Aspetti storico artistici
La facciata, alta venti metri dal piano stradale, con scala esterna a doppia rampa e balaustra in peperino, si presenta secondo uno stile classicheggiante, spartita da lesene e da un'ampia fascia marcapiano. Ai lati del portale due ampi riquadri rettangolari ripartiscono razionalmente lo spazio, distribuendo la luce su superfici più ristrette, e contribuiscono così, insieme alla scalinata a slanciare l'edificio verso l'alto. Al di sopra del portale un'immagine dipinta su maioliche, incassata e incorniciata rappresenta san Francesco Caracciolo, mentre concepisce le regole del suo Ordine direttamente ispirato dalla SS. Trinità. Il Santo è raffigurato in ginocchio con le braccia incrociate sul petto. Dietro di lui, sotto l'arco, un angelo mostra un libro con la scritta "Regulae Clericorum Minorum". Le maioliche del pannello sono opera di artigianato napoletano del Settecento.
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Ai lati concludono lo spazio due nicchie vuote che conferiscono alla parte superiore della facciata un senso di maggiore plasticità. Sulla sommità un timpano conclude la spinta verso l'alto dell'edificio, aperto sulla parte inferiore del corso e separato dalle case con una sola voluta di modesto effetto scenografico sulla sinistra. Sulla destra, in salita, si estende il corpo di fabbrica del collegio gregoriano, recentemente restaurato. All'interno del timpano è rappresentato lo stemma papale di Benedetto Xv. Il restauro effettuato dal marchese Fumasoni Biondi risale al 1920, di cui la sotto stante iscrizione commemorativa che celebra l'impresa: A.D. MCMXXI A. FVMASONI BlaNDII RESTITVIT, ma gli stucchi dei festoni e della cornice circostanti sono originari del 1635.
L'interno a una sola navata, lunga trenta metri, larga dieci e alta quattordici, presenta una volta a botte, il cui spazio è scandito da sottili fasce, che si raccordano con le lesene sui pilastri e suddividono
le tre poco profonde cappelle, che si aprono sui fianchi della navata. Un modesto campanile affianca l'abside per 24 metri da terra.
Nella prima cappella a sinistra, per chi entra, un dipinto di ignoto degli inizi del Settecento rappresenta san Francesco di Paola in ginocchio, mentre riceve ispirazione da una sorgente di luce che gli mostra la scritta "Charitas". La torsione del busto con lo sguardo volto al cielo e distolto dal libro, tenuto con la mano sinistra, enfatizza molto il gesto del monaco, quasi a voler richiamare a forza l' attenzione dei fedeli. L'opera è comunque attraente per il naturalismo spontaneo della scena in cui la figura del Santo sembra realmente immersa, vuoi per i contrasti di luce, vuoi per l'accenno prospettico del paesaggio sullo sfondo.
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Nella seconda cappella a sinistra si conserva un miracoloso Crocifisso dipinto direttamente su peperino, la pietra locale, e posto in tempi antichi in una edicola sacra nei pressi della Chiesa della Madonna dell' Acqua Santa. Tale dipinto fu asportato dal luogo originario, come già si è detto, e con grande processione trasferito il 14 giugno 1637 nella chiesa della SS. Trinità. In alto gli angeli a stucco sui due tratti di timpano spezzato sorreggono alcuni simboli della passione di Cristo, cui si riferisce pure la scritta della targa ovale al centro, con palese richiamo al miracoloso Crocifisso contenuto nella cappella. Questa, attualmente, ospita pure una statua, rappresentante s. Antonio da Padova, ivi collocata dall'omonima Associazione di parrocchiani devoti amici del Santo.
Nella terza cappella a sinistra vi è una interessante edicola piuttosto classicheggiante con i rilievi a stucco bianco contrastati sul fondo nero. I motivi flore ali si raccordano con quelli posti sugli archi della navata. Nel riquadro un recente mosaico rappresenta il Santo di Padova.
Nella prima cappella a destra è raffigurata la Madonna con il Bambino Gesù sospesa fra le nuvole, mentre in basso a destra san Nicola di Bari in ginocchio è in atto di adorazione. Il personaggio retro stante potrebbe rappresentare san Giuseppe a completamento dell'immagine della Sacra Famiglia. La scena della maestà della Vergine e l'incontro degli sguardi fra adorante e adorata è distolto dal movimento dei troppi putti angelici che affollano la scena, fra i quali uno tiene il pastorale del Santo e un altro un piatto e altri oggetti. L'autore, sconosciuto, ha dipinto quest' opera forse nella prima metà del Settecento, influenzato da Maratta e dall' ambiente romano coevo.
Nella seconda cappella a destra è collocato un affresco di ignoto, con ridipinture a olio, della fine del Cinquecento e rappresenta la Madonna seduta con il Bambino in braccio, al quale offre il seno. Nulla si sa di questo affresco, qui pervenuto da qualche altro edificio sacro di Marino. Sopra, provvisoriamente, è stato sovrapposto in tempo recente un dipinto a olio della Vergine Maria di autore contemporaneo.
Nella terza cappella a destra è sistemato un bassorilievo, opera dello scultore Bruno Fanasca, rappresentante san Francesco d'Assisi, dono della famiglia di Padre Anselmo Padovani in occasione dell' ottavo centenario della nascita di S. Francesco. Originariamente vi era il dipinto, collocato dal 1986 sulla parete interna sopra il coro, raffigurante la meditazione nell' orto del Getsemani di autore ignoto del Seicento. In alto, nel mezzo del timpano che conclude l'edicola, vi è un libro aperto nel quale si legge: TRISTIS EST ANIMA MEA USQUE AD MORTEM.
