Mettiamo a disposizione on-line lo studio di don Oreste Borelli per il seminario esegetico "La preghiera del supplice nei salmi e nella letteratura sapienziale" tenuto dal Prof. Innocenzo Cardellini presso la Pontificia Università Lateranense
Il tema della morte in Qohelet
Introduzione
Vanità delle vanità, tutto è vanità. Chiunque si sia immerso in una lettura più o meno approfondita del Qohelet si sarà certamente trovato dinanzi a questo sconcertante ritornello, reso celebre dalla traduzione latina della Vulgata[1]. Nulla di ciò che cade sotto l’esperienza sensibile e che appartiene alla breve vita umana sfugge a questa conclusione. Tutto è vanità, tutto è effimero, vuoto, assurdo, incomprensibile, inafferrabile: dal lavoro al desiderio umano di basare l’intera vita umana sul guadagno, dalla sapienza alla ricchezza. Tutto è vanità e la morte ne è il segno più evidente.[ 2]
La riflessione sulla morte è un tema fortemente accentuato dal Qohelet che lo ripropone, all’interno delle sezioni che compongono il libro, ogni qual volta il discorso si fa centrale. Che non si tratti di un argomento marginale è dimostrabile non solo considerando il numero di passi in cui il tema si ripresenta in maniera più o meno esplicita (Qo 2,14-16; 3,19-21; 4,1-3; 5,14-15; 6,4-6; 8,8-9; 9,1-6.10; 12,1-7), ma anche osservando, in una visione d’insieme del libro, come questi in realtà non faccia altro che cominciare con la descrizione della generazione che «va» (Qo 1,4) e concludersi con la descrizione dell’uomo che ritorna alla polvere e a Dio (Qo 12,7). Ma qual è l’idea di morte presente nel libro? Qual è la sua influenza all’interno del pensiero qoheletiano?
In questo elaborato si cercherà di rispondere a queste domande concentrandosi sullo studio di Qo 9,1-6.10 e Qo 12, 5-7, senza però dimenticare anche altri passi ugualmente essenziali per una retta comprensione di questa realtà ineluttabile davanti a cui cade ogni illusione umana. Per una migliore comprensione si ritiene soprattutto utile richiamare, seppur brevemente, Qo 2,12-16 e 3,16-22 particolarmente significativi per lo scopo del lavoro, non senza aver però prima aperto anche una breve parentesi sulle annose questioni che riguardano l’autore, il periodo di composizione, l’ambiente socio-culturale, la struttura , lo stile e il messaggio del libro. Non è certamente questo il luogo in cui tali questioni potranno essere affrontate con la dovuta precisione ed esaustività. Qui si cercherà semplicemente di offrire, a mo’ di introduzione, un quadro generale che possa aiutare a meglio comprendere ciò che invece costituisce l’oggetto proprio di questo studio, rimandando, per ulteriori approfondimenti, alla vasta e spesso discordante letteratura che si è prodotta in questi anni sul libro che per molti rimane tra i più controversi della Sacra Scrittura.L’enigmatico Qohelet
La questione sull’autore, emersa con insistenza dal momento in cui si cominciò ad abbandonare la tesi tradizionale[ 3] che identificava l’autore del libro con il re Salomone, «figlio di David» (Qo 1,1) e «re di Israele in Gerusalemme» (Qo 1,12), rimane ancora motivo di discussione tra gli studiosi.
La mentalità giudaica di evidenziare il dono divino della Parola mettendo gli scritti fondamentali per la propria fede in relazione con personaggi importanti, aveva avuto il pregio di risolvere in un solo colpo non solo la questione dell’autore ma anche tutte le altre ad esse connesse[ 4]. L’aver, giustamente, ritenuto il riferimento a Salomone una semplice finzione letteraria, per mettere le proprie riflessioni sotto l’autorità dei più sapienti in Israele e così rivendicare un posto di rilevo in seno alla sapienza israelitica, ha invece aperto la strada a numerosi interrogativi di non facile soluzione.
Il nome Qohelet, che ritorna sette volte nel libro (Qo 1,1.2; 1,12; 7,27; 12,8.9.10), è un nome insolito, grammaticalmente formato con un participio femminile qal del verbo qahal «radunare». L’uso di participio come nome proprio non crea particolari problemi (la Bibbia è piena di tali nomi, si pensi a Giuseppe, @seyO da @s;y" «aggiungere» o a Mosè, hv,mo da hv'm' «salvare»), ma la presenza, come in questo caso, della desinenza femminile lascerebbe pensare più che a un nome proprio ad un soprannome o un nome di funzione[5].
Sulla reale esistenza di un personaggio chiamato Qohelet, sulla sua attività e sulla sua provenienza rimangono ancora forti divergenze tra gli esegeti. La discussione, partendo dai pochi dati biografici che vengono forniti nel libro, dipende in gran parte dalla interpretazione di quest’ultimi e in particolare dall’interpretazione data al versetto iniziale (Qo 1,1) e ai cosiddetti “primo proscritto” (Qo 12,9-11) e “secondo proscritto” (Qo 12,12-14).
Considerando autobiografica[6] la descrizione di vita lussuosa del secondo capitolo e non un semplice elenco di quanto la tradizione narrava di Salomone[ 7], emerge la figura di un uomo benestante, membro di una famiglia potente, probabilmente sacerdotale, se non addirittura regale. Sembrerebbe inoltre che egli godesse di benefici e possibilità, come quella di viaggiare, negati ai poveri. Si tratterebbe di un personaggio realmente esistito, un saggio (Qo 12,7) che non tenne per sé la sua sapienza ma la comunicò la popolo. Amante della ricerca riuscì a raggruppare intorno a sé (da qui il soprannome Qohelet) un gruppo di discepoli e a raccogliere il suo insegnamento in un libro[ 8]. Sulla base di alcune somiglianze con la filosofia greca, sembrerebbe anche che l’autore sia stato in contatto con il pensiero greco, ma, fino ad ora, non sono stata date prove sufficientemente valide. Alcuni dettagli fanno supporre che a parlare sia un uomo anziano [9], ma solo pochissime altre cose si possono dedurre dai “dati biografici” presenti nel libro.
