Cristianesimo:
La vittoria dell'intelligenza sul mondo delle religioni
di J. Ratzinger
|
|
Al termine
del secondo millennio, il cristianesimo si trova, proprio nel luogo della sua
originaria diffusione, in Europa, in una crisi profonda, basata sulla crisi
della sua pretesa alla verità. Questa crisi ha una doppia dimensione:
innanzitutto ci si domanda con sempre maggiore insistenza se è giusto, in
fondo, applicare la nozione di verità alla religione; in altri termini se è
dato all'uomo conoscere la verità propriamente detta su Dio e le cose divine.
L'uomo contemporaneo si ritrova molto meglio nella parabola buddista
dell'elefante e dei ciechi: una volta, un re dell'India del Nord riunì in un
posto tutti gli abitanti ciechi della città. Poi davanti agli astanti fece
passare un elefante. Lasciò che gli uni toccassero la testa, e disse: «Un
elefante è così». Altri poterono toccare l'orecchio o la zanna, la proboscide,
il dorso, la zampa, il didietro, i peli della coda. Dopo di che il re chiese a
ciascuno: «Com'è un elefante?». E, secondo la parte che avevano toccato,
rispondevano: «È come un cesto intrecciato...», «è come un vaso...», «è come
l'asta di un aratro...», «è come un magazzino...», «è come un pilastro...», «è
come un mortaio...», «è come una scopa...». Allora - continua la parabola - si
misero a discutere, urlando: «L'elefante è così», «no, è così», si scagliarono
gli uni sugli altri e si presero a pugni, con gran divertimento del re. La
disputa tra religioni sembra agli uomini di oggi come questa disputa tra ciechi
nati. Perché di fronte al mistero di Dio siamo nati ciechi, sembra. Per il
pensiero contemporaneo il cristianesimo non si trova assolutamente in una
situazione più favorevole rispetto alle altre, anzi: con la sua pretesa alla
verità, sembra essere particolarmente cieco di fronte al limite di ogni nostra
conoscenza del divino, caratterizzato da un fanatismo particolarmente
insensato, che incorreggibilmente scambia per il tutto la porzione toccata
nella sua propria esperienza.<O:P</O:P
Questo scetticismo generalizzato nei confronti della
pretesa alla verità in materia religiosa è ulteriormente sorretto dalle
questioni che la scienza moderna ha sollevato riguardo alle origini e ai
contenuti del cristianesimo. La teoria evoluzionistica sembra aver superato la
dottrina della creazione, le conoscenze che concernono l'origine dell'uomo
sembrano aver superato la dottrina del peccato originale; la critica esegetica
relativizza la figura di Gesù e mette punti interrogativi sulla sua coscienza
filiale; l'origine della Chiesa in Gesù appare dubbia, e così via. La
"fine della metafisica" ha reso problematico il fondamenÈo filosofico
del cristianesimo, i metodi storici moderni hanno posto le sue basi storiche in
una luce ambigua. Così è facile ridurre i contenuti cristiani a simboli, non
attribuire loro nessuna verità maggiore di quella dei miti della storia delle
religioni, considerarli come una modalità di esperienza religiosa che dovrebbe
collocarsi umilmente a fianco di altre. In questo senso si può ancora - a
quanto pare - continuare a rimanere cristiani; ci si serve sempre delle forme
espressive del cristianesimo, la cui pretesa però è radicalmente trasformata:
quella verità che era stata per l'uomo una forza obbligante e una promessa
affidabile diventa ormai un'espressione culturale della sensibilità religiosa
generale, espressione che sarebbe ovvia per noi a causa della nostra origine
europea .
