I flash della memoria:
"Dumani
è duminica, ci tagghiamu a testa a Minica, Minica nun c'è, ci tagghiamu a testa o rre, u rre è
malatu...". Mi ritrovo spesso a recitare le filastrocche della mia infanzia, quando con i ragazzi
"du chianu di S. Giuseppi" (Piazza San Giuseppe) davo un senso pieno alla vita di ogni giorno assaporando, senza sapere che stavano lentamente dissolvendosi nel tempo, le ultime tradizionali consuetudini di aggregazione infantile.
Il fulcro intorno al quale scorrevano i giorni e le attività di quell'epoca e di quel quartiere, era la bottega di generi alimentari di mia nonna, che si apriva proprio sulla piazzetta di S. Giuseppe.
In quella fucina popolare io imparavo, per averne ora memoria, la vita semplice e sana, il gusto dello stare insieme e del condividere gioie, dolori, tradizioni religiose e popolane. Le festività religiose, in quel tempo fantastico, erano attese e organizzate nel quartiere con grande partecipazione di tutte le donne e dei bambini, che erano l'anima vera di quel mondo non ancora contaminato dal consumismo.
Di San Giuseppe si cominciava a parlare subito dopo Carnevale, quando iniziava il
via-vai delle ragazzette che, dalla bottega di mia nonna, facevano rapidamente sparire, comprandoli, tutti quei piccoli ornamenti (fiorellini, stelle, ghirigori dorati) che servivano per addobbare le stole degli altari a San Giuseppe.
Nelle case le mamme, le nonne e le zie, insieme ad un numero imprecisato di cugine, si dividevano, pacificamente o con qualche piccola ripicca personale, i compiti per la preparazione degli altari, fino a quando l'odore
del "barcu" (violaciocche selvatiche che abbondano nell'isola) non si diffondeva nell'aria e annunciava che gli altari erano completati.
Pasqua era annunciata dal rumore delle "ciaccule" (battagli di legno) che, con il loro suono monocorde, rappresentavano per la semplice gente dell'isola un monito deciso a rispettare le leggi della settimana di Pasqua:
«tan-tan... non si balla... tan-tan... non si suona... tan-tan... non si mangia carne... tan-tan... arriva il prete col codazzo di bambini a benedire le case...
tan-tan...».
Si aspettava con grande ansia il giorno di Pasqua per ricevere e gustare il tipico dolce locale: il
"campanaru" con l'uovo bollito e vivacemente colorato che vi troneggiava sopra.
La giornata dei morti si annunciava una quindicina di giorni prima del due novembre. Nella bottega di mia nonna arrivavano
"i pupi ri zuccaru e a frutta marturana" che venivano sistemati in bella vista sugli scaffali, a riempire di gioia gli occhi e di aromi deliziosi e particolarissimi l'aria intorno.
La sera c'era il sorteggio. Le donne venivano nella bottega, dopo aver messo a letto uomini e figli piccoli, per partecipare al sorteggio dei
"pupi" e della frutta di pasta di mandorle.
Con poche lire, se si aveva fortuna, si portava a casa un cavaliere di zucchero per il figlio maschio o una
"pupa" per la bambina. Ciò che mi entusiasmava di più era la possibilità di stare, durante quelle sere, in mezzo a tutte quelle donne, matriarcali e rassicuranti, odoranti di cucina e bonarie, capaci, se appena dicevi di sentire freddo, di metterti sotto il loro
"fazzittuni", l'enorme scialle quadrato con le frange, nero o marrone, ripiegato a triangolo, che sostituiva il cappotto, troppo caro per i magri bilanci familiari di quell'epoca. Per le strade, la sera di "tutti i Santi", passavano i "fantasmi", uomini avvolti da enormi lenzuola bianche che si allungavano in alto con il sostegno di bastoni: all'interno dell'involucro candido di quel fantomatico "morto" una candela accesa accresceva il senso dell'aldilà e del mistero.