Si è trattato sicuramente di un uomo intelligente e amante della saggezza e della ricerca che, con forte spirito per la verità e da vero uomo libero, seppe evitare di farsi chiudere in schemi predeterminati. Capace di demolire i capisaldi della sapienza tradizionale e di contrastare la mentalità borghese intenta ad accumulare ricchezze, Qohelet ha saputo ricondurre l’uomo ad apprezzare le piccole gioie quotidiane, ritenendole però non una sua conquista ma un dono di Dio. Gioia e timor di Dio sono un binomio inscindibile nel pensiero di qoheletiano di cui occorre tener conto per non esprimere quelle affrettate etichettature che hanno fatto dell’autore un nichilista, un pessimista, un ateo, uno scettico.La data di composizione
Il tentativo di dare una risposta precisa circa la datazione del libro, cercando di trovare all’interno del testo allusioni a fatti storici, è ancora oggi ritenuta un’impresa molto difficile, ragion per cui la ricerca continua a concentrarsi su analisi di tipo linguistico e letterario. Per un breve periodo, pensando che fosse stato scritto in aramaico, si è attribuita una datazione piuttosto bassa, ma la scoperta a Qumran di alcuni frammenti[ 10] datati al II secolo a.C. da una parte, e la presenza di alcune parole persiane dall’altra, hanno stabilito dei confini temporali all’interno dei quali oscillano le diverse posizioni. La tesi più seguita, vede come periodo di composizione il periodo ellenistico[11] (270 – 200 a.C.) , ma anche intorno ad una seconda tesi, che colloca il testo in un periodo che si estende dalla la metà del V secolo alla metà del IV secolo (periodo persiano), si raccolgono parecchi consensi. La datazione del testo nel periodo ellenistico potrebbe però essere una semplice scelta di comodo dovuta alla poca documentazione finora pervenuta sull’epoca persiana, che meriterebbe pertanto un’analisi più accurata[12].
La struttura del libro
Il problema relativo alla individuazione di una struttura interna al libro del Qohelet, emerso con insistenza dal momento in cui, caduta l’ipotesi plurifontista [13], si è sempre di più affermata l’idea dell’unità di autore è ben lontano dalla sua soluzione. Tra gli studiosi il disaccordo è massimo. Si passa infatti dal ritenere impossibile l’individuazione di una articolazione interna (Zimmerli, Gordis, Loretz), all’individuarne una seguendo un approccio solamente tematico (Bea, Ginsberg) o un approccio tipico dell’analisi letteraria (Lohfink) che unisce all’analisi tematica anche uno studio linguistico. Non sono neppure mancati fantasiosi studiosi che sono giunti a dimostrare una struttura fondata su semplici calcoli numerici. Per chi non riconosce la presenza di alcuna organizzazione, il libro appare come la raccolta di semplici detti, collocati uno di seguito all’altro senza alcun ordine logico. Tra quelli invece che ammettono una qualche struttura logica all’interno del libro non c’è però uniformità nello stabilirne una universalmente accettabile. In questo elaborato si farà riferimento alla struttura proposta da Lohfink[14], che pur con i suoi limiti, ha il pregio di fornire una buona sintesi di indizi letterari e contenutistici e evitare eccessive espansioni. La soluzione proposta da questo studioso corrisponde a una struttura concentrica come descritto di seguito:
Cornice (1,1-3)
Cosmologia (1,4-11)
Antropologia (1,12-3,15)
Critica sociale I (3,16-4,16)
Critica della religione (4,17-5,6)
Critica sociale II (5,7-6,10)
Critica dell’ideologia (6,11-9,6)
Etica (9,7-12,7)
Cornice (12,8)
Epilogo (12,9-11)
- primo poscritto: 12,9-11
- secondo poscritto: 12,12-141. Il tema della morte in Qohelet
Le espressioni che l’autore usa per indicare la realtà ineluttabile della morte sono svariate. Anche per il saggio Qohelet, così come gli altri autori sacri, non è facile descrivere la misteriosa realtà della morte e il ricorso al linguaggio simbolico risulta inevitabile. Accanto alla termine morte (tw<m') che nella Antico Testamento, tra forma verbale e sostantivo, ricorre 994 volte ed è quasi sempre utilizzata per indicare la morte dell’uomo, ecco comparire sinonimi e metafore quali sorte, destino (hr,q.mii)[15], fine, sheol (laov. o lwOav.), sepolcro oltre a una lunga serie di verbi andare, ritornare alla terra, perire. Fine di ogni illusione umana, la morte mette in luce l’assurdità della vita costringendo l’uomo ad odiare la propria vita (Qo 2,17). Neppure le posizioni della nascente tradizione apocalittica servono a colmare il vuoto che essa crea e a rendere ancora più drammatica la situazione è l’osservazione che di fronte alla morte non c’è alcun vantaggio nell’essere stati saggi piuttosto che stolti, buoni piuttosto che cattivi, anzi, davanti alla morte scompare anche ogni differenziazione con gli animali.
1.1 La morte per il saggio e per il giusto: Qo 2,12-16
2 [12]Ho considerato poi la sapienza, la follia e la stoltezza. «Che farà il successore del re? Ciò che è già stato fatto». [13]Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è il vantaggio della luce sulle tenebre: [14]Il saggio ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio. Ma so anche che un'unica sorte è riservata a tutt'e due. [15]Allora ho pensato: «Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Allora perché ho cercato d'esser saggio? Dov'è il vantaggio?». E ho concluso: «Anche questo è vanità». [16]Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto.
Qohelet si reputa saggio e vede in ciò una causa della propria felicità. La superiorità della sapienza sulla stoltezza sembra un dato esperienziale evidente (Qo 2, 13). La stessa saggezza popolare, chiamata in causa dall’introduzione di un proverbio (Qo 2,14a), sembra confermare tale constatazione, eppure il vantaggio di essere saggio, sebbene utile durante la vita, dura poco ed è mal ricompensato nella fine comune del saggio e dello stolto[16]. A che serve sforzarsi per cercare la saggezza? La fatica fatta proprio per cercare la felicità si dissolve dunque in una grande delusione. Neppure la possibilità di un ricordo futuro può essere portato come un punto a favore della sapienza. Morte e dimenticanza vanno di pari passo, non ci sarà nessun ricordo (cfr. Qo 1,11) ed entrambi moriranno. La morte, espressa qui per la prima in maniera esplicita, chiama l’uomo a dare un suo “primo sì, anche se ancora doloroso, davanti ad un dato di fatto”[17], a una realtà che si deve accettare abbandonando “ogni tentazione di cullarsi nel sogno di una immortalità”[ 18] simile a quella di un eroe. Il primo sì, a una realtà che appare di per sé ingiusta.
1.2 La morte identica per l’uomo e per gli animali: Qo 3,16-22
3 [16]Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c'è l'iniquità e al posto della giustizia c'è l'empietà. [17]Ho pensato: Dio giudicherà il giusto e l'empio, perché c'è un tempo per ogni cosa e per ogni azione. [18]Poi riguardo ai figli dell'uomo mi son detto: Dio vuol provarli e mostrare che essi di per sé sono come bestie. [19]Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c'è un solo soffio vitale per tutti. Non esiste superiorità dell'uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità. [20]Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. [21]Chi sa se il soffio vitale dell'uomo salga in alto e se quello della bestia scenda in basso nella terra? [22]Mi sono accorto che nulla c'è di meglio per l'uomo che godere delle sue opere, perché questa è la sua sorte. Chi potrà infatti condurlo a vedere ciò che avverrà dopo di lui?