Ernst Troeltsch, all'inizio di questo secolo, ha formulato
filosoficamente e teologicamente questo ritirarsi del cristianesimo dalla sua
pretesa originariamente universale, che poteva fondarsi solo sulla pretesa alla
verità. Egli era arrivato alla convinzione che le culture sono insuperabili e
che la religione è legata alle culture. Il cristianesimo è quindi solo il lato
del volto di Dio rivolto verso l'Europa. Le «particolari caratteristiche legate
alla cultura e alle razze» e «le caratteristiche delle sue grandi formazioni
religiose che abbracciano un contesto più ampio» assurgono al rango di ultima
istanza: «Chi si azzarderebbe a formulare dei giudizi di valore davvero
categorici a proposito? È una cosa che potrebbe fare solo Dio stesso, lui che è
all'origine di queste differenze». Un cieco nato sa che non è nato per essere
cieco e di conseguenza non smetterà di interrogarsi sul perché della sua cecità
e su come uscirne. Solo in apparenza l'uomo si è rassegnato al verdetto di
essere nato cieco davanti a quel che gli appartiene, alla sola realtà che in
ultima istanza conta nella nostra vita. Il titanico tentativo di prendere
possesso del mondo intero, di trarre dalla nostra vita e per la nostra vita
tutto il possibile, mostra, così come le esplosioni di un culto dell'estasi,
della trasgressione e della distruzione di sé, che l'uomo non si accontenta di
un giudizio così. Perché se non sa da dove viene e perché esiste, non è forse
in tutto il suo essere una creatura mancata? L'addio apparentemente
indifferente alla verità su Dio e sull'essenza del nostro io, l'apparente
soddisfazione per non doversi più occupare di tutto questo, ingannano. L'uomo
non può rassegnarsi a essere e restare, quanto a ciò che è essenziale, un cieco
nato. L'addio alla verità non può mai essere definitivo.<O:P</O:P
Stando così le cose, è necessario riproporre la domanda
fuori moda della verità del cristianesimo, per quanto a molti possa apparire
superflua e insolubile. Ma come? Di sicuro, la teologia cristiana dovrà
esaminare attentamente, senza timore di esporsi, le diverse istanze che sono
state sollevate contro la pretesa del cristianesimo alla verità nel campo della
filosofia, delle scienze naturali, della storia naturale. Ma d'altra parte
occorre anche che essa cerchi di acquisire una visione di insieme del problema
concernente l'essenza autentica del cristianesimo, la sua collocazione nella
storia delle religioni e il suo posto nell'esistenza umana. Vorrei fare un
passo in questa direzione, mettendo in luce come, alle sue origini nel Kosmos delle religioni, il cristianesimo
stesso ha visto questa sua pretesa.<O:P</O:P
|
|
Che io sappia non esiste alcun testo del cristianesimo
antico che getti sulla questione tanta luce quanto la discussione di Agostino
con la filosofia religiosa del «più erudito tra i romani», Marco Terenzio
Varrone (127-16 a. C.). Varrone condivideva l'immagine stoica di Dio e del
mondo; definì Dio come animam motu ac
ratione mundum gubernantem (come «l'anima che regge il mondo tramite il
movimento e la ragione»), in altri termini: come l'anima del mondo che i Greci
chiamano kosmos: hunc ipsum mundum esse
deum. Questa anima del mondo, tuttavia, non riceve culto. Non è oggetto di religio. In altri termini: verità e
religione, conoscenza razionale e ordine cultuale sono situati su due piani
totalmente diversi. L'ordine cultuale, il mondo concreto della religione, non
appartiene all'ordine della res,
della realtà come tale, ma a quello dei mores
- dei costumi. Non sono gli dei che hanno creato lo Stato, è lo Stato che ha
istituito gli dei, la cui venerazione è essenziale per l'ordine dello Stato e
per il buon comportamento dei cittadini. La religione è nella sua essenza un
fenomeno politico. Varrone distingue così tre tipi di "teologia",
intendendo per teologia la ratio, quae de diis explicatur - la
comprensione e la spiegazione del divino, potremmo tradurre. Tali sono la theologia mythica, la theologia civilis e la theologia naturalis. Tramite quattro
definizioni egli spiega poi cosa si debba intendere per queste "teologie".
La prima definizione fa riferimento ai tre teologi associati a queste tre
teologie: i teologi della teologia mitica sono i poeti, perché hanno composto
canti sugli dei e sono così cantori della divinità. I teologi della teologia
fisica (naturale) sono i filosofi, cioè gli eruditi, i pensatori, che, andando
al di là delle abitudini, si interrogano sulla realtà, sulla verità; i teologi
della teologia civile sono i "popoli", che hanno scelto di non
allearsi ai filosofi (alla verità), ma ai poeti, alle loro visioni poetiche,
alle loro immagini e alle loro figure .
La seconda definizione riguarda i luoghi a cui nella
realtà sono associate le singole teologie. Alla teologia mitica corrisponde il
teatro, che aveva di fatto un rango religioso, cultuale; secondo l'opinione
comune, gli spettacoli erano stati istituiti a Roma per ordine degli dei. Alla
teologia politica corrisponde la urbs.