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Se non dormi passano i morti e ti chiudono gli occhi con la farina impastata".
E questo, qualche mamma più zelante, lo faceva davvero, per calmare il bambino più velleitario.
Era una sera magica, popolata di streghe e di fantasmi girovaghi, di misteri e di buchi delle serrature tappati con calce, una sorta di Allowin nostrano, che preparava la gioia della mattina dopo, allorché si trovava il piatto, pieno di ogni ben di Dio, portato dai "morti".
Emozioni, sentimenti, gioie semplici e sane che l'era della Tv ha spazzato via inesorabilmente.
Usanze, memorie, consuetudini familiari, che cadranno definitivamente nell'oblio se non diamo voce a quei pochi che ancora sanno e vogliono narrarle.
Nella scuola elementare di Favignana, già da qualche anno, si sta tentando il ricupero di alcune tradizioni locali, rifacendosi al vissuto familiare di ogni bambino, cogliendone aspetti significativi, abitudini, stili quotidiani di vita, che richiamano le tradizioni locali e che ogni nucleo familiare, in qualche modo, tramanda.
Operando nella scuola, con l'occhio rivolto alle tradizioni, si possono guidare le nuove generazioni a ripercorrere il percorso culturale dei padri per conservare la propria identità etnica. Inoltre, ciò può servire sicuramente a rendere più agevole e motivato l'apprendimento e a coinvolgere proficuamente anche le famiglie degli alunni, realizzando quella collaborazione tra scuola e famiglia che spesso si rivela difficilmente raggiungibile per l'estraneità delle proposte, rispetto al vissuto individuale.
Si recupererebbero così usanze quasi dimenticate che hanno scandito il tempo delle precedenti generazioni, restituendo loro dignità e valore e, soprattutto, senso di appartenenza alla vita isolana.
Una scuola che sia veramente centro propulsore di cultura e non può prescindere dall'essere anche presidio di antiche tradizioni. Qualche anno fa il collegio dei docenti della scuola elementare di Favignana preparò un progetto in tal senso che ebbe il necessario finanziamento comunale. Fu realizzata nell'atrio della scuola una bella mostra sull'antica civiltà dell'abitare che riscosse grande successo. Fu ricostruita, con il contributo entusiastico di molte famiglie di alunni, una camera da letto di fine Ottocento con mobili, suppellettili e capi di corredo che raccontavano storie familiari e ambientali di grande fascino.
Nel corso degli anni, altre iniziative sono state portate felicemente avanti. Tra queste è ormai consueta ogni anno la preparazione di vari altari a San Giuseppe, alcuni tradizionali, altri innovativi, il cui allestimento coinvolge gioiosamente famiglie, alunni e docenti.
L'aver ripreso, per prima, la tradizione dell'altare votivo a San Giuseppe, ha rappresentato da parte della scuola un messaggio che è stato recepito all'esterno, per cui si è verificata, in questi ultimi tempi, una sensibile rinascita d'interesse intorno a tale tradizione.
Ora, nella bella cornice di Palazzo Florio, vengono allestiti da volenterosi cultori delle tradizioni locali pregevoli altari a San Giuseppe utilizzando, per la più, arredi appartenenti a famiglie che prima li preparavano nelle proprie case, ma anche avvalendosi di manufatti di promettenti artisti locali.
Quest'anno la scuola ha voluto dare un segnale di ampliamento dei propri orizzonti allestendo una mostra di statuette sacre particolarmente care alla devozione popolare delle Egadi. Le famiglie si sono mobilitate per fornire alla scuola statuette di San Giuseppe, San Francesco, Sant'Antonio, Sant'Anna, alcune molto antiche e pregevoli che, esposte nell'atrio della scuola, hanno ridato vita, per la gioia dei visitatori, a piccole storie familiari, a dolori e speranze, ma soprattutto alla fede istintiva e incrollabile delle semplici popolazioni isolane.
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