Fra Pieve di Gussago e Abazia di Leno |
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Le lastre di Maviorano Due avvenimenti, apparentemente distanti l'uno dall'altro, ripropongono in questi giorni alla nostra comunità stimoli molto efficaci,anche se insoliti,per ripensare le proprie origini.Il primo, di risonanza veramente ampia è l'inserimento nella mostra, tuttora in corso in Santa Giulia a Brescia, denominata < Il futuro dei Longobardi >, delle due lastre e dei due pilastrini manufatti di scultura longobarda del secolo VIII, fra noi noti come < il pulpito di Maviorano > a motivo del reimpiego di questi reperti assemblati nel XV secolo come pulpito nella vecchia Pieve di Santa Maria Assunta a Piedeldosso. L'importanza di queste lastre longobarde scolpite per realizzare una iconografia molto complessa è difficilmente sopravalutabile. Quanto durò la giurisdizione di Leno? Quello clic ci interessa di più nell'accenno rapido che qui facciamo è lo scenario che esse delineano in rapporto alla splendida stagione longobarda, quando la nostra Pieve, con le fertili terre annesse, era pertinenza della gloriosa Abazia benedettina di Leno: l'Abate nominava un proposito per la pastorale e la liturgia e infeudava i beni che appunto erano proprietà del monastero. Ma quanto durò la giurisdizione di Leno sulla Pieve di Gussago e del suo territorio? Un buon manipolo di documenti testimoniano questa giurisdizione per tutto il periodo in cui durò la supremazia lrmgobarda e franca, così come per il successivo dominio di Berengario I e Berengario II, amici e protettori dei due grandi monasteri benedettini bresciani ,San Salvatore poi Santa Giulia in città e San Benedetto - San Salvatore - San Michele in Leno. Ma anche nel Medioevo più avanzato, quando il 10 aprile 1192 l'Abate Gonterio in San Pietro de Dom a Brescia fa sfilare davanti a sè i feudatari con un atto che è teso alla riconferma di una vera e propria fedeltà, i primi a sfilare sono i figli di Alberto Lavellolongo, feudatari dei beni monastici nel territorio di Gussago. Da qui in avanti il discorso diventa più complicato. Quando cessò il diritto di nomina che parte dell'Abate leonese del preposito per Gussago e tale diritto passò, come del resto è naturale, al Vescovo di Brescia. La prima notizia certa ci porta all'anno 1350, con la nomina del prevosto Gervasio Albrigoni, sicuramente inviato dal Vescovo di Brescia. A partire poi dal 1451 anche l'Abazia di Leno cessò addirittura di esistere come vera e propria comunità monastica: ultimo abate fu il bresciano Bartolomeo Averoldi, eletto verso la fine del 1451, che non esitò a cedere l'Abazia ed i beni in commenda al cardinale Pietro Foscari in cambio del titolo di Arcivescovo di Spoleto, scambio convalidato con suo breve da papa Sisto IV nel 1479. Per qualche tempo uno sparuto gruppo di monaci abitò ancora il monastero, poi si disperse. Nella successione degli abati commendatari, nel 1590, troviamo il conte Girolamo Martinengo Cesaresco che, essendo morto il prevosto Giacomo Bona, tramite il frate domenicano Cornelio da Adro suo vicario nell 'amministrazione dell'Abazia e storico non mediocre delle cose leonesi, rivendica presso la Curia Vescovile la nomina del successore per il defunto Bona nella prepositura di Gussago come spettante all'abate di Leno. La protesta, comunque, non ebbe seguito perché nello stesso anno 1590 l'abate commendatario Girolamo Martinengo Cesaresco moriva in Roma e il Vescovo di Brescia procedette, senza curarsi del dettagliato memorabile di p. Cornelio da Adro, alla nomina del nuovo prevosto nella persomi del dottore in teologia Giampaolo Cirimbelli.