Dinanzi alla sconcertante osservazione del trionfo dell’iniquità e dell’ingiustizia, più volte presente nel pensiero biblico, l’autore sembra appellarsi al giusto giudizio di Dio che raggiungerà giusti ed empi nel tempo da Lui stesso prefissato[19], ma sarà un’attesa che comunque non annullerà la condizione mortale dell’uomo. Ammettere, con la tradizione giudaica, un intervento salvifico divino, non vuol dire negare la condizione mortale dell’uomo. La morte non dà alcun vantaggio né ai giusti né agli ingiusti, anzi davanti ad essa scompare anche ogni differenziazione con gli animali. La sorte di quelli non è diversa dalla sorte di questi ed entrambi saranno radunati nello stesso luogo. Il “ritorno alla polvere”, altra immagine usata per esprimere la realtà della morte già presente in altri passi della Scrittura (Gn 2,7; 3,19; Sal 104,29, Gb 34,14), è un dato evidente, ma nulla si può sapere di cosa succederà dopo. Nessun passo della Scrittura ne ha mai parlato, né lo stesso Qohelet sembra voler prendere speciale posizione indizi in tale senso. L’unica cosa che si po’ affermare è che il soffio vitale (x:Wr) dato da Dio (Gn 2,7) a lui ritornerà , ma a nessuno è dato di sapere cosa ne sarà di questo spirito. Qohelet non è sicuramente colui che vuol chiudere la questione e le domande finali (Qo 3,21-22) ne sono la chiara testimonianza. Da uomo saggio evita di affermare dogmatismi lasciando invece che sia l’esperienza ad esprimersi.
2. Il destino comune: Qo 9,1-6.10
[1] Infatti ho riflettuto su tutto questo e ho compreso che i giusti e i saggi e le loro azioni sono nelle mani di Dio. L'uomo non conosce né l'amore né l'odio; davanti a lui tutto è vanità.
[2 ]Vi è una sorte unica per tutti,
per il giusto e l'empio,
per il puro e l'impuro,
per chi offre sacrifici e per chi non li offre,
per il buono e per il malvagio,
per chi giura e per chi teme di giurare.
[3] Questo è il male in tutto ciò che avviene sotto il sole: una medesima sorte tocca a tutti e anche il cuore degli uomini è pieno di male e la stoltezza alberga nel loro cuore mentre sono in vita, poi se ne vanno fra i morti. [4] Certo, finché si resta uniti alla società dei viventi c'è speranza: meglio un cane vivo che un leone morto. [5] I vivi sanno che moriranno, ma i morti non sanno nulla; non c'è più salario per loro, perché il loro ricordo svanisce. [6] Il loro amore, il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito, non avranno più alcuna parte in tutto ciò che accade sotto il sole.[…]
[10]Tutto ciò che trovi da fare, fallo finché ne sei in grado, perché non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né sapienza giù negli inferi, dove stai per andare.
2.1 Struttura
v. 1: introduzione
v. 2: per tutti c’è una sorte unica
a: giusto e empio
b: puro e impuro
c: chi offre e chi non offre sacrifici
d: buoni e malvagi
e: per chi giura e per chi teme di farlo
v. 3: ripresa del tema della sorte unica come conclusione
vv. 4-6: vantaggio dei vivi sui morti
v. 4: la speranza
v. 5: la conoscenza, la ricompensa (il ricordo)
v. 6: amore, odio, invidia
v. 10: invito alla vita.2.2 Contesto
Si entra, con questa pericope, nella parte finale del libro di Qohelet che concluderebbe, secondo la struttura delineata da Lohfink, la sezione sulla critica alla ideologia. Sullo sfondo di una riflessione gnoseologica circa i limiti della conoscenza umana (Qo 8,16-9-6) incapace, secondo l’autore, di afferrare ciò che guida la vita dell’uomo e tutto quello che lo circonda, si inseriscono due riflessioni sul tema della morte che qui, più che altrove, appare in tutta la sua misteriosità: il destino unico per ogni uomo (Qo 9,2-3) e il confronto vita-morte (Qo 9,4-6), alla ricerca di ciò che segue quest’ultimo evento.
L’unità letteraria dei primi sei versetti è garantita dall’unicità tematica e dall’inclusione delle parole ha'n>fi (odio) e hb'h]a; (amore) presenti sia nel v. 1 che nel v. 6, sebbene la presenza della particella congiuntiva yKi al v. 1, che molti neppure traducono, stabilisca uno stretto collegamento con quanto si diceva nei versetti immediatamente precedenti (Qo 8,16-17). La conclusione della pericope al v. 6 è del resto evidenziata dal cambiamento di persona prodotto nel v. 7 con la comparsa di una seconda persona singolare (imperativo iniziale %le dal verbo %l;h') in un discorso finora fatto in terza persona singolare.2.3 Analisi del testo.
v. 1: Il versetto si presenta fin da subito con alcune difficoltà testuali che complicano il tentativo di una comprensione adeguata. Una prima considerazione emergente dalla stessa nota del TM è la presenza in molti manoscritti dell’espressione yBili-ta, invece dei yBili-la, che complica un po’ la traduzione. Nella proposizione seguente hz<-lK'-ta, rWbl'w> il verbo rWbl' dovrebbe essere un infinito qal del verbo rWb preceduto da un l («rendere chiaro», «spiegare») per cui qualcuno (così Simmaco e la Vulgata) legge «e ho chiarito tutto questo» dando al verbo una forma finita, ma diversa è la lezione dei Settanta kardi,a mou su.n pa/n ei=den tou/to che sembra leggere invece hz,-lK'-th, ha'r'' ybiliiw> (cioè «e il mio cuore ha visto tutto questo» oppure, supponendo una forma enfatica «e ho compreso bene». Ultima nota riguarda invece il termine ~h,ÞydEb'[]w: «le opere di loro» un’aramaismo che lascia supporre a una redazione tardiva del testo.
Dando al yKi un valore casuale ne segue che il primo «tutto» (hz<-lK'-tapotrebbe riferirsi alle osservazioni precedenti (Qo 8,16-17), rispetto al secondo che proietterebbe verso una nuova considerazione. I profondi limiti della conoscenza umana nel cogliere tutto ciò che succede sotto il sole (v. 8,17), si trasformano in assoluta incapacità allor quando l’oggetto specifico dell’analisi diventa il rapporto dell’uomo con Dio, il cui operato non può essere conosciuto, qualunque sia lo sforzo umano. I giusti e i saggi, qui forse da considerarsi sinonimi[20], con le loro opere sono nelle mani di Dio, cioè sotto il suo governo, sotto la sua protezione, ma essi, come ogni qualunque altro uomo, non possono avere cognizione di quale sia il loro futuro. In realtà l’uomo non sa neppure se amato o odiato da Dio[21], perché questo, contrariamente a quanto sosteneva il giudaismo dell’epoca, non può essere conosciuto a partire dal successo o meno nella vita, segno della benedizione di Dio o indice del contrario. Già prospettata nei versetti Qo 8,13-14, tale interpretazione trova la sua conferma nella finale del versetto lKoh; ~h,ynEp.li (letteralmente «tutto è davanti a loro») Che lascerebbe intravedere come tutte le possibilità sono aperte.v. 2: L’uomo non può, partendo dalla analisi sui beni a lui concessi durante la vita, discernere l’agire di Dio: tutte le possibilità sono aperte in maniera equivalente, e la sorte comune spettante a tutti ne è una inevitabile conferma.
