Intervista a... ROMEO CESTER, 76 anni


Ho costruito la sala-chiesa e la canonica 

   Vengo dalla gavetta. Sono nato in una famiglia povera e numerosa, eravamo 11 fratelli. Ho sempre avuto buona volontà di lavorare: ho cominciato a 11 anni, ho fatto lo sterratore, il ferraiolo, il carpentiere. Ho lavorato alle dipendenze delle Ditte Fusaro, Mantelli e Lazzaro. Con quest’ultima ditta sono diventato capomastro. La mia squadra finiva sempre “i lavori di getto” per prima; facevo lavorare di buona lena i miei operai, ma io sgobbavo insieme a loro e tutti volevano stare col mio gruppo.
   A 26 anni mi sono messo in proprio, a fare l’impresario edile. A 36 anni, nel 1963, mi hanno affidato il lavoro di costruzione della sala-chiesa e della canonica di S. Pietro Apostolo di Favaro. E’ stato un onore, un orgoglio e un piacere.
   Già quando lavoravo sotto Lazzaro avevo conosciuto gli architetti Baessato e Franzoi. Avevamo avuto occasione di collaborare in vari progetti, anche delicati (come all’Hotel Vivit di Mestre ) e ci stimavamo a vicenda.
   Quando l’architetto, don Vincenzo e quelli del Comitato Parrocchiale mi hanno fatto la proposta sono rimasto un po’ sorpreso. Ho risposto: “ Non ho mai fatto chiese e canoniche in vita mia!”. Ma ho accettato subito volentieri: mi sono sentito onorato e orgoglioso di fare un’opera così importante. Avevo una squadra di 12 operai, mi sono fatto aiutare anche dalla Ditta Serafin Pietro e Vittorio.
   Abbiamo “pestato duro”, insomma abbiamo lavorato sodo: in tre-quattro mesi le costruzioni erano finite. Con l’architetto Baessato andavamo “d’amore e d’accordo”. Ogni tanto don Vincenzo e quelli del Comitato venivano a fare un sopraluogo. Don Vincenzo è sempre stato corretto e gentile. Qualcuno del Comitato faceva un po’ la parte dell’ “ingegnere contrario”, in particolare il signor Pietro Granzo, ed era abbastanza comprensibile in quanto anche lui era stato impresario edile. Ma io ero tranquillo e sicuro del fatto mio. Se avevano richieste o dubbi dicevo loro di parlare con l’architetto. Oppure che mi lasciassero prima completare quel particolare lavoro (ad esempio gli architravi o i solai ): “quando tolgo l’armatura, se il lavoro è sbagliato mi impegno a rifarlo!”. 
   Mi ricordo solo un piccolo errore di progetto: la pensilina sopra l’ingresso della canonica rischiava di bloccare un balcone, l’abbiamo parzialmente demolita e rifatta con misure diverse.
   All’inaugurazione ero felice e orgoglioso del mio lavoro. Ma sono rimasto in disparte: sono una persona schiva, non mi piace farmi vedere grande.
   Nel 1965 sono cominciati i lavori della nuova chiesa. Mi è dispiaciuto non essere io a costruirla, ma ho dovuto rinunciare: era un lavoro molto grosso, avevo le macchine occorrenti, ma i miei operai erano troppo pochi.
   Per mio orgoglio, ogni tanto venivo a dare un’occhiata ai lavori. Io non ho mai criticato l’utilizzo delle pietre comuni come pietre “faccia a vista”: erano tutte sane e perfette, acquistate dalla Ditta Casarin, e il lavoro è stato fatto a regola d’arte, con i mattoni perfettamente allineati e senza sporcarli di malta. A me la nuova chiesa è sembrata semplice, ma bella. 
   I nuovi lavori Nel 1983, a distanza di venti anni, si sono ricordati ancora di me per la ristrutturazione dei precedenti locali e la costruzione della nuova sala-teatro.    Sono bastate poche parole tra don Vincenzo e me, tra galantuomini: ”C’è un lavoro per te, facci un  preventivo.
   Abbiamo firmato il contratto dall’architetto Baessato; con me questa volta c’era mio figlio Paolo. La costruzione della sala-teatro è stato un lavoro delicato: ci volevano dei solai speciali (installati dalla Ditta Panto di Ponte di Piave), l’intonaco doveva possedere delle particolari qualità acustiche, era importante che le intercapedini della muratura risultassero ben isolanti. Impegnativi anche i lavori di rifinitura : le pietre “faccia a vista” come quelle della chiesa, i getti in cemento armato lavorati anche loro “faccia a vista”.
   Nel corso di tutti questi anni don Vincenzo per me è diventato una persona molto cara, una specie di papà. Quando doveva domandarmi dei consigli veniva a casa mia, parlavamo a lungo in soggiorno e qualche volta si fermava a mangiare un boccone insieme. Era un po’ preoccupato per gli aspetti finanziari: “Sai, non sto tanto bene di salute, se muoio prima lascio agli altri troppi debiti!”.

Impresario di fiducia 

   Alla fine sono diventato l’impresario di fiducia della parrocchia. Quando hanno installato il grande mosaico, ho preparato io l’impalcatura e l’intonaco: doveva risultare perfettamente a piombo, senza il minimo dislivello. 
   Quando la signora Tagliapietra ha eseguito i suoi graffiti, mi ha fatto allestire il fondo: ho dovuto stendere, sotto la sua direzione, tre strati di intonaco di tinte diverse (ad esempio, per il S. Antonio, bianco, marrone e celeste) e poi lei, incidendo più o meno profondamente, ha fatto emergere il profilo della figura con i vari colori. Era una signora allegra, simpatica, un po’ estrosa, come tutti i pittori!
   Ci ho tenuto in particolare a costruire il tabernacolo, a destra per chi guarda l’altare, per custodire le ostie consacrate: doveva essere perfetto nelle misure, tenendo conto che poi andava rivestito con i marmi.
   Sono andato in pensione nel 1992, a 65 anni, ma la tradizione di famiglia continua: mio figlio Paolo e mio nipote Mirko stanno completando i nuovi lavori di ristrutturazione in canonica.
   Quando don Vincenzo ci ha visto insieme ha detto: ”Mi sembrate come la Santissima Trinità : padre, figlio e… nipote!”.