Favignana, per me fanciullo, era l'ultimo paradiso: era mia nonna, donna di stampo piemontese; era mia zia, di puro stampo favignanese. La prima, imprenditrice; la seconda condizionata dai giudizi dei compaesani, sempre all'insegna dello "sparagno" (risparmio). Per tutta la vita dormì su materassi imbottiti di "ciasche" (foglie di mais) per non farsi dire "sparduna" (prodiga).
Raggiungere l'isola era un'avventura e già al mattino bisognava mettersi in lista in Capitaneria.
Alle 14 la partenza su pescherecci adibiti anche al trasporto passeggeri (da venti a sessanta), secondo la loro grandezza.
Favignana era anche udire il rituale grido rassicurante del marinaio quando traguardava il cimitero dell'isola: "Semu 'ntesta o Signuri".
Era lo sventolio dei fazzoletti fra mio padre da bordo e sua sorella dalla terrazza, che subito si ritraeva per preparare il surrogato d'orzo. Il caffè era tutt'altra cosa.
Favignana era, all'arrivo, il ritrovare fra tanti un ometto che si esprimeva a gesti: "il muto". Spingendo un carrettino si incaricava di recapitare puntualmente i bagagli casa per casa, previa dogana.
Passavamo da piazza Municipio per sorbire un autentico caffè da "Peppino u cafitteri" per poi poter rifiutare il surrogato d'orzo di mia zia. Venivamo studiati, apparentemente, con sguardi indifferenti e assenti da uomini seduti davanti ai circoli e dalle donne che lungo la strada sedevano davanti all'uscio di casa con le spalle rivolte all'esterno.
Pochi saluti, tanta indifferenza, non uno che si avvicinasse per un benvenuto. In campagna ritrovavo quel microcosmo che era la "senia", pochi ettari di terra che davano da vivere stentatamente a gabelloti e mezzadri. Fra tanti una famiglia composta dai genitori e sette figli che vivevano in due piccole stanze servite da illuminazione a petrolio e servizi igienici all'esterno.
L'energia elettrica era appannaggio patronale. La sera era consuetudine che mia zia andasse da loro a leggere romanzi storici come i Beati Paoli o i Tre moschettieri. Era un modo per fare cultura.
Il più delle volte era attratto da racconti su fattucchiere, mammalumere e apparizioni di belle signore (che in seguito si scoprì essere una donna che concedeva le sue grazie nelle mangiatoie delle stalle).
Si aspettava con ansia la fine di un temporale notturno per andare alla ricerca del "turco" che custodiva un tesoro per impadronirsi del quale bisognava mostrarsi con un fazzoletto bianco, "u spignu". Per chi lavorava, ben poche erano le festività perché racimolare il pasto era più importante che riposarsi.
Favignana era per me lo "zu Nillo", un ometto grassottello e glabro, Petronilla alla nascita, finché non si scoprì il suo vero sesso, e che scelse di vivere in una specie di eremo a Calarossa. Ogni mattina veniva per le disposizioni che gli impartiva la nonna e, a dorso d'asina, mi portava a controllare l'opera dei cavapietre.
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Essendo l'unico nipote, mia nonna volle che mi insegnassero tutto sull'estrazione del tufo e sul suo uso; volle mi si mostrassero camminamenti e grotte scavate dove gli uomini lavoravano a "pilere", a lume di petrolio.
Nillo mi insegnò a scendere nelle cave servendoci di tacche dette "scanneddi". Mi affascinavano le iscrizioni, i disegni nelle grotte e le ingenue rappresentazioni.
Di questa cultura non resta più niente: l'ultimo "pirriaturi" che io ho conosciuto, Rosario Santamaria (zu Sarinu), è morto.
Quant'era affascinante questo mondo sotterraneo, popolato da uomini dai soprannomi più disparati: Francesco "u presidente", Antonio "fanali" e Turriciano, dal nome di un brigante, di cui andava più fiero del suo stesso cognome.
Questa era l'economia agricolo-pastorale invocata oggi, talvolta a sproposito, da pseudo-ambientalisti nostalgici che non tengono conto, nei loro piani, del mutarsi delle condizioni socio-ambientali e dell'arrivo del turismo.
Con il termine "turista" gli isolani hanno sempre identificato colui che affronta il rischio di venire a Favignana.
Poco importa quanta soggiorna; anche se dovesse fermarsi a lungo non farà mai parte del loro tessuto sociale.
I turisti vengono differenziati dagli isolani. Per loro non sconti, non vendite promozionali, pagano il servizio al tavolo nei bar e non manca chi cerca di vender loro i prodotti a più caro prezzo che agli altri.
Per anni fece bella mostra di sé una scritta sulle pareti di un tugurio sul lungomare: "Affittasi a turisti".
Anche i Florio furono "turisti": portarono l'industria ittica usando metodi modernissimi per l'epoca e il popolino chiamò la stabilimento "Turinu" in analogia alla Fiat.
In quest'isola ricevettero come ospiti, a bordo del loro panfilo che poi fu ribattezzato "Gerda Rita", teste coronate come re Giorgio V d'Inghilterra e il kaiser di Germania.
In una foto d'epoca è ripreso il momento del loro arrivo con un isolano che da lontano guarda di sottecchi.
Non una fotografia con il popolo festante con bandierine, nessuna firma sul registro municipale. Anche donna Franca Florio fu trattata come "turista" allorché pensò di farsi costruire una peschiera e, quando decise di mangiare aragoste che erano state messe a dimora... purtroppo (intercalare che gli isolani usano spesso) ve ne era rimasta una sola e con l'antenna rotta.
Ma che cosa si è fatto per i turisti che in quest'isola hanno portato ricchezza? Poco. Infatti dalle Amministrazioni che si sono succedute non sono arrivati validi interventi né segnali di attenzione al turismo.
Si assiste, impotenti, allo sbarco di orde barbariche, nei giorni festivi, di "turisti" stracolmi di provviste con l'immancabile pasta al forno. Che cosa lasciano?
Tanti rifiuti. Che cosa rimarrà, se non si agisce al più presto e con competenza? Forse solo il "mito" all'imbarcadero.
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