Dal punto di vista testuale occorre notare come all’inizio del versetto nel TM compare un «tutto» che non sembra aver senso al punto tale che la traduzione CEI, considerandola parte finale del v. 1, traduce quest’ultimo con «tutto è vanità» seguendo la lezione della Vulgata, dei Settanta e della Siriaca. Probabilmente la parola può essere una semplice dittografia della parola alla fine del versetto precedente[22], ma potrebbe anche essere una ripetizione voluta per enfatizzare la situazione e legarla all’avverbio rv,a]K; che potrebbe avere in tal caso valore causale o dimostrativo. Anche il «malvagio» della traduzione CEI contrapposto a «buono» non compare nel TM, ma è invece attestato nelle altre versioni (Settanta, Vulgata, Siriaca).
La sorte unica, di cui Qohelet si era già occupato (cfr. Qo 2,12-16; 3,16-22) ma senza alcun riferimento alla qualifica morale, viene ora ripresentata attraverso giustapposizione di alcune coppie moralmente antitetiche[ 23] che, per imperscrutabile disegno divino, si presentano livellate. Le categorie presentate, non contrapposte l’una all’altra per diversa posizione sociale, politica, geografica o per appartenenza a diversi gruppi etnici, ma secondo criteri morali propri della sapienza tradizionale, richiamano, seppure indirettamente, il problema della retribuzione morale. I giusti e gli empi, il buono e il cattivo, il puro e l’impuro, chi sacrifica e chi no, avranno tutti la stessa sorte, per ogni uomo non c’è che il medesimo destino mortale[24].v. 3: Si giunge davanti a un punto cruciale della riflessione qoheletiana e l’autore, consapevole dell’importanza di quanto appena detto (Qo 9,2), sembrerebbe non voler correre il rischio che ciò passi inosservato. In modo repentino viene ribadita questa drammatica e sconvolgente conclusione - «è questo il male…che un unico destino tocca a tutti» - resa ancora più dolorosa dalla constatazione di un peggioramento della moralità che ne deriva, quale inevitabile conseguenza[25]. Il cuore dell’uomo, già segnato dal peccato, diventa ancor più malvagio e folle. Non si vede alcun vantaggio nel condurre una vita moralmente buona, non si vede il perché di certe mortificazioni e rinunce, se poi non ne deriva che una sorte comune tanto per il giusto quanto per l’empio, e così aumenta il desiderio del male fino al sopraggiungere della morte.
v. 4: La vita, piena di male e stoltezza, è comunque da preferirsi alla morte, L’autore, che altrove sembrerebbe preferire la morte, fermo restando la migliore condizione di non esser mai nati (cfr. Qo 4,2-3), non sembra aver alcuna esitazione a riguardo: «Meglio un cane vivo a un leone morto»[26]. L’essere vivi ha dunque dei vantaggi, primo tra tutti, la possibilità di sperare.
Negli altri due unici testi della Sacra Scrittura (Is 36,4 e 2Re 18,19) in cui compare lo stesso termine !AxJ'Bi sembra fuor di dubbio che si stia parlando della fiducia da riporre in Dio, ma che la si debba comprendere anche qui con questa accezione non è un dato certo. Molti autori, infatti, la intendono come speranza che le cose possano essere migliorate prima del sopravvento della morte[27], altri come “comportamento fiducioso da all’interno del tessuto dei rapporti umani o un appoggiarsi a Dio…(o) una nuova parola per dire ‘timor di Dio’” [28]. Non sono molti gli indizi che consentono di propendere per l’una o l’altra ipotesi, ma rimane comunque, indipendentemente dalla interpretazione che se ne può dare, la certezza che i vivi possano fare qualcosa che sembrerebbe non essere permessa ai morti.
v. 5: Ma il vantaggio della vita sulla morte non si limita al fatto che i vivi possono ancora sperare. Esistono altri motivi che spiegano la preferenza, in ogni caso, della vita rispetto alla morte: la possibilità di conoscere e di essere ricompensati e ricordati.
Sebbene, come già detto precedentemente dallo stesso autore, la sua conoscenza sia limitata, l’uomo sa almeno che dovrà morire e questo paradossalmente è di per se un vantaggio rispetto ai morti che invece non sanno nulla. Ma come poter sapere che i morti non conoscono nulla? Non essendo frutto di una esperienza personale si tratterebbe, come sostiene qualche studioso[29], della logica conseguenza di un certo modo di intendere la morte e il mondo dell’al di là, che Qohelet non sembra voler nascondere: la morte è per lui l’esatto contrario della vita.
Anche l’impossibilità di ricevere ricompense e di essere ricordati sembrano costituire altrettanti motivi per cui è meglio la vita rispetto alla morte. Il ricordo è destinato a svanire (cfr. Qo 2,16) ed con esso sembra concludersi la possibilità di qualunque forma di ricompensa. Il binomio rimunerazione-ricordo potrebbe essere un semplice gioco di parole[30], ma potrebbe anche trovare un fondamento in quella particolare forma di ‘retribuzione’, presente nella mentalità popolare del tempo, che vedeva nel ricordo un mezzo di “sopravvivenza” oltre al morte[31]. La fine del ricordo appariva come una definitiva morte, perdendo del tutto la loro esistenza.v. 6: Cessata ogni possibilità di conoscenza e di ricompensa, per i morti finisce anche ogni attività sentimentale («il loro amore, il loro odio, la loro gelosia»), ossia tutto quell’insieme di passioni umane che guidano le scelte di ogni giorno e caratterizzano tutto il tessuto delle relazioni interpersonali. I morti vengono a perdere ciò che contraddistingue i vivi e per loro non ci sarà più partecipazione a quanto si continuerà a fare sotto il sole. Non si può affermare con certezza che dietro queste osservazioni si nasconda una critica nei confronti delle idee apocalittiche che professavano, dopo la risurrezione, una ricompensa su questa terra[ 32], ma sembra invece chiaro l’intento dell’autore nel voler ribadire la sua concezione sull’al di là come negativo della vita attuale.
v. 10: Dopo aver invitato al godimento della vita nei piaceri della tavola, nelle feste, con la propria moglie, cioè nelle cose semplici della vita di ogni giorno, regalo di Dio e segno della sua benevolenza nei confronti dell’uomo (Qo 9,7-9) Qohelet invita all’azione. Tutto quello che si può fare (letteralmente «tutto ciò che la tua mano trova da fare») e cioè “ogni lavoro e attività, manuale e intellettuale”[33] fa fatto con forza[34] perché questo non sarà più possibile al sopraggiungere della morte, che condurrà ogni uomo nello sheol , luogo dove ciò non si potrà più fare.