Lo spazio della teologia naturale sarebbe il kosmos.<O:P</O:P
La terza definizione designa il contenuto delle tre teologie:
la teologia mitica avrebbe per contenuto le favole sugli dei, create dai poeti;
la teologia di Stato il culto; la teologia naturale risponderebbe alla domanda
su chi sono gli dei. Vale la pena ora di prestare maggiore attenzione: «Se -
come in Eraclito - essi [gli dei] sono fatti di fuoco o - come in Pitagora - di
numeri, o - come in Epicuro - di atomi, e altre cose ancora che le orecchie
possono sopportare più facilmente all'interno delle mura scolastiche piuttosto
che fuori, sulla pubblica piazza», ne deriva con assoluta chiarezza che questa
teologia naturale è una demitologizzazione, o meglio una razionalità, che
guarda criticamente cosa c'è dietro l'apparenza mitica e la dissolve attraverso
la conoscenza scientifico-naturale. Culto e conoscenza risultano separati l'uno
dall'altra. Il culto resta necessario fintanto che è una questione di utilità
politica; la conoscenza ha un effetto distruttore sulla religione e non
dovrebbe quindi essere messa sulla pubblica piazza.<O:P</O:P
Infine c'è la quarta definizione. Il contenuto delle
diverse teologie da che tipo di realtà è costituito? La risposta di Varrone è
questa: la teologia naturale si occupa della "natura degli dei" (che
di fatto non esistono), le altre due teologie trattano dei divina instituta hominum - delle istituzioni divine degli uomini.
Ne consegue che tutta la differenza si riduce a quella che c'è tra la fisica
nel suo significato antico e la religione cultuale dall'altra parte. «La
teologia civile non ha in ultima analisi alcun dio, soltanto la
"religione"; la "teologia naturale" non ha religione, ma
solo una divinità». Certo, non può avere nessuna religione, perché al suo dio
(fuoco, numeri, atomi) non può essere rivolta la parola in termini religiosi.
Così religio (termine che designa essenzialmente
il culto) e realtà, la conoscenza razionale del reale, si configurano come due
sfere separate, l'una accanto all'altra. La religio
non trae la sua giustificazione dalla realtà del divino, ma dalla sua funzione
politica. È un'istituzione di cui lo Stato ha bisogno per la sua esistenza.
Indubbiamente ci troviamo qui di fronte ad una fase
tardiva della religione, nella quale è infranta l'ingenuità dell'atteggiamento
religioso ed è quindi innescata la sua dissoluzione. Ma il legame essenziale
della religione con la compagine statale penetra decisamente molto più in
profondità. Il culto è in ultima istanza un ordine positivo che come tale non
può essere commisurato al problema della verità. Mentre Varrone,
nel suo tempo, in cui la funzione politica della religione era ancora
sufficientemente forte, per giustificarla come tale poteva ancora difendere una
concezione piuttosto cruda della razionalità e dell'assenza di verità del culto
motivato politicamente, il neoplatonismo cercherà presto un'altra via di uscita
dalla crisi, su cui l'imperatore Giuliano basò poi il suo sforzo per
ristabilire la religione romana di Stato. Quello che i poeti dicono sono
immagini che non si devono intendere fisicamente; ma sono comunque immagini che
esprimono l'inesprimibile per tutti quegli uomini ai quali la via maestra
dell'unione mistica è sbarrata. Benché non siano vere come tali, le immagini
sono giustificate come approcci a qualcosa che sempre deve restare
inesprimibile.
Con ciò abbiamo anticipato qualcosa di quel che diremo. La
posizione neoplatonica, infatti, da parte sua è già una reazione contro la
presa di posizione cristiana sul problema della fondazione cristiana del culto
e del posto della fede che ne è alla base, nella tipologia delle religioni.
Torniamo dunque ad Agostino. Dov'è che egli situa il cristianesimo nella triade
varroniana delle religioni? Quello che stupisce è che senza la minima
esitazione Agostino attribuisce al cristianesimo il suo posto nell'ambito della
"teologia fisica", nell'ambito della razionalità filosofica. Si trova
così in perfetta continuità con i primi teologi del cristianesimo, gli
Apologisti del II secolo, e anche con la posizione che Paolo assegna al
cristianesimo nel primo capitolo della Lettera ai Romani che, da parte sua, si
basa sulla teologia veterotestamentaria della Sapienza e risale, al di là di
essa, fino ai Salmi che scherniscono gli dei. Il cristianesimo ha, in questa
prospettiva, i suoi precursori e la sua preparazione nella razionalità
filosofica, non nelle religioni. Il cristianesimo non è affatto basato, secondo
