Sono nato a Favaro, in una famiglia di
povere condizioni, il 19 aprile del 1921. Ero l’ultimo di otto fratelli.
Mio padre, rimasto prigioniero nella guerra del 1915-18, era tornato
ammalato e si è spento nel 1922. Nel 1928 sono mancate per malattia mia
madre e mia sorella di 9 anni. Abitavamo tutti in una cucina al piano
terra e una camera al piano di sopra.
Don Vincenzo racconta: la memoria è lucida e la voce sicura.
Un aperto sorriso sulla faccia, che cerca di controllare, ma nello stesso
tempo fa trasparire tante emozioni: nostalgia, forza, riconoscenza.
Sono nato nei locali sul retro dell’osteria all’inizio
di Via Indri, allora detta “Osteria da Fagiarina”, ora “Trattoria
alla Pesa”. Poi abbiamo cambiato altre tre case: la prima era in Via
Lazzaretto, poi in Via dell’Essiccatoio (allora chiamata Via Camara, dal
soprannome della famiglia Volpato che ci abitava), infine in Via Borgo
Alto. Ma era sempre la stessa baracca che veniva smontata e trasferita.
Ricordo che una volta, in Via dell’Essiccatoio, è venuta
giù una brentana che ha inondato tutto: un vicino aveva piantato delle
angurie che ora galleggiavano dappertutto; la mia casa sembrava l’arca
di Noè in mezzo alle acque! Nell’ultimo trasferimento ho passato
l’intero inverno a recuperare e “drissar ciodi”per aiutare a
rimontare la baracca.
L’infanzia e la prima giovinezza gli hanno fatto conoscere
presto la sofferenza e la malattia. “Nel 1928, a sette anni, ho avuto
seri problemi alle ossa.
Sono stato ricoverato per un anno all’Ospedale
al Mare al Lido, interrompendo la scuola. Era stata prevista
un’operazione alla spina dorsale, poi invece mi è stato messo un busto
di gesso e infine uno di celluloide, che ho portato per un lungo periodo.
La Prima Messa
La scuola è uno dei ricordi più vivi.
Ho frequentato la prima
elementare nell’edificio di Via Altinia, in cui poi è stato messo
l’ambulatorio del medico condotto, ed ora abita la signora Stella,
moglie del signor Ottavio Cecchetti. Dopo il periodo in Ospedale al Mare,
ho ripreso la scuola nell’anno del grande freddo(1929), nella nuova sede
nell’ala del municipio. Insegnava il maestro Giovanni Ugo, siciliano di
origine, severo, ma bravo.
Erano classi numerose. Gli alunni venivano da tutte le
frazioni vicine, alcuni anche da Ca’ Noghera ed Altino. Ci davano il
chinino per la prevenzione della malaria. Ricordo poi anche una maestra di
terza elementare, che una volta mi ha ripreso con una certa durezza:
”Ehi tu, in ultimo banco, fannullone, sei grande per niente, non
studi!”, e mi ha spostato in primo banco. Punto nell’orgoglio, dopo
quindici giorni ero diventato il più bravo della classe”. Attraverso il
ricordo di don Vincenzo prende forma un vivace ritratto di Favaro nel
periodo tra le due guerre. “Mio padre era contadino, bracciante. Dopo la
sua morte il capofamiglia era diventato mio fratello Luigi, detto Gigio.
Io aiutavo un po’ come potevo: da piccolo andavo a raccogliere le
fascine di legna secca per il fuoco, nelle siepi delle campagne. Da
grandicello lo aiutavo nel suo laboratorio di fabbro, a costruire le
“cucine economiche”: comperavamo le lamiere, facevamo le sagome, la
vaschetta laterale per l’acqua calda, le montavamo e le univamo con le
“brocche”, mettevamo le pietre refrattarie nel forno”.
“Dopo le elementari ho frequentato per un anno il
“Biennio di avviamento al lavoro”, a Mestre, in Corso del Popolo, dove
ora c’è il Liceo Franchetti. Era il 1934-35. A metà anno i voti non
erano brillanti, ma ho recuperato e sono stato promosso”per il buco
della serratura”.
