Intervista a... LUIgina SBROGIò, 75 anni


I primi tempi 

  
Mio marito ed io frequentavamo da tanti anni la chiesa di S. Andrea e conoscevamo bene don Vincenzo. Perciò quando è sorta la nuova parrocchia ci è sembrato naturale che lui ne diventasse il parroco e non abbiamo vissuto un grande distacco: non ci sembrava neanche di cambiare comunità. E poi è stato anche un grande sollievo: per andare in chiesa non dovevamo più percorrere tutta via Altinia, lunga, dissestata, piena di buche.
   Mi ricordo che quando nel 1959 mia figlia Mara ha fatto la prima comunione, abbiamo dovuto portarla in braccio per tutta la strada, perché non si infangasse il vestito bianco!
   I primi tempi c’era un grande entusiasmo, si dovevano fare tante cose e tutti davano una mano. C’era come una atmosfera di famiglia. Ricordo un piccolo particolare: quando la mattina don Vincenzo finiva di celebrare la messa nell’appartamento di via Altinia, arrivava il signor Ottorino Sartori dal vicino Bar Centrale a portargli il caffè e la colazione.
   Il nostro parroco ogni tanto si mostrava preoccupato per i debiti. Quelli del Comitato lo sostenevano, in particolare il signor Domenico Zanchettin: “Non aver paura dei debiti! Vedrai che dopo li paghi, col tempo!”. Lui aveva una bottega di “casoin” ed era perciò abituato ad affrontare i preventivi e i bilanci di spesa.

La nevicata del ’63

   Ricorderò sempre la messa di mezzanotte del primo Natale. Si diceva messa nell’atrio dell’asilo e quando siamo entrati c’era solo qualche nuvoletta nel cielo. Ma quando siamo usciti, che spettacolo: era tutto bianco, coperto di neve! A me sembrava quasi un miracolo, un dono inaspettato: era il primo anno della parrocchia e il primo Natale! L’ho sentita come una specie di benedizione del Signore. 

Mio marito, Toni Trabucco 

   Mio marito era sempre in parrocchia e faceva di tutto, soprattutto da quando era andato in pensione e prima che si ammalasse. Sapeva svolgere mille lavoretti: chiamavano lui quando c’era da mettere a posto un rubinetto, aggiustare una presa, montare una impalcatura.
   All’inizio faceva parte del Comitato Parrocchiale. La prima domenica di ogni mese, insieme al signor Cavasin, andava a distribuire le buste delle offerte per la nuova Chiesa, in Via S.Donà. La gente dava quello che poteva, a volte anche solo cinque lire. Lui diceva: “Poveretti, fanno quello che possono! Anche loro si stanno costruendo la casa e hanno i loro debiti”.
   Ho delle foto che mi fanno commuovere ogni volta che le guardo: lo si vede in chiesa, con la tuta e la cazzuola in mano, vicino ai sacerdoti e al Patriarca, mentre aiuta nella cerimonia della posa della prima pietra e nell’inserimento della Pietra Sacra nell’altare.
   Durante i lavori per la costruzione della sala-chiesa, della canonica, della chiesa nuova faceva spesso i suoi “sopraluoghi” e dava i suoi consigli. Uno, che fu accettato anche dagli altri del Comitato, fu quello di affidare i lavori della sala-chiesa e della canonica ad una impresa di Favaro, quella del signor Romeo Cester. Quando glielo hanno proposto il signor Cester ha risposto: ”Però, non è che io abbia mai fatto tante chiese in vita mia!”. Ma poi ha accettato ed è diventato l’impresario di fiducia della parrocchia.
   E’ stato mio marito ad appendere al soffitto il grande crocefisso sopra l’altare. Ci fu una discussione su come fare, tra lui, il signor Celebrin, il dott. Bazzarin. Il mio nipotino Francesco, quando l’ha visto, mi ha detto: “Nonna, e se poi cade? Fa male a qualcuno!”. Mi è venuto da sorridere e gli ho risposto orgogliosa: “Non cade, no, l’ha messo su tuo nonno, sai! Possiamo proprio stare tranquilli!”.

Don Vincenzo 

   Don Vincenzo ha sempre avuto una grande passione per la montagna. Quando era a Mareson di Zoldo e la mia famiglia a Domegge, veniva a prenderci con la sua cinquecento e facevamo le gite insieme: alla Forcella Staulanza, al Passo Valles, alle Tre Cime di Lavaredo. Era orgoglioso della sua cinquecento: su per la strada delle Tre Cime, che è ripidissima, non si è mai fermato e così ha lasciato indietro tutte le altre macchine, che invece “fumavano”.
   E’ una persona paziente, lo si vede da tutto il suo modo di fare. E sa essere vicino agli ammalati: ricordo quando veniva a trovare mia suocera, di novant'anni. Aveva sempre una battuta pronta, un incoraggiamento da dare, ti tirava su di morale. 

I cappellani 

   Don Bruno Frison era un tipo giovanile, sempre in mezzo ai ragazzi e ai giovani. Ha fatto partire lui il Gruppo Scout. Quando doveva far incidere le targhette di cuoio con i nomi e i simboli delle squadriglie, non sapeva come fare. E’ venuto a casa mia e mio marito ha fatto il lavoro con un ferro incandescente. 
   Don Lucio Cilia era intelligente e disponibile. Aveva delle belle idee, ma era anche equilibrato. Diceva: “Adesso non è ancora il tempo giusto, ma vedrete, fra qualche anno si potrà fare anche questo e quest’altro”. Suo papà lavorava con mio marito all’Italsider. 
   Don Michele Somma era sempre socievole, alla mano. Faceva delle belle prediche, ma un po’ lunghette; e Toni gli faceva segno che era ora di concludere, mostrandogli l’orologio. Finita la messa poi ci scherzavano sopra insieme. 
   Don Cesare Zanusso era un tipo vivace, sempre in giro con i giovani della parrocchia. Si può fare un bel catechismo anche così, non solo in chiesa! 
   Don Roberto Mariuzzo aveva il complesso di non saper cantare. Ma una volta in gita a Caorle, vicino alla chiesetta sulla spiaggia, si è messo a cantare con i pescatori. Glielo ho fatto notare e lui si è messo a ridere: ”Mama mia, me gò panto!”. Il suo desiderio era di andare a fare il prete nei suoi paesi del litorale, invece poi l’hanno nominato parroco a Marano Veneziano!