Agostino e la tradizione biblica, che per lui è normativa, su immagini e
presentimenti mitici, la cui giustificazione si trova ultimamente nella loro
utilità politica, ma si richiama invece a quel divino che può essere percepito
dall'analisi razionale della realtà. In altri termini: Agostino identifica il
monoteismo biblico con le vedute filosofiche sulla fondazione del mondo che si
sono formate, secondo diverse varianti, nella filosofia antica. È questo che si
intende quando il cristianesimo, a partire dal discorso paolino dell'Areopago
in poi, si presenta con la pretesa di essere la religio vera. Il che
significa: la fede cristiana non si basa sulla poesia e la politica, queste due
grandi fonti della religione; si basa sulla conoscenza. Venera quell'Essere che
sta a fondamento di tutto ciò che esiste, il "vero Dio". Nel
cristianesimo, la razionalità è diventata religione e non più il suo
avversario. Perché ciò avvenisse, perché il cristianesimo si comprendesse come
la vittoria della demitologizzazione, la vittoria della conoscenza e con essa
della verità, doveva necessariamente considerarsi come universale ed essere
portato a tutti i popoli: non come una religione specifica che ne reprime altre
in forza di una specie di imperialismo religioso, ma come la verità che rende
superflua l'apparenza. Ed è proprio questo che nella vasta tolleranza dei
politeismi doveva necessariamente apparire come intollerabile, addirittura come
nemico della religione, come "ateismo". Non si fondava sulla
relatività e sulla convertibilità delle immagini, disturbava perciò soprattutto
l'utilità politica delle religioni, e metteva così in pericolo i fondamenti
dello Stato, nel quale non voleva essere una religione tra le altre, ma la
vittoria dell'intelligenza sul mondo delle religioni.<O:P</O:P
D'altra parte, a questa posizione del cristianesimo nel kosmos di religione e filosofia risale
anche la forza di penetrazione del cristianesimo. Già prima dell'inizio della
missione cristiana, alcuni circoli colti dell'antichità avevano cercato nella
figura del "timorato di Dio" il nesso con la fede giudaica, che
appariva loro come una figura religiosa del monoteismo filosofico
corrispondente alle esigenze della ragione e allo stesso tempo al bisogno
religioso dell'uomo. Bisogno questo a cui la filosofia da sola non poteva
rispondere: non si prega un dio solo pensato. Là dove invece il Dio trovato dal
pensiero si lascia incontrare nel cuore della religione come un Dio che parla e
agisce, il pensiero e la fede sono riconciliati. <O:P</O:P
In quel nesso con la sinagoga, c'era ancora qualcosa che
non soddisfaceva: il non ebreo infatti rimaneva sempre un estraneo, non poteva
mai arrivare ad una totale appartenenza. Questo nodo è sciolto nel
cristianesimo dalla figura di Cristo, così come la interpretò Paolo. Solo
allora il monoteismo religioso del giudaismo era divenuto universale, e quindi
l'unità tra pensiero e fede, la religio
vera, era divenuta accessibile a tutti.<O:P</O:P
Giustino il filosofo, Giustino il martire (+167) può
servire da figura sintomatica di questo accesso al cristianesimo: aveva
studiato tutte le filosofie e alla fine aveva riconosciuto nel cristianesimo la
vera philosophia. Era convinto che diventando cristiano non aveva
rinnegato la filosofia, ma che solo allora era diventato davvero filosofo. La
convinzione che il cristianesimo sia una filosofia, la filosofia perfetta,
quella che è potuta penetrare fino alla verità, resterà in vigore ancora a
lungo dopo l'epoca patristica. È ancora assolutamente attuale nel XIV secolo
nella teologia bizantina di Nicolas Cabasilas. Certo, non si intendeva la
filosofia come una disciplina accademica di natura puramente teoretica, ma
anche e soprattutto, su un piano pratico, come l'arte del ben vivere e del ben
morire, che tuttavia può riuscire solo alla luce della verità.<O:P</O:P
|
|
L'unione della razionalità e della fede, che si realizzò
nello sviluppo della missione cristiana e nella costruzione della teologia
cristiana, portò però correttivi decisivi all'immagine filosofica di Dio, di
cui due soprattutto devono essere menzionati. Il primo consiste nel fatto che
il Dio al quale i cristiani credono e che venerano, a differenza degli dei mitici
e politici, è davvero natura Deus; in ciò soddisfa le esigenze della
razionalità filosofica. Ma nello stesso tempo vale l'altro aspetto: non tamen
omnis natura est Deus; non tutto ciò che è natura è Dio.