Nel 1935 mio fratello maggiore è stato richiamato per la
guerra in Etiopia. Io ho dovuto abbandonare la scuola e tentare di andare
a lavorare. Ma non ho potuto avere il libretto di lavoro: per i miei
problemi di salute sono stato dichiarato “inabile!”.
Nel racconto dei momenti di difficoltà non appare mai
autocommiserazione, piuttosto un senso di forza e di serenità insieme. E
a poco a poco prende forma la storia della sua vocazione.
Quand’ero piccolo mi colpiva molto la figura del parroco
dell’epoca, don Giò Maria Favero. Dopo l’abbandono dell’Avviamento
al Lavoro è cominciata la mia “coltivazione spirituale” ad opera di
don Luigi De Felice, cappellano a Favaro dal 1935 fino al 1939. Si è
interessato a farmi frequentare le Scuole Commerciali in Via Aleardi, col
preside Francesco Possiedi.
Alla fine delle commerciali, a 18 anni, nel 1939, ho fatto
gli esercizi spirituali a Bassano del Grappa, dai Gesuiti. E’ stato un
momento decisivo. Ero un giovane piuttosto introverso, ritirato, non mi
piaceva molto il mondo. A poco a poco mi è venuta l’idea di andare in
convento, di farmi frate, non di quelli che dicono messa, ma un fratello
laico, di quelli dediti al lavoro e alla questua.
Don Vincenzo sorride, concludendo: ”Insomma, volevo fare il
“frate da atoe!”.
Don Luigi De Felice lo presenta a vari conventi.
Ma ci volevano le famose tre “S”: salute spirituale,
salute morale, salute fisica. Le prime due c’erano, ma la terza non mi
era riconosciuta.
La saggezza popolare dice che “quando Dio chiude una
porta, poi apre un portone”. E finalmente nell’autunno del 1939 arriva
l’ammissione, “in prova”, al Seminario di Venezia, per diventare
sacerdote. Prima però un ultimo intoppo. I dolori si riacutizzano e
occorre un altro ricovero per un anno all’Ospedale al Mare. Il giovane
Vincenzo ne approfitta per studiare un po’ di latino con un professore
toscano anche lui ricoverato, e si prepara così all’esame di
ammissione.
Esce dall’ospedale il 10 giugno del 1940: mentre è seduto
sul letto, con la valigia pronta, sente alla radio la dichiarazione di
guerra di Mussolini.
Ma per il nuovo seminarista cominciano invece anni più
tranquilli. Supera gli esami di ammissione e viene iscritto in quarta
ginnasio. Per due anni è “semiconvittore” (di giorno in seminario, la
sera a casa). Si alza presto il mattino, va a Mestre con la bicicletta che
lascia poi allo “stazio” della “socoera” (soprannominata così
perché sapeva fare gli zoccoli). Con la “filovia” arriva in Piazzale
Roma e in altri venti minuti, “pedibus calcantibus” (a piedi),
raggiunge il Seminario per la messa delle sette. Si porta dietro nella
borsa “ea pignatea” col cibo, che a volte si rovescia sui ponti di
Venezia e gli sporca i libri.
In prima liceo passa interno a tutti gli effetti. Si fa
benvolere dai suoi superiori: Mons. De Perini e Mons. Bressan. Diventa
prefetto dei chierici e “infermiere” volontario per curare i piccoli
malanni degli studenti.
Gli echi della guerra arrivano piuttosto attutiti in
Seminario. Nel 1940 assiste al bombardamento degli aerei francesi alla
Liquigas di Porto Marghera.
Durante le vacanze estive di ogni anno ritorna a
Favaro.
Aiutavo nei suoi lavori mio fratello Gigio. E insegnavo
catechismo ai ragazzi: con la bicicletta prima mi recavo a Tessera, presso
la torre antica; poi a Ca’ Noghera, Cappellano a San Donato di Murano
nella casa della famiglia Milani o Artuso, seduti per terra nel
“barco” (fienile).