E’ discusso tra gli autori se circa la dottrina dello sheol Qohelet condivida la posizione tradizionale presente in Israele[35] o meno. Secondo alcuni si tratterebbe di vera adesione alla concezione dell’al di là tipica del mondo semitico, secondo altri si tratterebbe invece di una semplice allegoria della morte. Quello che sembra comunque fuor di dubbio è la sottolineatura della mancanza di ogni attività che caratterizza la vita umana che ancora una volta evidenzierebbe la concezione della morte come esatto contrario della vita.3. Evocazione della vecchiaia: Qo 12,5-7
[1] Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire: «Non ci provo alcun gusto», [2 ] prima che si oscuri il sole, la luce, la luna e le stelle e ritornino le nubi dopo la pioggia; [3]quando tremeranno i custodi della casa e si curveranno i gagliardi e cesseranno di lavorare le donne che macinano, perché rimaste in poche, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre [4 ]e si chiuderanno le porte sulla strada; quando si abbasserà il rumore della mola e si attenuerà il cinguettio degli uccelli e si affievoliranno tutti i toni del canto; [5]quando si avrà paura delle alture e degli spauracchi della strada; quando fiorirà il mandorlo e la locusta si trascinerà a stento e il cappero non avrà più effetto, poiché l'uomo se ne va nella dimora eterna e i piagnoni si aggirano per la strada; [6] prima che si rompa il cordone d'argento e la lucerna d'oro s'infranga e si rompa l'anfora alla fonte e la carrucola cada nel pozzo [7] e ritorni la polvere alla terra, com'era prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato.
3.1 Struttura
v. 1a: Ricordati del tuo Creatore….
v. 1b: prima che… rv,a] d[;
v. 2: prima che… rv,a] d[;
vv. 3-5b: nel giorno i cui
v. 5c: poiché
vv. 6-7: prima che… rv,a] d[;3.2 Contesto
I versetti in esame appartengono alla poema conclusivo di tutto il libro (esclusi i due “poscritti”) comunemente ritenuto il più affascinante, ma nel contempo, più difficile e discusso passo di tutto il libro, e non solo per problemi di ordine testuale. Il principale punto di divergenza sul modo di interpretare il testo ha prodotto una varietà di opinioni tale da rendere più che attuale ciò che già s. Girolamo sosteneva, poco prima del 400 d.C.: “ tante interpretazioni quanto il numero di uomini esistenti”.
Il contesto più immediato in cui si collocano i versetti Qo 12,5-7, oggetto proprio di questo studio, è quello di un invito del saggio Qohelet ai giovani (cfr. Qo 12,1), affinché volgano la loro attenzione al Dio prima che vengano i giorni della vecchiaia[36]. “inverno della vita”[37], caratterizzata dalla perdita delle forze e che colpisce tutti gli abitanti della casa indistintamente: nobili, servitori, dame e serve (cfr. Qo 3-4)[38] .
Non si tratta di un semplice invito a cogliere il carpe diem, ma vedere la propria vita in relazione a Colui che ne è la sorgente - «ricordati del tuo Creatore» - perché solo in questo legame si potrà trovare l’uscita dall’angoscia e dalla disperazione che il pensiero della vecchiaia ultima tappa della vita prima del sopraggiungere della morte potrebbero provocare.3.3 Analisi del testo.
v. 5a: L’interpretazione di questo versetto, già complessa per difficoltà di ordine esegetico e testuale, risulta ancora più problematica a causa delle diverse interpretazioni dei versetti precedenti.
Già la prima espressione non di facile comprensione. Il verbo War"yI, imperfetto qal da arey" «aver paura»[39], è stato in molti manoscritti ebraici letto come War>yI da ha'r' «vedere» (così LXX, Simmaco e Siriaco). Se si accettasse la seconda lezione («vedere») si dovrebbe necessariamente collegare con il v. 4 e pensare gli uccelli, lì descritti, come avvoltoi che dall’alto studiano le loro prede, ma ciò creerebbe qualche problema con lo stinco precedente dove compare il femminile che più che agli uccelli si riferisce al loro canto. La soluzione proposta da TM e Vulgata può essere vista come un impersonale («si avrà timore») fermo restando poi definire la causa di questo timore. Il termine precedente H:boG" (preceduto dalla preposizione !mi) per alcuni inusuale per indicare un’altura, ma attestato nella Bibbia molte volte per indicare molti o colline, potrebbe semplicemente far riferimento a luoghi alti dove ormai l’anziano non riesce più a salire il che spiegherebbe il motivo del timore. Tale interpretazione sembrerebbe, inoltre, più in consonanza con la seconda parte del versetto che in parallelo tratta della paura di uscire per strada («e ci sono timori nella strada»)[40]. La vecchiaia, di cui l’autore pare voler continuare la descrizione, si mostra in tutta come una debilitazione fisica che colpisce non più l’uomo impedendogli persino di fare le cose più consuete.v. 5b: Ancora più problematico risulta la seconda parte del versetto. Il verbo successivo #anEy"w>, è un hapax le cui possibili lezioni sono:
1) #nEy"w (senza alef) verbo hifil di #c;n" «fiorire» (del mandorlo) ;2) #a;n" hifil #a;n" «disprezzare» (il mandorlo): inteso come mancanza di gusto nell’anziano;
Dalla scelta dell’una o dell’altra scelta derivano due diverse interpretazioni del versetto[41]. La prima scelta, porterebbe a vedere, in chiave allegorica, nel fiorire del mandorlo l’incurvarsi dell’anziano, nella pesantezza della locusta il suo camminare lento. La seconda, in chiave realistica, continua a descrivere la nausea che provoca il mandorlo, per la mancanza di gusto, vedendo nella pesantezza della locusta la difficoltà digestiva, e nel cappero l’impossibilità di poter rimediare all’inappetenza, anche se non si può escludere l’effetto afrodisiaco visto la fine di ogni appetito sessuale nel vecchio[42].