Dio è Dio per sua natura, ma la natura come tale non è Dio. Si crea una
separazione tra la natura universale e l'Essere che la fonda, che le dà la sua
origine. Solo allora la fisica e la metafisica giungono a una chiara
distinzione l'una dall'altra. Solo il vero Dio che possiamo riconoscere,
tramite il pensiero, nella natura è oggetto di preghiera. Ma è di più che la
natura. La precede, essa è la sua creatura. A questa separazione tra la natura
e Dio si aggiunge una seconda scoperta, ancora più decisiva: il dio, la natura,
l'anima del mondo o qualsiasi cosa fosse non si poteva pregare; non era un
"dio religioso", avevamo constatato. Adesso, ed è quello che già dice
la fede dell'Antico Testamento e più ancora quella del Nuovo Testamento, quel
Dio che precede la natura si è volto verso gli uomini. Non è un Dio silenzioso
proprio perché non è solo natura. È entrato nella storia, è venuto incontro
all'uomo, e così adesso l'uomo può incontrarlo. Può legarsi a Dio perché Dio si
è legato all'uomo. Le due dimensioni della religione, che erano sempre separate
l'una dall'altra, la natura eternamente dominatrice e il bisogno di salvezza
dell'uomo che soffre e lotta sono legati l'una all'altro. La razionalità può
diventare religione, perché il Dio della razionalità è egli stesso entrato
nella religione. L'elemento che la fede rivendica come proprio, la Parola
storica di Dio, è infatti il presupposto perché la religione possa ormai
volgersi verso il dio filosofico, che non è più un Dio puramente filosofico e
che nemmeno ripugna alla conoscenza della filosofia, ma l'assume. Qui si
manifesta una cosa stupefacente: i due princìpi fondamentali del cristianesimo
apparentemente in contrasto, il legame alla metafisica e il legame alla storia,
si condizionano e si rapportano l'uno all'altro; costituiscono insieme
l'apologia del cristianesimo in quanto religio
vera.<O:P</O:P
Se dunque si può dire che la vittoria del cristianesimo
sulle religioni pagane fu resa possibile non da ultimo dalla sua pretesa di
ragionevolezza, occorre aggiungere che a questo è legato un secondo motivo della
stessa importanza. Consiste innanzitutto, per dirlo in modo assolutamente
generale, nella serietà morale del cristianesimo, caratteristica che, del
resto, Paolo aveva già allo stesso modo messo in rapporto con la ragionevolezza
della fede cristiana: ciò a cui in fondo tende la legge, le esigenze essenziali
messe in luce dalla fede cristiana, di un Dio unico per la vita dell'uomo,
corrisponde a quel che l'uomo, ogni uomo porta scritto nel cuore, cosicché
quando gli si presenta, lo riconosce come Bene. Corrisponde a ciò che «è buono
per natura» (Rm 2, 14s). L'allusione
alla morale stoica, alla sua interpretazione etica della natura, è qui
manifesta tanto quanto in altri testi paolini, per esempio nella Lettera ai
Filippesi (Fil 4, 8: «Tutto quello
che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita
lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri»).<O:P</O:P
Così la fondamentale (benché critica) unità con la
razionalità filosofica, presente nella nozione di Dio, si conferma e si
concretizza ora nell'unità, critica anch'essa, con la morale filosofica. Come
nel campo del religioso il cristianesimo superava i limiti di una scuola di
saggezza filosofica proprio per il fatto che il Dio pensato si lasciava
incontrare come un Dio vivente, così qui ci fu un superamento della teoria
etica in una praxis morale,
comunitariamente vissuta e resa concreta, nella quale la prospettiva filosofica
era trascesa e trasposta nell'azione reale, in particolare grazie al
concentrare tutta la morale nel duplice comandamento dell'amore di Dio e del
prossimo. Il cristianesimo, si potrebbe dire semplificando, convinceva grazie
al legame della fede con la ragione e grazie all'orientamento dell'azione verso
la caritas, la cura amorevole dei
sofferenti, dei poveri e dei deboli, al di là di ogni differenza di condizione.
Che fosse questa l'intima forza del cristianesimo lo si può sicuramente e
chiaramente vedere nel modo in cui l'imperatore Giuliano cercò di ristabilire
il paganesimo in una forma rinnovata. Lui, il pontifex maximus della
ristabilita religione degli antichi dei, si mise ad istituire, cosa che non era
mai esistita prima, una gerarchia pagana, fatta di sacerdoti e metropoliti. I
sacerdoti dovevano essere esempi di moralità; dovevano dedicarsi all'amore di
dio (la divinità suprema tra gli dei) e del prossimo. Erano obbligati a
compiere atti di carità verso i poveri, non era più permesso loro di leggere le
commedie licenziose e i romanzi erotici, e dovevano predicare nei giorni di
festa su un argomento filosofico per istruire e formare il popolo. Teresio
Bosco dice giustamente, a questo riguardo, che l'imperatore in questo modo
cercava, in realtà, non di ristabilire il paganesimo ma di cristianizzarlo in
una sintesi limitata al culto degli dei, di razionalità e religione.
Rivolgendo lo sguardo indietro, possiamo dire che la forza
che ha trasformato il cristianesimo in una religione mondiale è consistita
nella sua sintesi fra ragione, fede, vita; è precisamente questa sintesi che è
sintetizzata nell'espressione religio
vera. E a maggior ragione si impone allora la domanda: perché questa
sintesi non convince più oggi? Perché la razionalità e il cristianesimo sono,
al contrario, considerati oggi come contraddittori e addirittura reciprocamente
esclusivi? Che cosa è cambiato nella razionalità? Che cosa è cambiato nel
cristianesimo?
