nella zona alpina del Frassineto ed esso si concluse per i nemici con una disfatta inesorabile che acquistò quasi il sapore della riscossa nazionale. La provvidente concatenazione dei fatti, orditi secondo una trama superiore, trova un logico sviluppo in questa sconfitta che deve in qualche modo ricompensare equamente il torto subito da Maiolo con la prigionia; è il riflusso della mentalità aristocratica dell’agiografo che non prova commozione per la carneficina della battaglia ed indulge invece sul compiacimento di Maiolo che può finalmente recuperare la sua preziosa biblioteca. Un’alba luminosa avvolge la vittoria sui barbari, e la distruzione del loro covo: un ottimo auspicio per il futuro e per la fama dell’abate di Cluny cui viene conferito il merito di avere sgominato per sempre la minaccia saracena e di avere garantito la sicurezza delle vie d’accesso alpine per i pellegrini diretti ai luoghi santi.
Le vicende conclusive della biografia mirano a confermare il ruolo insostituibile giocato da Cluny nella persona del suo santo abate Maiolo. Egli sembra essere l’unico riferimento per i potenti dell’epoca; pertanto un implicito riconoscimento politico al ducato di Provenza è ravvisabile nella presentazione dei tanti miracoli da lui operati. L’occasione della visita al duca Guglielmo, agonizzante e di stanza ad Avignone, è la salvezza della sua anima. Gli spostamenti del famoso abate suscitano però sempre una nutrita partecipazione corale di uomini, donne e bambini ansiosi di beneficiare della sua presenza. Per sottrarsi a questo bagno di folla Maiolo aveva impiantato la sua tenda in un luogo discreto sopra un’isoletta in mezzo al Rodano, ma non era stato in grado di fermare la moltitudine incosciente del pericolo rappresentato dalle imbarcazioni insicure e straripanti che si avventuravano tra le correnti del fiume per raggiungerlo. Uno di questi miseri barconi, gremito di varia umanità, stava dunque per inabissarsi quando la preghiera del santo operò il miracolo e salvò i naufraghi.
L’ultimo viaggio si sarebbe dovuto svolgere verso il monastero di S. Denis di Parigi, dove per espresso desiderio del re Ugo Capeto, avrebbe dovuto riformare il simbolo stesso di quella monarchia capetingia che si stava imponendo nella periferia settentrionale della Francia. Maiolo appare stanco, appesantito dagli anni e comunque tenace nel procedere nei suoi intenti. L’aggravarsi delle sue condizioni di salute lo obbligano però a sostare nel suo priorato di Souvigny; qui serenamente, tra il conforto sollecito dei suoi monaci, con gli occhi al cielo, in trepida attesa della beatitudine celeste e concentrato nel pronunciare con un alito di voce una preghiera appena percettibile, si addormenta per il sonno eterno l’11 maggio del 994