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| Il recupero di un importante dipinto Questa lunga premessa ci è sembrata utile per entrare nel merito di quello che sopra abbiamo pure definito un avvenimento importante. E stato infatti proprio in questi giorni ultimato ( ad opera dell' ENAIP Lombardia con sede a Botticino) il restauro di un dipinto su tela. di non piccole dimensioni, da sempre conservato presso la pieve di Piedeldosso, di soggetto benedettina . Nell'ambito del progetto < Adottiamo un'opera d'arte> questo dipinto ha costituito un valido ".test" di esercitazione e di ricerca per gli alunni di alcune classi della scuola media sotto la guida dei loro insegnanti: L' <adozione>, oltre che impegno di studio, ha comportato anche, da parte degli alunni, guidati dall'insegnante Tea Galdi, la costituzione di un fondo impiegato ora nella spesa del restauro. |
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Difficoltà iconografiche e cronologiche Secondo una tradizione tramandata oralmente per lungo tempo e poi fissata da don Giovanni Fogazzi in Gussago, brevi cenni di storia e di arte. il dipinto raffigurerebbe 'San Brunore che consegna la regola a San Romualdo con i Camaldoli sullo sfondo' e dovrebbe provenire dallo spoglio dell'Eremo di San Bernardo dei Camaldolesi posto sul monte Navazzone dopo la soppressione (che non avvenne, come spesso si scrive citando Paolo Guerrini, nel 1797, ma nel 1803). Se queste notizie fossero vere la situazione iconografica e storica troverebbe piena soddisfazione. Senonché il soggetto raffigurato non ha niente a che vedere con San Brunone, né con San Romualdo e, pertanto col monachesimo camaldolese; storicamente, essendo il dipinto datato 1620 (in basso a destra) non potrebbe provenire dall'Eremo dei Camaldolesi in quanto la sua fondazione risale al 1636. A meno che non si ipotizzi che questa grande tela centinata (cioè dall'inconfondibile forma di pala d'altare) non sia giunta lassù importata da un altro luogo di culto benedettino. Il particolare della data, invero, così importante ai fini della comprensione del dipinto, è ritornato in luce proprio in occasione del presente restauro: in epoca imprecisabile. la tela fu decurtata in basso di circa 20 centimetri con risvolto sulla barra inferiore del telaio. Questa data del 1620, inoltre, se affiancata dalla proposta, (che qui avanziamo) di una ipotetica attribuzione dell'opera al pittore bresciano Antonio Gandino (1565-1630) concilia bene quella che nel dipinto sembra una discrepanza tra una visione stilistica ancora cinquecentesca che caratterizza tutta la raffigurazione ad accezione del quadro con la Santa Familia posto in alto tra la centina dell'arco architettonico e la centina di definizione del dipinto stesso, discrepanza che appariva, in maniera incontrastabile, come un inserto aggiunto nei primi decenni del Seicento, Cose che invece l'indagine condotta in occasione del restauro esclude assolutamente. Il Gandino, anche qui come altrove, compone molto bene le tarde inflessioni del manierismo bresciano di tradizione morettesca tramandata nelle rielaborazioni di Pietro Marone e di Grazio Cossali col manierismo più solido da lui accolto con entusiasmo da Palma il Giovane, della cui poetica vive il bellissimo <inserto> devozionale con la raffigurazione della Santa Famiglia. Una nuova lettura iconografica Ma che cosa rappresenta il dipinto? Un attento esame degli elementi che lo compongono inducono ci sembra a pensare che si tratti della vestizione dell'abito benedettino da parte di San Placido. La storia di questo discepolo di San Benedetto è indisso- lubilmente associata a quella di San Mauro ed è narrata da San Gregorio Magno nel libro secondo dei suoi Dialoghi. Qui si racconta che un nobile romano di nome Equizio ( o Eutichio), aveva offerto il proprio figlio Mauro a San Benedetto quando questi a Subiaco aveva dato inizio alla prima esperienza di vita mona- stica costruendo piccoli cenobi. Subito dopo anche il nobile Tertullo, patrizio romano. affidò il proprio figlio Placido allo stesso San Benedetto. San Benedetto aveva distribuito nei dodici piccoli cenobi fondati intorno a Subiaco i monaci accorsi sotto la sua guida, ma trattenne a lungo con sè i due giovani romani. Mauro fu in seguito mandato in Francia a fondare monasteri secondo la regola benedettina, mentre Placido accompagnò San Benedetto a Montecassino verso l'anno 529 e lì rimase, monaco esemplare sino alla morte. Questo episodio della consegna dei due giovani alla comunita di San Benedetto e della loro vestizione monastica è rappresentato frequentemente: la più antica è forse la miniatura che si ritrova nel Codice Vaticano latino 1202 conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana, Vita Sanct Benedicti, scritto e miniato a Montecassino da uno o più artisti fra quelli ivi chiamati, dopo il 1066, dall'abate Desiderio.Nel dipinto della nostra Pieve Si vede. sulla sinistra il grande patriarca Benedetto che benedice Placido il quale sta genuflesso davanti a lui dopo aver indossato l'abito benedettino che nella Regola è indicato col nome di cocolla. Posato per terra, e ben ripiegato. si scorge una sorta di camiciotto bianco di fine tessuto: e il superpelliceum che fino a poco prima era indossato da Placido. Nella Regola di San Benedetto la vestizione avveniva attraverso un passaggio di riti: il novizio si prostrava ai piedi di ciascun confratello chiedendo di pregare per lui: se aveva beni li cedeva prima in favore dei poveri e poi del monastero e .subito dopo veniva spogliato degli abiti propri e rivestito di quelli del monastero. Le vesti che lasciava venivano però con cura riposte nel guardaroba comune. Sotto il vano della porta di sinistra, che è quella che addita l'accesso al monastero, si affollano altri confratelli dietro San Benedetto, mentre nel vano di quella di destra, che indica la provenienza dal di fuori, vi è la figura del padre di Placido che addita il figlio di cui fa offerta al cenobio ed è il dialogo ( probabilmente) con Mauro, che pure indica con la mano puntata Placido inginocchiato, quasi con gesto di uno che voglia farsi garante presso il padre dell'amico, avendo egli appena conclusa una vicenda di scelta di vita del tutto parallela a quella che sta solennemente intraprendendo Placido. |
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| L'atmosfera gioiosa dell'evento è evidenziata anche dal dipinto
sospeso in alto sulla severa architettura con la Santa Famiglia dai colori vivaci, per
l'occasione scoperta della tenda dalla quale veniva normalmente coperta per essere
protetta e anche, in certo qual modo, nascosta per accrescerne la sacralità, Ed è anche
questo, nelI 'organizzazione della scena qui dipinta, un elemento che richiama un uso
molto in voga nel passato, quello cioè di tenere velate le immagini di particolare
devozione per poi procedere allo scoprimento in occasione di determinate
celebrazioni rituali. La tendina, pendente in fitte ripiegature sulla sinistra del piccolo quadro inserito, lo testimonia con molta chiarezza. Di grande interesse è pure il paesaggio che si intravede oltre l'arco centrale: pittoricamente è una ottima testimonianza del gusto manieristico intriso di classicismo, ma l'edificio chiesastico che occupa il centro nel paesaggio, evidenziato nel suo stato d'abbandono e di avanzata rovina, potrebbe anche simboleggiare il compito che San Benedetto affidò ai suoi primi Sodali, .quello cioè di restaurare, dopo calamitosi periodi di distruzioni barbariche non ancora peraltro cessate, i luoghi; sacri del giovane cristianesimo. Anche la tipologia complessiva di questo paesaggio ri- manderebbe alla prima esperienza benedettina di Subiaco: sembra infatti che tra l'architettura della chiesa e l'irta cresta dei monti sullo sfondo si stenda una placida distesa di acqua. |
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| Una domanda
senza risposta
Resta
comunque ancora senza risposta una delle domande che ci siamo posti all'inizio: perché
nel 1620 viene realizzata quest'opera di così consistente reviviscenza benedettina? E'
sufficiente quel timido tentativo di riappropriazione giurisdizionale sulla prepositurale
di Gussago operato nel 1590 (trent'anni prima!) dall'abate commendatario di Leno Girolamo
Martinengo?Francamente ci sembra di no O dobbiamo pensare ad una committenza del prevosto
del tempo, per ragioni che oggi ci sfuggono? Nel 1620 era prevosto di Gussago
Giovanni Battista Bertoncini, nominato nel i606. Purtroppo di lui non sappiamo nulla
all'infuori che fu proditoriamente ucciso il 26 maggio 1625 con una archibugiata nella
schiena.
PierVirgilio Begni Redona
Placido fu. con Mauro.
il più docile discepolo del grande .san Benedetto. il quale li ebbe ambedue,
Placido e Mauro. cari come figli. Dei due. Placido era forse il più giovane: poco più
che fanciullo, quando venne posto sotto la paterna guida dell'Abate San Benedetto.
Per questo, San Placido viene considerato quale Patrono dei novizi, cioè dei giovani che
si preparano alla professione religiosa nei monasteri benedettini. A Placido, oltre che a
Mauro. è attribuito un celebre episodio miracoloso narrato da San Gregorio Magno nei suoi
Dialoghi. Mentre Benedetto era nella .sua cella. un giorno. il giovane Placido si recò ad
attingere acqua nel lago. Perse l'equilibrio e cadde nella corrente. che subito la
trascinò lontano dalla riva. |