Capitolo 1: il senso religioso
‘Partire da se stessi’: è questo
l’imperativo con cui si inizia il cammino di scoperta
del reale. Evitare dunque di ragionare su concetti astratti (opinioni,
disquisizioni, etc): al centro deve essere l’io,
colto nel momento in cui incontra la realtà e si paragona con essa seriamente (io-in-azione).
In questo impegno con la vita si
incontra da una parte la ‘tradizione’ (ciò che si
riceve dal passato) e dall’altra il ‘presente’ (la
realtà attuale di sé). La tradizione è il patrimonio in cui ci viene trasmessa l’esperienza degli altri; il presente è il
luogo in cui l’io prende coscienza di ciò che lo costituisce. In questo modo
emerge nel presente la straordinaria evidenza di un duplice fattore operante in
noi: quello ‘materiale’ e quello ‘non-materiale’.
Il senso religioso è il fenomeno in cui si esprime nel modo
più chiaro il fattore ‘non-materiale’ che ci
costituisce.
La natura di questo senso religioso è quella di essere una grande domanda in cui ad esprimersi è il nostro stesso io.
Domanda inevitabile, strutturale, insopprimibile. Domanda che esige
una risposta esauriente, non parziale o superficiale.
Di fronte a questa grande
domanda sperimentiamo la sproporzione del nostro io in merito alla
possibilità di trovarne la risposta. Questa sproporzione appare paradossalmente
sempre più grande quanto più progredisce la nostra conoscenza del reale. La
conseguenza di questo fatto è quella profonda tristezza-nostalgia che
caratterizza ogni uomo che sia serio di fronte alla vita. L’io in effetti appare come una ‘promessa’:
da qui la sua permanente ‘attesa’. Essa diventa dimensione
di ogni gesto che l’uomo compie.
La conclusione è che se non si ammette l’esistenza di
una risposta –benchè insondabile- si sopprime la
domanda stessa che è l’uomo e la sua ragione.
Capitolo 2: atteggiamenti irragionevoli di fronte
all’interrogativo ultimo
Giussani indica sei atteggiamenti irragionevoli in cui
comunemente l’uomo cade di fronte alla grande domanda
che emerge dalla sua ragione e dal suo cuore.
Nelle prime tre (negazione teoretica del senso stesso della
domanda; sostituzione di essa con un irrazionale
volontarismo; negazione pratica o atarassia) si tenta una negazione radicale
(svuotamento) della domanda stessa, come se fosse priva di significato o di
peso esistenziale.
Nelle seconde tre (riduzione a sentimento; negazione
disperata della risposta; proiezione alienante della risposta nel futuro) si
tenta di ridurre la domanda negando che abbia possibilità di risposta, pur
considerandone il grande peso esistenziale.
Le conseguenze di questi atteggiamenti irragionevoli sono
pesanti: la rottura con il passato (non c’è più legame tra l’esperienza
degli uomini, privata di ogni significato), l’incomunicabilità
e la solitudine (non ci si mette insieme per una più attenta sequela del
Mistero Ultimo, ma solo per istintività, sentimentalità passeggera o
sfruttamento reciproco), la perdita della libertà (l’uomo viene ridotto
a prodotto dei suoi antecedenti biologici).
La conclusione è che la vera libertà consiste nella piena
realizzazione di sé, cioè nella scoperta-incontro con
l’Infinito, negando il quale si nega l’uomo stesso.
Capitolo 3: itinerario del senso religioso
Ma come sorge la grande domanda in
noi? C’è un itinerario che il nostro io compie quasi come una progressione.
Tutto comincia dall’incontro-impatto con la realtà: sorge lo
stupore per la presenza delle cose, perché non le abbiamo fatte noi, ci sono date, sono ‘altro’ da noi e
suscitano in noi un’attrattiva. Questa realtà si dimostra subito dopo come un ‘cosmo’, una realtà ordinata,
strutturata secondo un disegno stupefacente. E,
procedendo in questo sguardo al reale, esso ci appare come ‘provvidenziale’ all’io.