Un tempo il neoplatonismo, in particolare Porfirio, aveva
opposto alla sintesi cristiana un'altra interpretazione del rapporto tra
filosofia e religione, una interpretazione che intendeva essere una
rifondazione filosofica della religione politeista. Oggi è proprio questo modo
di armonizzare la religione e la razionalità che sembra imporsi come la forma
di religiosità adatta alla coscienza moderna.
Porfirio formula così la sua prima idea fondamentale: Latet omne verum - la verità è nascosta. Ricordiamoci della parabola
dell'elefante, contrassegnata proprio da quella concezione in cui buddismo e
neoplatonismo si incontrano. In base alla quale non c'è alcuna certezza sulla
verità, su Dio, ma solo opinioni. Nella crisi di Roma del tardo IV secolo, il
senatore Simmaco - immagine speculare di Varrone e della sua teoria della
religione - ha riportato la concezione neoplatonica a alcune formule semplici e
pragmatiche, che possiamo trovare nel discorso tenuto nel 384 davanti
all'imperatore Valentiniano II, in difesa del paganesimo e in favore della
ricollocazione della dea Vittoria nel Senato di Roma. Cito solo la frase
decisiva divenuta celebre: «È la medesima cosa quella che noi tutti veneriamo,
una sola quella che pensiamo, contempliamo le stesse stelle, uno solo è il
cielo che sta sopra di noi, è lo stesso il mondo che ci circonda; che cosa
importano i diversi tipi di saggezza attraverso i quali ciascuno cerca la
verità? Non si può arrivare a un mistero tanto grande attraverso un'unica via».
È esattamente ciò che sostiene oggi la razionalità: la
verità in quanto tale non la conosciamo; nelle immagini più diverse, in fondo,
miriamo alla medesima cosa. Mistero così grande, il divino non può essere
ridotto a una sola figura che esclude tutte le altre, a un'unica via che
vincolerebbe tutti. Ci sono molte vie, ci sono molte immagini, tutte riflettono
qualche cosa del tutto e nessuna di loro il tutto. L'ethos della tolleranza appartiene a chi riconosce in ciascuna di
esse una parte di verità, a chi non pone la sua più in alto delle altre e si
inserisce tranquillamente nella sinfonia polimorfa dell'eterno Inaccessibile.
Esso in realtà si vela dietro a simboli, ma questi simboli sembrano non di meno
l'unica nostra possibilità di arrivare in una certa maniera alla divinità.
La pretesa del cristianesimo di essere la religio vera sarebbe dunque superata dal
progresso della razionalità? È dunque costretto ad abbassare le sue pretese e a
inserirsi nella visione neoplatonica o buddista o indù della verità e del
simbolo, a contentarsi, come aveva proposto Ernst Troeltsch, di mostrare della
faccia di Dio la parte rivolta verso l'Europa? Si deve forse fare un passo in
più di Troeltsch, che considerava ancora il cristianesimo la religione adatta
all'Europa, tenendo conto del fatto che oggi l'Europa stessa dubita che sia
adatta? Questa è la vera domanda alla quale oggi la Chiesa e la teologia devono
far fronte. Tutte le crisi all'interno del cristianesimo che osserviamo ai
giorni nostri si basano di fatto solo secondariamente su problemi
istituzionali.<O:P</O:P
I problemi delle istituzioni così come delle persone nella
Chiesa derivano ultimamente da questa questione, e dall'enorme peso che essa
ha. Nessuno si aspetterà, alla fine del secondo millennio cristiano, che questa
provocazione fondamentale trovi, anche solo lontanamente, risposta definitiva
in una conferenza. Non può assolutamente trovare risposte puramente teoriche,
così come la religione, in quanto attitudine ultima dell'uomo, non è mai solo
teoria. Esige quella combinazione di conoscenza e di azione, su cui era fondata
la forza persuasiva del cristianesimo dei Padri.
Ciò non significa in nessun modo che ci si possa sottrarre
all'urgenza che il problema ha dal punto di vista intellettuale, rinviando alla
necessità della prassi. Cercherò, per finire, solo di aprire una prospettiva
che potrebbe indicare la direzione. Abbiamo visto che l'originaria unità
relazionale, tuttavia mai completamente acquisita, tra razionalità e fede, alla
quale infine Tommaso d'Aquino dette una forma sistematica, è stata lacerata
meno dallo sviluppo della fede che dai nuovi progressi della razionalità. Come
tappe di questa mutua separazione si potrebbero citare Descartes, Spinoza,
Kant. La nuova sintesi inglobante che Hegel tenta non restituisce alla fede il
suo posto filosofico, ma tende a convertirla in ragione ed eliminarla come
fede. A questa assolutizzazione dello spirito, Marx oppone l'unicità della
materia; la filosofia deve allora essere completamente ricondotta alla scienza
esatta. Solo l'esatta conoscenza scientifica è conoscenza. Con ciò è congedata
l'idea del divino .