In continuità con lo stinco precedente, sembrerebbe più plausibile questa seconda soluzione. Si tratterebbe ancora una volta di una descrizione della vecchiaia vista come incapacità nel trovare gusto per i più prelibati quale le locuste, e nel riuscire a digerire neppure le delicate mandorle.v. 5c: La descrizione della vecchiaia si avvia verso la conclusione lasciando lentamente il posto alla morte. Si tratta ancora di un preannuncio, come sembra indicare verbo %leho (participio presente) «mentre se ne sta andando», già usato in riferimento alla morte in Qo 1,4 e Qo 3,20, ma la prospettiva sembra ormai inevitabile [43]. I piagnoni che si aggirano per le strade, forse avvicinandosi verso al casa del moribondo, sono pronti a prestare il loro servizio e ad accompagnare, quando sarà il momento, il defunto alla tomba. Questa pare la giusta interpretazione[ 44] da dare all’espressione Aml'A[ tyBe, («sua dimore eterna») che troverebbe riscontro nel Sal 49,12 dove il sepolcro viene descritto come loro casa per sempre.
v. 6: Con l’uso dell’espressione rv,a] d[; («prima che») che rimanda al contesto generale di Qo12,1, l’autore sembra voler introdurre ora un secondo tema di riflessione. Sebbene il versetto non sia esente da difficoltà testuali, non sembra lasciare spazio a possibili fraintendimenti[ 45]. L’immagine della lampada d’oro appesa a un filo d’argento che si spezza causando anche la rottura della stessa e quella della carrucola utilizzata nei pozzi a cui è appesa una brocca per attingere acqua, richiamando due simboli della vita, la luce e l’acqua, diventano infatti chiara espressione alla fine della vita.
v. 7: Il versetto conclusivo di tutto il poema, ma anche dell’intero libro, si muove sullo sfondo, dei due racconti genesiaci della creazione e nella antropologia in essi contenuta (Gn 2,7; 3,19), dimostrando come Qohelet sia più che mai radicato all’interno della tradizione di Israele. Con la stessa chiarezza e con la medesima sicurezza del libro della Genesi e dei passi paralleli, l’autore afferma la sua fede in Dio Creatore (Qo 12,1), che come dalla terra trasse il primo uomo infondendo in esso il soffio vitale, così direttamente continua ad operare per ogni altro uomo. Ma con il libro delle origini, Qohelet condivide anche la stessa concezione della mortalità dell’uomo (Gn 3,19). La polvere ritorna alla terra e lo spirito vitale dell’uomo, entrato misteriosamente in esso con la nascita, ritorna a Dio. Evitando ancora una volta spiegazioni circa ciò che potrebbe esserci dopo la morte, l’autore non si spinge al di là di una semplice constatazione, evidenziando piuttosto la sua concezione di morte come esatto contrario della vita, che qui trova il suo apice. Voler vedere in queste parole una affermazione dell’immortalità dell’anima, sarebbe fuori luogo. Di una sopravvivenza oltre la morte, conseguente applicazione della dicotomia greca anima corpo, l’autore non sembra esserne a conoscenza[ 46]. Qohelet non parla mai di anima ma solo di soffio vitale che Dio si riprende dopo averlo dato, quasi in prestito all’uomo.
Conclusione
Qual è l’ idea di morte in Qohelet? Qual è l’influenza che questa concezione ha esercitato sul resto del suo pensiero? In questo breve lavoro si è cercato di rispondere a queste domande attraverso l’analisi, più o meno dettagliata, di alcuni passi (Qo 2,12-16; 3,16-22; 9,1-6.10; 12,5-7) del libro in cui il tema della morte è sembrato emergere con maggiore insistenza.
Se la morte, destino unico che accomuna non solo gli uomini tra loro (Qo 2,16; Qo 9,2-3), ma anche gli uomini con le bestie (Qo 3,19), si presenta tra le pagine del libro con tutta la sua carica di drammaticità, se è ferma e assoluta la persuasione di dover morire (Qo 2,16; 9,5) e altrettanto oscura appare la possibilità di saper qualcosa sul dopo-morte (Qo 3,21; Qo 9,7), non si può certo dire che Qohelet sia un pessimista, un uomo rassegnato e in preda alla disperazione. La constatazione della morte come stroncatura della vita (Qo 9,6.10;12,7) costituisce sicuramente un evento che va contro le aspirazioni dell’uomo, ma proprio il coraggio di poterla guardare in faccia aiuta l’autore ad uscire dal non-senso e “accogliere quella parte della vita che a l’uomo è concessa nonostante la morte e che pertanto la morte stessa non può distruggere.”[47]
E Dio in tutto questo? Come per Qohelet l’alternativa non è tra pessimismo e ottimismo, non lo è neppure tra ateismo e fede. “Per lui la fede in Dio è pacifica robusta e salda. E in nome della sua fede che il saggio invita a rinunciare alla sproporzionata pretesa di assolutezza e di infallibilità, a riconoscere il proprio limite di creaturalità che include la morte, ad aprirsi al mistero insondabile di Dio che dà senso a tutta la realtà e dona anche le gioie della vita”[48].
La morte irrompe con la sua capacità di demolire ogni illusione, spazzando via ogni ostacolo, umiliando ogni confidenza in se stesso e avviando ricchi e poveri, sovrani e sudditi, stolti e sapienti verso l’aldilà […] Spesso noi cerchiamo in tutti i modi di ignorare questa realtà, allontanandone il pensiero dal nostro orizzonte. Ma questo, oltre che inutile e anche inopportuna. La riflessione sulla morte, infatti, si rivela benefica perché relativizza tante realtà secondarie che abbiamo purtroppo assolutizzato come appunto la ricchezza, il successo, il potere […]”[ 49] lasciando il posto Dio Creatore (Qo 12,1.7) l’unico capace di dare senso alla vita, il cui agire resta pur sempre incomprensibile, ma non per questo meno autentico. La morte, nella sua drammaticità può aiutare ad entrare in quell’atteggiamento di attesa e di disponibilità necessari per accogliere Dio per quello che realmente è e non per quello che vorremo fosse.
Vanità delle vanità. Tutto è vanità, ma Dio non lo è.
Abella J.( a cura di), Salmi e letteratura sapienziale. Pregare Dio nella vita, EDB, Bologna 2002, 125-154.
Bonora A., Il libro di Qoelet, Città Nuova, Roma 1992.
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D’Alario V., «Un sapiente interroga la storia», in Parole di Vita 48(2003/3), 4-10.
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Lohfink N., Qohelet, Morcelliana, Brescia 1997.
Mazzinghi L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna 2001.
Sacchi P., Ecclesiaste, Edizioni Paoline, Roma 1976[2].
Vinchez Lindez J., Qohelet, Borla, Roma 1997.
Indice
Introduzione
L’enigmatico Qohelet
La data di composizione
La struttura del libro
1. Il tema della morte in Qohelet
1.1 La morte per il saggio e per il giusto: Qo 2,12-16
1.2 La morte identica per l’uomo e per gli animali: Qo 3,16-22
2. Il destino comune: Qo 9,1-6.10
2.1 Struttura
2.2 Contesto
2.3 Analisi del testo.
3. Evocazione della vecchiaia: Qo 12,5-7
3.1 Struttura
3.2 Contesto
3.3 Analisi del testo.
Conclusione
Bibliografia
[1] L’opera di san Girolamo traduce il termine ebraico lb,h, con la parola vanitas, riprendendo la traduzione greca dei LXX che invece traduce con il termine mataio,thj. Né l’una né l’altra traduzione rendono però bene il senso della parola ebraica.