Il momento decisivo è quando l’io riguardo a sé prende coscienza di essere lui stesso dato a sé: io non mi
do l’essere, dipendo da ‘altro’. Ecco allora cos’è l’io:
tu-che-mi-fai, essendo questo ‘tu’
la realtà misteriosa che mi genera e che mi genera come un ‘io’. Sorge qui un dialogo che si chiama preghiera: scoprire
al fondo di sé un altro.
Infine l’io si accorge di avere dentro di sé una legge non scritta che fa dire ‘questo è bene, questo è male’: non ce la diamo noi, è data, quasi
imposta da altro.
Così la strada per arrivare al riconoscimento del Mistero
Ultimo –cioè la strada della religiosità- è l’impegno
con la realtà, considerata in tutta la sua ampiezza. La realtà è infatti ana-logia: parola che rimanda più in su.
A questo punto si è scoperto il concetto di segno: una realtà che rimanda ad un’altra
realtà, una realtà il cui significato è un’altra realtà. E’ come una
provocazione. Negare questa altra realtà sarebbe
irrazionale.
Il rimando a questa altra realtà è esigito soprattutto dal segno potente che è il nostro io
quando è considerata nel suo carattere esigenziale: la
vita dell’io è esigenza di verità, felicità, giustizia, amore. Rimanda
energicamente ad ‘altro’.
Questo altro è senza volto, ma per indicarlo il termine più
adeguato è il ‘Tu’. Infatti il
nostro io è ultimamente esigenza di un ‘tu’, come
dimostra l’esperienza quotidiana (nulla ci appaga come il ‘tu’).
Questo ‘Tu’ rimane
comunque ignoto; sorge l’idea di Mistero:
è la percezione di un esistente ignoto, irraggiungibile, cui tutto il movimento
dell’uomo è destinato, perché anche ne dipende.
Anche i termini che usiamo per
indicarlo (in-finito, in-effabile, im-menso…) sono solo ‘negazioni’
per avvicinarsi ad un concetto inesprimibile: sono aperture al Mistero.
La ragione è costretta ad ammettere l’esistenza di questo ‘incomprensibile’. Ma la libertà dell’uomo può rifiutare questo
riconoscimento.
La libertà è necessaria perché l’uomo possa essere se
stesso, raggiungere liberamente il suo destino, riconoscerlo liberamente. Essa
pone di fronte ad una opzione
decisiva: o vado di fronte alla realtà spalancato e desideroso di
conoscerla, oppure ci vado chiuso in una mia misura. E’ una
opzione quotidiana.
Questa libertà si gioca nell’interpretazione
di quel grande ‘segno’ che è tutta la realtà,
il mondo.
Il problema fondamentale è dunque l’educazione della libertà come responsabilità, cioè
come capacità di rispondere alla grande chiamata della realtà. Richiede un
atteggiamento insieme di domanda e di positività
(cioè ammettere la possibilità della risposta).
L’uomo si incontra qui con
l’esperienza del rischio. Esso non è la
mancanza di ragioni, ma una debolezza quasi psicologica e strutturale a
seguire l’indicazione della ragione. Questa debolezza viene
superata solo attraverso il fenomeno della comunità.
Capitolo 4: ragione e rivelazione
L’energia della ragione tende a entrare nell’Ignoto: tende a conoscere ciò che ha
intuito come l’inarrivabile, il Mistero. Scoprire il Mistero, entrare in esso, è il motivo della ragione, la sua forza motrice. E’ il
rapporto con quell’al-di-là che rende possibile anche
l’avventura dell’al-di-qua.
L’Ulisse dantesco è il
simbolo di tutto ciò. Dominatore del mare nostrum, sente l’esigenza di andare
oltre le colonne d’Ercole, al di là delle quali la
saggezza comune poneva solo vuoto e pazzia. La mentalità positivista cerca di
scoraggiare questo ardimento dando per sicuro solo ciò
che si misura all’interno dei confini stabiliti. Ma
oltre le colonne d’Ercole sta l’oceano del significato: è nel loro
superamento che uno comincia sentirsi uomo.
Nella Bibbia troviamo una pagina ancora più grande: la lotta di Giacobbe con Dio. Il patriarca
rimane segnato da questa lotta, che mostra tutta la statura dell’uomo; una
lotta senza vedere il volto dell’altro.