La profezia di Auguste Comte, che disse che un giorno ci
sarebbe stata una fisica dell'uomo e che le grandi domande finora lasciate alla
metafisica in futuro sarebbero state trattate "positivamente" come
tutto ciò che già oggi è scienza positiva, ha lasciato un'eco impressionante nel
nostro secolo, nelle scienze umane. La separazione tra la fisica e la
metafisica operata dal pensiero cristiano è sempre più abbandonata. Tutto deve
ridiventare "fisica".
La teoria evoluzionistica si è andata cristallizzando come
la strada per far sparire definitivamente la metafisica, per rendere superflua
l'«ipotesi di Dio» (Laplace) e formulare una spiegazione del mondo strettamente
"scientifica". Una teoria evoluzionistica che spieghi in modo
inglobante l'insieme di tutto il reale è diventata una specie di
"filosofia prima" che rappresenta per così dire l'autentico
fondamento della comprensione razionale del mondo. Ogni tentativo di fare
entrare in gioco cause diverse da quelle che una teoria "positiva"
elabora, ogni tentativo di "metafisica" appare necessariamente come
una ricaduta al di qua della ragione, come un decadere dalla pretesa universale
della scienza. Anche l'idea cristiana di Dio è necessariamente considerata come
non scientifica. A quest'idea non corrisponde più nessuna theologia physica: l'unica theologia
naturalis è, in questa visione, la dottrina evoluzionistica, ed essa non
conosce proprio alcun Dio, né alcun Creatore nel senso del cristianesimo (del
giudaismo e dell'islam), né alcuna anima del mondo o dinamismo interiore nel
senso della Stoa. Eventualmente si potrebbe, in senso buddista, considerare il
mondo intero come un'apparenza, e il nulla come l'autentica realtà, e
giustificare in questo senso le forme mistiche di religione che almeno non sono
in diretta concorrenza con la ragione.
È così detta l'ultima parola? La ragione e il
cristianesimo sono così definitivamente separati l'una dall'altro? Comunque
stiano le cose, non viene discussa la portata della dottrina evoluzionistica
come filosofia prima e l'esclusività del metodo positivo come unico tipo di
scienza e di razionalità. Occorre che questa discussione venga iniziata da
entrambe le parti con serenità e disponibilità ad ascoltare, cosa che finora è
accaduta solo in modo debole. Nessuno potrebbe mettere seriamente in dubbio le
prove scientifiche dei processi microevolutivi. Reinhard Junker e Sieghfried
Scherer dicono a questo proposito nel loro Kritisches
Lehrbuch sull'evoluzione: «Tali fenomeni [i processi microevolutivi] sono
ben conosciuti a partire dai processi naturali di variazione e di formazione.
Il loro esame per mezzo della biologia evolutiva portò a conoscenze
significative a proposito della capacità strabiliante di adattamento dei
sistemi viventi». Dicono in questo senso che si può a ragione caratterizzare la
ricerca sull'origine come la disciplina regina della biologia. La domanda che
un credente può porsi di fronte alla ragione moderna non è su questo, ma
sull'estensione di una philosophia
universalis che ambisce a diventare una spiegazione generale del reale e
tende a non consentire più nessun altro livello di pensiero. Nella stessa
dottrina evoluzionistica il problema si presenta quando si passa dalla micro
alla macroevoluzione, passaggio a proposito del quale Szamarthy e Maynard
Smith, entrambi sostenitori di una teoria evoluzionistica ricomprensiva,
ammettono anche loro: «Non ci sono motivi teorici che lascino pensare che delle
linee evolutive aumentino in complessità col tempo; non ci sono neanche prove
empiriche che ciò avvenga».