[2] Cfr. Mazzinghi L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna 2001, 416
[3] Il primo a mettere in discussione l’autenticità salomonica fu Ugo Grozio nel 1644 (cfr. ivi, 20). Fino ad allora, sia la tradizione giudaica che quella cristiana erano state concordi nel ritenere il libro opera del vecchio Salomone (unico figlio di Davide ad essere diventato re) che, giunto ormai alla fase ultima della sua vita, traccia una riflessione amara e realistica di chi vede le realtà di questo mondo come cose vane e prive di senso.
[4] Provenienza, data di composizione, ecc. L’attribuzione del libro a Salomone fu un criterio molto importante, assieme alla conformità con la legge mosaica (cfr Qo. 12,13), per far entrare il libro nel canone ebraico.
[5] Alcuni esegeti, a conferma di ciò, fanno notare come il nome ben due volte (Qo 7,27; 12,8) compare preceduto dall’articolo cosa insolita per un nome proprio, ma tale posizione non è da tutti condivisa. Sacchi P., per esempio, facendo notare la presenza in Ne 7,57 di Soferet, che pur simile a Qohelet, risulta invece nome proprio, ritiene cosa migliore considerarlo non un appellativo, ma un vero nome di persona (cfr. Sacchi P.,Ecclesiaste, Edizioni Paoline, Roma 1976[2], 12-13).
[6] Cfr. Mazzinghi L. op. cit, 21; Lohfink N., Qohelet, Morcelliana, Brescia 1997, 22
[7] Cfr. Sacchi P., op. cit, 126.
[8] Cfr. Lohfink N., op. cit, 22-23. Secondo questo studioso, quasi tutto il libro risulterebbe opera di un’unica mano eccetto il titolo (Qo 1,1) e l’epilogo (Qo 12,9-14) opera di due redattori diversi. Durante il periodo ellenistico, per far fronte alle forti richieste di “riforma scolastica”, il libro di Qohelet sarebbe stato adottato come libro di testo accanto a quelli tradizionali e per renderlo simile a quest’ultimi (tutti questi testi venivano attribuiti a Salomone o ad altri re saggi della storia di Israele) si sarebbero aggiunti il titolo (Qo 1,1) e il “primo poscritto” (Qo 9,11) necessario per evidenziare l’importanza di Qohelet. Il “secondo poscritto” risalirebbe invece al periodo della rivolta maccabaica, per difendere l’ortodossia e attenuarne la portata rivoluzionaria del libro.
[9] Cfr. Qo 9,10; 11,9; 12,1.
[10] Nella Grotta IV sono stati trovati quattro frammenti (5,13-17; 7,79 / 7,1-2/ 7,3-6/ 7,19-20) datati alla seconda metà del secondo secolo a.C. (sulla base di confronti epigrafici con altri papiri).
[11] Tra i tanti elementi che giocano a favore di una tale collocazione compare la menzione della puleggia collocata sopra i pozzi (cfr. Qo 12,6) che pare essere una innovazione introdotta in Palestina nel III secolo (Cfr. Lohfink N., op. cit., 141).
[12] Cfr Mazzinghi L., op. cit., 68. L’autore, apprezzando il lavoro di ricerca svolto dallo studio Seow sul periodo persiano, sembra voler criticare una certa ricerca basata essenzialmente su studi linguistici e poco attenta ad inglobare altri fattori (sociologici, antropologici e culturali) che potrebbero contribuire a una datazione più precisa.
[13] L’ipotesi plurifontista, portata avanti fin dalla fine dell’800 e che ormai sembrava tramontata, è però riemersa ultimamente con l’opera pubblicata all’inizio del 2000 da Rose che vede nel testo, secondo la teoria documentaria proposta per lo studio del Pentateuco, l’opera di un saggio, di un suo discepolo che opera la prima rilettura, di un teologo che opera la seconda rilettura e di un editore finale cui si deve l’introduzione dell’epilogo finale e l’opera di canonizzazione.
[14] Cfr. Lohfink N., op. cit, 19.
[15] Il termine è tipicamente qoheletiano. Su 10 ricorrenze attestabili nell’Antico Testamento ben 7 si trovano in Qohelet.
[16] Di Fonzo L., Ecclesiaste, Marietti, Torino 1967, 154.
[17] Lohfink N., op. cit., 57.
[18] Sacchi P., op.cit., 131.
[19] L’interpretazione dei vv. 16-17 è molto discussa, anche per la presenza alcune difficoltà testuali. Si rimanda per maggiori dettagli sulla questione a Sacchi P., op. cit., 146-148; Di Fonzo,op. cit, 170-172. Per il primo non si può parlare di giustizia retributiva perché esclusa dall’orizzonte qoheletiano, per il secondo invece si tratta un giudizio postumo. Più accettabile sembra essere la posizione espressa da Bonora secondo cui con il ricorso alla dottrina della retribuzione Qohelet pare voler creare lo sfondo su cui inserire la sconvolgente osservazione della morte (cfr. Bonora A.,Il libro di Qoelet, Città Nuova, Roma 1992, 69-71).
[20] Questa è per esempio la posizione di Vinchez Lindez J. che troverebbe una conferma in Sap 4,16-17. Diversa è invece la tesi di Lohfink N. secondo cui invece si tratterebbe di due categorie ben diverse, i fedeli alla Legge e i dotti, cioè gli esperti in cui umane. (cfr. Vinchez Lindez J., Qohelet, Borla, Roma 1997, 368).
[21] In realtà la frase, che letteralmente si potrebbe tradurre come «né l’amore né l’odio l’uomo conosce», si presta ad almeno due interpretazioni che dipendono dalla scelta del soggetto amante e odiante. La maggior parte degli studiosi, in linea con la tradizione che attribuisce a Dio caratteristiche antropomorfiche (cfr. Mal 1,3), propendono per indicare Dio come soggetto di amore e odio nei confronti dell’uomo, ma non manca chi, ritenendo tale attribuzione “una banalizzazione del testo”, sostiene che l’intenzione dell’autore sarebbe quella di indicare l’incapacità dell’uomo di conoscere sé stesso (cfr. Sacchi P., op. cit., 198).
[22] Cfr. Di fonzo., op. cit., 264;
[23] Tutte le coppie sono presentate seguendo un ordine ben preciso. Al primo posto è presentato un comportamento moralmente positivo, al secondo quello negativo, il che indurrebbe a pensare che il giurare sarebbe un atteggiamento positivo mentre il non farlo sarebbe negativo. Gli ebrei erano soliti giurare, sebbene fosse punito il falso giuramento. Si potrebbe allora pensare che in questo caso l’autore consideri negativamente il rifiutarsi di farlo, ma questo contravverrebbe con il resto dello stinco dove viene contrapposto il timore di farlo. Più probabilmente occorre in questo caso pensare ad una inversione. Il termine di riferimento sarebbe dunque la norma del Decalogo (Es 20,7; Dt 5,11) per cui il giuramento si riferirebbe a un giuramento falso in nome di Dio.