Sopra la porta della sacrestia una lapide marmorea ricorda i lavori di restauro compiuti nel 1920 dal marchese Fumasoni Biondi, il cui stemma gentilizio è posto all'interno sopra l'architrave della porta principale.
Notevole è pure il coro in legno di noce del Settecento, che segue la curvatura dell' abside. L'opera fu eseguita a spese del padre Giovanni Matteo vescovo di Murcia e Cartagena.
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Più complesso è il discorso della maggiore opera d'arte conservata dietro l'altare maggiore della Chiesa. Questo bellissimo dipinto a olio su tela di 241x150 rappresenta il Mistero dell' intima costituzione divina: le Tre Persone del dogma, secondo gli attributi dell'iconografia più consueta. Un paterno Dio con barba fluente accoglie sulle sue ginocchia il Figlio appena deposto dalla croce, mentre una colomba pentecostale simboleggia l'amore che intercorre fra il Padre e il Figlio. La composizione è notevolmente plastica e naturale con il corpo di Cristo in totale abbandono "post mortem", con la testa riversa sul ginocchio destro del Padre e con il braccio sinistro appoggiato sull'altro ginocchio, quasi a formare una figura chiasmica, insinuata fra il piano inferiore delle nuvole su cui poggia il Cristo e le gambe divaricate dell'Eterno Padre assiso sul trono. Questi a sua volta osserva il Figlio con il volto leggermente inclinato sul lato più esposto del corpo divino e con cenno annuente e comprensivo allarga le braccia per accogliere idealmente sul petto il Salvatore, sollevando sugli avambracci un pesante mantello sapientemente panneggiato. Le palme delle mani aperte e posizionate in senso leggermente obliquo rafforzano il senso di rotazione delle figure, peraltro già impresso al corpo di Cristo dalla sua posizione, che potremmo definire quasi fetale, e che concentra e converge sul santo volto del Redentore lo sguardo dell' osservatore.
La posizione per certi versi orante dell' Eterno Padre richiama alla mente analoghe e consuete immagini di pietà mariana diffusissime nell'iconografia sacra, ma qui fra la solenne immobilità contemplativa del Padre e quella altrettanto commovente del Figlio si interpone la figura perfettamente equilibrata nello spazio della Spirituale Colomba, che è l'unico elemento in movimento dell'intera composizione e che costituisce il solo punto di raccordo fra i due volti, altrimenti in nessun altro modo comunicanti fra loro.
Il prezioso dipinto per lungo tempo fu attribuito a Guido Reni, oggi la moderna critica tende a individuare nel bolognese Giovan Francesco Gessi l'autore della Trinità di Marino. Il dipinto sarebbe stato realizzato dall'artista di scuola reniana fra il 1640 e il 1642, come pure risulta da alcuni indizi contenuti in una lettera di monsignor Binago da Bologna al cardinale Girolamo Colonna, duca di Marino, del lO marzo 1642. Dunque il quadro sarebbe stato commissionato o acquistato dalle autorità politiche ed ecclesiastiche di Marino al termine dei lavori di rifacimento della chiesa a opera dei Caracciolini e non già commissionato anni prima al celebre pittore Guido Reni, anche lui bolognese, che morì nel 1642; cioè nello stesso anno in cui il dipinto veniva realizzato e portato a Marino. Né tantomento risalirebbe ai primi anni del Seicento, secondo la leggenda caracciolina, legata al nome del fondatore della Chiesa don Pietro Gini, per obiettive ragioni di stile, secondo la quale il dipinto risalirebbe al 1603, cioè al periodo del primo viaggio a Roma di Guido Reni.
La tradizionale attribuzione del dipinto a Reni deriverebbe da un fraintendimento di un aneddoto raccontato dal biografo Bellori, " tuttavia non riscontrabile nella sua opera Le vite, e raccolto dal coevo storico Carlo Bartolomeo Piazza, il quale così scrive: "Su l'altare maggiore degna di osservazione a maraviglia è la pittura della SS. Trinità, fatta dal stupendo ingegno del famoso Guido Reni, il quale, come nella sua vita scrisse Pietro Bellori, questo era il miglior lavoro, che fosse uscito dalle sue mani: fatto genialmente e con pia applicazione, per soddisfare alle divote istanze di un Benefattore, contento per sua generosità di spirito, e di geniale corrispondenza, di tenue mercede di pochi barili di vino, per un' opera di prezzo inestimabile, come si ha per tradizione de' maggiori". L'equivoco poi fu ripreso un secolo dopo dal Moroni, forse indotto in errore da un' incisione di Jacob Frey, ricavata dal dipinto di Marino, in cui si indicava come autore del disegno Guido Reni, o forse per la confusione con l'analogo soggetto dipinto dal Reni presso la Chiesa della Trinità de' Pellegrini in Roma. E così dopo il Moroni seguirono il Nibby, il Torquati, il Tomassetti e altri storici ancora e divulgatori nella errata attribuzione.
Fatto sta che il dipinto, che pone l'accento più sul supremo sacrificio di Cristo, che non sul dogma trinitario in sé, è un'opera di grande qualità creativa, impostata su un modello risalente al tedesco Durer, poi rielaborato nel clima tardo manierista, ma assolutamente libero nell'espressione così dolce e umana delle figure che Gessi, o chi per lui, riesce a conferire a questa Trinità di Marino.