La domanda che ora bisogna porre va più in profondità: si
tratta di sapere se la dottrina evoluzionistica può presentarsi come una teoria
universale di tutto il reale, al di là della quale le ulteriori domande
sull'origine e la natura delle cose non sono più lecite né necessarie, o se
domande ultime del genere non superino il campo della pura ricerca
scientifico-naturale. Vorrei porre la domanda in modo ancora più concreto. Dice
veramente tutto una risposta come quella che troviamo, per esempio, nella
seguente formulazione di Popper: «La vita, come noi la conosciamo, consiste di
"corpi" fisici (meglio: di processi e strutture) che risolvono
problemi. Che le diverse specie hanno "imparato" tramite la selezione
naturale, cioè tramite il metodo di riproduzione più variazione; metodo che, da
parte sua, fu imparato secondo lo stesso metodo. È una regressione, ma non è
infinita...»? Non credo proprio. In fin dei conti si tratta di un'alternativa
che non si può più risolvere semplicemente né a livello delle scienze naturali
e in fondo neanche della filosofia. Si tratta di sapere se la ragione, o il
razionale, si trova o no al principio di tutte le cose e a loro fondamento. Si
tratta di sapere se il reale è nato sulla base del caso e della necessità (o,
con Popper, d'accordo con Butier del Luck
and Cunning [caso felice e previsione]), e quindi da ciò che è senza
ragione, se, in altri termini, la ragione è un casuale prodotto marginale
dell'irrazionale, insignificante, alla fine, nell'oceano dell'irrazionale, o se
resta vera quella che è la convinzione fondamentale della fede cristiana e
della sua filosofia: In principio erat
Verbum - al principio di tutte le cose c'è la forza creatrice della
ragione. La fede cristiana è oggi come ieri l'opzione per la priorità della
ragione e del razionale. Questa domanda ultima non può più, come già si è
detto, essere risolta tramite argomenti tratti dalle scienze naturali, e il
pensiero filosofico stesso qui si blocca. In questo senso non si può fornire
alcuna prova ultima dell'opzione cristiana fondamentale. Ma la ragione può,
ultimamente, senza rinnegare se stessa, rinunciare alla priorità del razionale
sull'irrazionale, al Logos come principio primo? Il modello ermeneutico offerto
da Popper, che rientra sotto diverse forme in altre presentazioni della
"filosofia prima", dimostra che la ragione non può che pensare anche
l'irrazionale secondo la sua misura, e quindi razionalmente (risolvere
problemi, elaborare metodi!), ristabilendo così implicitamente proprio il
primato contestato della ragione. Con la sua opzione a favore del primato della
ragione, il cristianesimo resta ancora oggi "razionalità", e penso
che una razionalità che si sbarazzi di questa opzione significherebbe per
forza, contrariamente alle apparenze, non un'evoluzione ma un'involuzione della
razionalità.
Abbiamo visto in precedenza che nella concezione del primo
cristianesimo le nozioni di natura, uomo, Dio, ethos e religione erano indissolubilmente connesse l'una all'altra
e che quel nesso aveva proprio aiutato il cristianesimo a vederci chiaro nella
crisi degli dei e nella crisi dell'antica razionalità. L'orientarsi della
religione verso una visione razionale del reale, l'ethos come parte di questa
visione e la sua applicazione concreta sotto il primato dell'amore, si associarono
l'uno all'altro. Il primato del Logos
e il primato dell'amore si rivelarono identici. Il Logos non apparve più solo come ragione matematica alla base di
tutte le cose ma come amore creatore fino a diventare com-passione verso la
creatura. La dimensione cosmica della religione che venera il Creatore nella
potenza dell'essere, e la sua dimensione esistenziale, la questione della
redenzione, si compenetrarono e divennero una cosa sola. Di fatto, una
spiegazione del reale che non può in modo sensato e comprensivo fondare un ethos resta necessariamente
insufficiente. Ora, è un fatto che la teoria evoluzionistica, là dove rischia
di allargarsi in philosophia universalis,
tenta di fondare un nuovo ethos sulla
base dell'evoluzione. Ma questo ethos evoluzionistico, che trova
ineluttabilmente la sua nozione chiave nel modello della selezione, e quindi
nella lotta per la sopravvivenza, nella vittoria del più forte,
nell'adattamento riuscito, ha poco di consolante da offrire. Anche là dove si
cerchi di abbellirlo in vari modi, resta ultimamente un ethos crudele. Lo sforzo per distillare il razionale a partire da
una realtà insensata in se stessa fallisce qui in modo lampante. Tutto ciò
serve a ben poco per quello di cui abbiamo bisogno: un'etica della pace
universale, dell'amore pratico del prossimo e del necessario andare oltre il
particolare.
Il tentativo di ridare, in questa crisi dell'umanità, un
senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come religio vera deve, per
così dire, puntare ugualmente sull'ortoprassia e sull'ortodossia. Al livello
più profondo il suo contenuto dovrà consistere, oggi - come sempre, in ultima
analisi -, nel fatto che l'amore e la ragione coincidono in quanto veri e
propri pilastri fondamentali del reale: la ragione vera è l'amore e l'amore è
la ragione vera. Nella loro unità essi sono il vero fondamento e lo
scopo di tutto il reale.