[24] Per alcuni autori il termine hr,q.mi in questo primo caso, va interpretato in senso più generico cioè non indicante la morte stessa, ma solo l’insieme di beni e mali possono toccare a tutti, indipendentemente dalla condotta morale (cfr. Di Fonzo., op. cit., 264). Tale posizione non può però essere pienamente condivisa perché sia il contesto sia l’utilizzo del termine nel resto del libro (cfr. 2,12-16) non sembrano lasciare spazio al minimo dubbio.
[25] Cfr. Di Fonzo L., op. cit., 265. Tale interpretazione non è da tutti condivisa. Non sono pochi infatti quelli che leggono l’esatto contrario, ritenendo, cioè la sorte comune come conseguenza nella malvagità del cuore umano. Il testo in realtà non lascia intendere nulla di tutto ciò e l’affermazione che il giusto e il malvagio condividono lo stesso destino mortale (Qo 9,2) ne è la prova più evidente. Contro ogni nesso logico fra le due affermazioni, si collocano altri studiosi tra cui Vinchez Lindez che considera le due affermazioni “sullo stesso piano logico” (cfr. Vinchez Lindez, op. cit.,374).
[26] La citazione riportata è quella di un proverbio probabilmente molto antico. Esistono documenti antichi che in forme più o meno simili esprimono lo stesso contenuto. La preferenza della vita viene rafforzata dalla relazione con il cane, animale che sebbene utile per la custodia della casa e del gregge, era considerato immondo e spregevole soprattutto in rapporto al leone simbolo della fortezza, di nobiltà.
[27] Cfr. Di Fonzo L.,op. cit., 266.
[28] Lohfink N., op. cit., 113-114.
[29] Cfr. Vinchez Lindez j.,op. cit., 376.
[30] I termini ebraici rk'f' (ricompensare) e ~r'k.zI (il loro ricordo) da rk'z" si prestano a questo tipo di interpretazione.
[31] Cfr. Lohfink N., op. cit, 114. Per l’autore si tratta di una effettiva remunerazione che potrebbe trovare conferma in alcuni fatti parapsicologici.
[32] Cfr. Vinchez Lindez j.,op. cit., 377. Gli indizi testuali, secondo questo autore non consentono di poter alcuna posizione a riguardo.
[33] Di Fonzo L., op.cit, 270.
[34] Così si è scelto di tradurre il termine ^x]koB.. In realtà tale soluzione non da tutti gli studiosi condivisa. Il dissenso nasce dal fatto che TM lo considera come proposizione relativa («tutto ciò che la tua mano trova da fare con la tua forza, fallo») mentre la Lxx lo interpreta come locuzione avverbiale della seconda proposizione («tutto ciò che la tua mano trova da fare, fallo con forza»).
[35] Lo sheol, luogo sotterraneo dove si dirigevano i morti, era concepito come una luogo di una esistenza vaga, tenebrosa, dove in qualche modo continuava l’esistenza dell’uomo (cfr. Sal 88,12-13; 115,17; Gb 10,21-22).
[36] Così Vinchez Lindez, sulla scia di altri autori interpreta lo stinco «prima che vengano i giorni tristi» (Qo 12,1b). Altri autori propendo per considerare questa frase come riferimento esplicito alla morte, ma il parallelo con lo stinco successivo - «prima che sopraggiungano gli anni… » (Qo 12,1c) -sembra favorire la prima interpretazione (Cfr Vinchez Lindez J.,op. cit., 428).
[37] L’immagine invernale è descritta attraverso il ricorso alle nubi. Anche un’eventuale loro scomparsa non sono una speranza dell’arrivo della primavera, ma solo un momento di tregua prima che altre nubi cariche di acqua ritornino ad affacciarsi sul cielo «e ritornino le nubi dopo la pioggia» (cfr. ivi, 429).
[38] I custodi invecchiati tremano, i padroni si curvano per il peso degli anni, ci sarà più bisogno di macinare il pane, e le nobildonne non guarderanno più dalla finestra a causa della loro vista diminuita enormemente. (Cfr. Bonora A.,op.cit.,164). Questa lettura in chiave realistica non è l’unica possibile. Tra le tante altre interpretazioni emerge quella allegorica come descrizione del corpo (per esempio cfr. Di Fonzo, op. cit., 316). Il gagliardo curvato (dal dolore o dalla morte) potrebbe anche indicare la morte del padrone di casa, e questo provocherebbe uno stato di straordinarietà: i custodi tremanti di paura, le macinatrici che cessano di lavorare per accorrere, e lo sguardo dalle signore offuscato dalle lacrime. (Cfr. Mazzinghi L.,op. cit., 290).
[39] Così leggono TM e la Vulgata dove il verbo è stato tradotto con timebunt.
[40] Cfr. Mazzinghi L.,op. cit, 293-294. L’autore, criticando la posizione di Fox che “in maniera forse un po’ troppo ingegnosa” pensa alle lamentatrici che temono Dio, propone di pensare alle salite, frequenti nelle città, che l’uomo non riuscirebbe a fare, o alle terrazze (meglio sarebbe le scale che conducono alla terrazza) della propria casa.
[41] In realtà le due posizioni sopra riportate non sono le uniche possibili. Alcuni autori, leggendo il verbo #c;;n" («fiorire»), vedono un contrasto tra la primavera incipiente (il mandorlo che fiorisce) e la vecchiaia che conduce inesorabilmente alla morte (la locusta, considerata come pianta, e il cappero che perde le foglie). (Cfr. Mazzinghi L., op. cit, 296; Vinchez Lindez J.,op. cit., 432).
[42] Il riferimento all’appetito sessuale troverebbe riscontro in parecchi documenti antichi quali il Talmud bShab e lo stesso commento di S. Girolamo.
[43] Di diverso parere sembra l’interpretazione di Mazzinghi. Per lui si tratta di una descrizione della morte che è già giunta come sembrerebbe indicare la presenza dei lamentatori che vanno in giro per la piazza. (cfr. Mazzinghi L.,op. cit., 296).
[44] Cfr. Lohfink N., op. cit., 141.
[45] Cfr. Sacchi P., op. cit 219; Di Fonzo L., op. cit, 326. Sebbene oggi questa possibilità sembra lontana, non sono mancati tentativi di vedere anche qui una continuazione della descrizione allegorica del corpo umano. Esemplare è la allegoria giudaica che in un passo del Targum che identifica il filo d’argento con la lingua, il cervello con la lampada d’oro, il corpo con la carrucola, il pozzo con la tomba ecc.
[46] Molti autori esprimono chiaramente questa posizione, mentre altri sembrano favorire una posizione diversa, vedendo in ciò una posizione non dissimile con quella della tradizione israelitica.
[47] Lavoratori R. – Sole L., Qohelet. L’uomo dal cuore libero, EDB, Bologna 1997, 99.
[48] Bonora A., Qohelet. La gioia e la fatica di vivere, Queriniana, Brescia 1987, 130.
[49] GIOVANNI PAOLO II , “L’umana ricchezza non salva”, Udienza generale 27 ottobre 2004, Oss. Romano, ed. settimanale, 10