Ma rimanere sospeso alla volontà di questo
ignoto ‘signore’, che giunge a me attraverso
le circostanze, è una posizione vertiginosa
per la ragione.
Un eccessivo attaccamento a sé (‘amor proprio’)
spinge la ragione a dire: “ecco, ho capito, il Mistero
è questo”. E così l’uomo esalta il proprio punto di vista: un particolare viene pompato a definire la totalità. Il senso religioso viene corrotto, costretto a identificare il suo oggetto con
qualcosa che l’uomo sceglie, con qualcosa di ‘comprensibile’ a sé.
Il problema è cosa sia la ragione: o l’ambito del reale o un
varco sul reale, un varco sull’essere nel quale non si è mai finito di entrare.
Pretendere invece di essere la misura di tutto significa pretendere di essere Dio.
Il particolare con cui la ragione identifica la spiegazione di tutto la Bibbia lo chiama idolo:
qualcosa che sembra Dio e non lo è. Ne segue una corruzione
dell’umano descritta da San Paolo (Romani
1,22-31). Nella misura in cui gli idoli sono esaltati l’umano viene meno. Per
la Bibbia l’origine della violenza come sistema di
rapporti, cioè la guerra, è l’idolo.
Come idolo l’uomo sceglie qualcosa che ‘capisce’
lui. La razza, il partito, il capo, in nome del quale tutto è lecito.
Ma l’idolo non fa mai unità e
totalità senza dimenticare o rinnegare qualcosa.
Esistenzialmente l’uomo è spinto ad interpretare male il
segno che è la realtà, cioè prematuramente,
impazientemente. L’intuizione del rapporto col Mistero si corrompe in
presunzione.
Per questo San Tommaso d’Aquino
dice che è necessaria per gli uomini una “divina
rivelazione”. E prima di lui Platone invocava “l’aiuto
della rivelata parola di un dio”. All’estremo della coscienza appassionata e
sofferta dell’esistenza si sprigiona questo grido dell’umanità più vera, come una implorazione, una mendicanza.
E’ l’ipotesi della rivelazione.
Già il mondo è in se stesso, in quanto
segno, una rivelazione del Mistero. Ma in senso proprio “rivelazione” non è il
termine di una interpretazione che l’uomo fa sulla
realtà: si tratta di un possibile fatto reale, un eventuale avvenimento
storico. Un fatto che l’uomo può riconoscere o non riconoscere.
Un fatto per cui Dio entra nella storia dell’uomo come
un fattore interno alla storia, come una presenza dentro la storia, che parla
come parla un amico: “il punto d’intersezione del senza tempo col tempo” (Eliot).
Una simile ipotesi prima di tutto è possibile.
Negare la possibilità di questa ipotesi è l’ultima
estrema forma di idolatria, l’estremo tentativo che la ragione compie per
imporre a Dio una propria immagine di Lui. “A Dio nulla è impossibile”
(Luca 1).
In secondo luogo questa ipotesi è estremamente conveniente. Perché si incontra
con il desiderio più autentico dell’uomo. Horkheimer:
“Senza la rivelazione di un dio l’uomo non riesce più a raccapezzarsi su se
stesso”.
In terzo luogo ci sono due condizioni che questa ipotesi
deve rispettare:
-
deve essere una parola comprensibile
all’uomo
-
il risultato della rivelazione deve essere l’approfondimento
del Mistero come mistero, non deve
essere una riduzione del mistero. Sapere che Dio è padre, come ha rivelato
Cristo, è illuminante, ma nello stesso tempo rimane il mistero, rimane più
profondo: Dio è padre, ma è padre come nessun altro è padre. Il termine
rivelato porta il mistero più dentro di te.
L’impossibilità di una rivelazione è il dogma fondamentale
del pensiero illuministico, il tabù predicato da tutta la filosofia liberale e
dai suoi eredi materialisti. Ma l’ipotesi della
rivelazione non può essere distrutta da alcun preconcetto. Occorre che
nell’uomo rimanga quell’apertura originale del cuore verso questo fatto
possibile.