C’era poi la questione della retta per il Seminario: un
po’ mi aiutava mio fratello, un po’ il parroco; ma contribuivo
anch’io andando a fare la questua presso le famiglie dei contadini: i
Manente, i Basso, i Volpato….
Il 26 giugno 1949 don Vincenzo è ordinato sacerdote. Celebra
la sua prima messa a Favaro il 29 giugno 1949, giorno di S. Pietro
Apostolo. Anche questo può essere un presagio!
Dal 1949 al 1953 è cappellano nella Parrocchia di S. Maria e
Donato di Murano, per la sua prima esperienza pastorale. Scorrono anni
attivi e sereni.
Comunque, siccome ero considerato sempre un po’
“inabile”, fui nominato non assistente, ma vice-assistente degli
Scout. E da “inabile” ho fatto un sacco di camminate in montagna,
percorsi in roccia, scarpinate sulla neve. Sono salito in cima al Piz Boè,
3152 metri, mentre nevicava!.
Don Vincenzo se la ride divertito, sfogliando l’album
fotografico. Si capisce che la vive un po’ come la sua rivincita: essere
riuscito a smentire nei fatti, con l’umiltà e la forza del carattere,
qualche fragilità del fisico, ma anche i dubbi dei medici ed educatori.
Nel 1953 la svolta. Lo chiama il Vicario Generale mons.
Macacek, gli accenna a qualche problema e incomprensione che si sono
verificati nella Parrocchia di Favaro e conclude: “Fammi un piacere, tu
conosci bene don Romano, va a fare il cappellano a Favaro!”.
Don Vincenzo ha qualche esitazione: Nessuno è profeta in
patria, tornare nel suo paese nella nuova veste di Pastore, là dove
vivono i suoi parenti e tutti lo conoscono fin da bambino… Ma si affida
alla Provvidenza, scrive una bella lettera a don Romano e comincia il suo
nuovo incarico.
Qui i ricordi di don Vincenzo si intrecciano con quelli di
chi lo intervista e diventa un racconto a più voci. Il gruppo dei
chierichetti, con i turni della Messa Prima alle 6 del mattino, estate e
inverno: ci si alzava alle cinque e trenta, col buio, si andava a tirare i
sassi sul balcone della perpetua, la Maria, che come d’accordo ci tirava
giù le chiavi per aprire le porte della chiesa insieme con la Rina, una
devota che si prestava con noi a questa incombenza. A Pasqua si andava
“a vovi” presso le famiglie dei contadini, e col ricavato della
vendita don Vincenzo ci faceva un regalino e organizzava la nostra gita
annuale. “L’adunanza” nella bella stagione si teneva all’aperto,
seduti sul muretto a lato della chiesa.
Ci viene in mente il mitico primo televisore nell’oratorio
della canonica: non c’era un vero e proprio biglietto, ma si dovevano
comunque mettere cinque lire in una apposita cassetta di legno.
Don Vincenzo non dimenticava i suoi trascorsi montanari, come
assistente degli scout nei loro campeggi, o come cappellano estivo nella
Colonia di Mareson di Zoldo. Perciò ogni tanto partiva un bel pullmann
carico di ragazzi per la gita in montagna: pranzo al sacco, abbigliamento
piuttosto approssimativo, ma tanta allegria e canzoni a non finire, con il
cappellano insospettato capocoro, convinto e trascinatore. “Con don
Romano provavo rispetto e un po’ di soggezione. Ma nei momenti
importanti mi sapevo anche far ascoltare. Abbiamo collaborato bene insieme
Sul retro di una foto dell’ingresso di don Vincenzo come primo parroco
di S. Pietro Apostolo di Favaro, il 12 aprile 1964, don Romano scriverà
di suo pugno: ”Accompagno il mio discepolo, don Vincenzo Agnoletto,
nell’ingresso a parroco della nuova parrocchia di S. Pietro Apostolo di
Favaro Veneto”.
Una specie di passaggio delle consegne tra due uomini di Dio,
che condividono una uguale missione, ma anche l’attaccamento ad una
stessa gente e ad una stessa terra.
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