LA NATURA DI DIO
Per
quanto riguarda la teoria della conoscenza della natura di Dio san Tommaso distingue due
punti da considerare: da una parte le perfezioni che si possono affermare di Dio,
ma che conosciamo solo per analogia; dall'altra il modo divino di queste perfezioni
che è raggiunto solo negativamente e relativamente dalle vie di causalità, di negazione
e di eminenza.
A.
La conoscenza affermativa delle perfezioni di Dio
Possiamo
formare nei riguardi di Dio proposizioni affermative: Dio è buono, Dio è sapiente.
Poiché l'essere, la bontà, la sapienza, si trovano nelle creature che sono effetti di
Dio, queste nozioni debbono convenire pure alla loro Causa: poiché l'effetto richiede una
somiglianza con la Causa da cui procede. Tuttavia non vi è né univocità, né
equivocità, ma analogia dei termini e dei concetti che la nostra conoscenza
applica alle creature e attribuisce poi a Dio.
1.
Bisogna in primo luogo rigettare l' univocità che condurrebbe all'antropomorfismo.
Un
termine o un concetto sono detti univoci quando si applicano in vari soggetti in maniera
assolutamente identica. Così la parola «animale» designa nello stesso modo ogni vivente
dotato di conoscenza sensibile; logicamente è il nome di un «genere» che si
differenzierà in «specie», per esempio «animale acquatico» o «animale volatile»
grazie all'aggiunta di una «differenza specifica»: questa «acquatico» o «volatile»
nell'esempio indicato unisce alla nozione del genere un concetto distinto.
Ora,
è impossibile che un termine o una nozione convengano univocamente a Dio e alla creatura.
San Tommaso lo spiega direttamente sia a proposito della nozione di essere, sia del
concetto di qualsiasi perfezione; e trae la
stessa conclusione dallo studio della causalità.
La
nozione di essere non è univoca. Non vi è genere comune a Dio e alla creatura;
logicamente, l'essere non è un genere che le differenze possano specificare: infatti non
vi è nessuna differenza che non sia dell'essere, che possa dunque contrarre l'essere da
un concetto distinto da lui (C.G. 1,2.5; cfr. I a, 3,.5). I termini essere divino
ed essere-creato non indicano un genere e differenze specifiche. Non vi è dunque
identità del modo di essere. In Dio, il rapporto all' atto di esistere è diverso
da quello di qualsiasi creatura, poiché è lui stesso il suo atto di esistere, cosa che
non conviene ad alcuna creatura. In Dio solo, l'essenza è di essere: ne risulta che
l'essere non conviene univocamente a Dio e al creato.
Lo
stesso deve dirsi delle perfezioni quali la bontà o la sapienza. Poiché «le perfezioni
di tutte le cose che si trovano, divise e multiformi, nelle creature, preesistono in Dio
nell'unità e nella semplicità»; in Dio si identificano all'essere divino e quando
diciamo che Dio è sapiente, non esprimiamo nulla che sia distinto dalla sua essenza,
dalla sua potenza, dal suo essere: Quidquid est in Deo, hoc est suum proprium esse (De
Veritate 2,1 I); al contrario, le perfezioni dell'uomo, la sapienza per esempio, si
distinguono dalla sua essenza e dal suo essere. Non vi è dunque nessuna identità
concepibile tra una perfezione divina e una perfezione creata. La sapienza, per esempio,
non è genere univoco che possa specificarsi in sapienza infinita e sapienza finita;
d'altronde, se una perfezione divina non fosse che una specie in un genere, Dio avrebbe
solo parzialmente questa perfezione, determinata a un certo modo: non sarebbe l'essere
perfetto in ogni modo (C.G. 1,32).
La
stessa conclusione deriva dall'analisi della causalità. È impossibile che l'Essere di
Dio, come pure nessuna delle sue perfezioni, identiche al suo Essere, sia causa univoca
dell'essere Infinito e delle sue perfezioni. Una causa univoca è della specie del suo
effetto: così la pianta genera la pianta. Ma una tale causa non è mai causa universale
della specie, altrimenti bisognerebbe supporla causa di se stessa. Ora, Dio è causa
universale degli esseri finiti e delle loro perfezioni, trascende dunque ogni specie di
essere e di perfezione. Nessun concetto univoco può essere applicato a Dio e alle
creature.
2.
Ma bisogna evitare di cadere nell'altro estremo, quello dell'equivocità, che
condurrebbe all'agnosticismo.
Un
vocabolo è equivoco quando si applica a vari soggetti in modo del tutto diverso: così il
vocabolo 'lira' alla moneta e allo strumento musicale; vi è semplice omonimia. Una stessa
parola è applicata convenzionalmente a concetti del tutto distinti: così si parlerà di
equivocità per un vocabolo e non per un concetto.
I
termini essere, bontà o sapienza, applicati a Dio e alla creatura, non possono
corrispondere a nozioni assolutamente diverse; poiché tra Dio e la creatura vi è un
ordine di causa ad effetto (C.G. 1,33) che implica una certa somiglianza. Se questi
termini fossero equivoci, l'esistenza di Dio non potrebbe essere provata, né le sue perfezioni semplici dedotte;
la teologia sia naturale che soprannaturale potrebbe soltanto enunciare delle negazioni o
delle relazioni; ogni giudizio affermativo di una perfezione divina si ridurrebbe a un
semplice gioco di parole. Tuttavia, dire che «Dio è buono» non è soltanto dire: «Dio
non è cattivo» o «Dio è causa di bontà», ma è affermare che quello che si chiama
bontà nelle creature preesiste in un modo superiore
Non è nemmeno sufficiente attribuire ai concetti un valore pragmatico, come se il
giudizio Dio è buono significasse soltanto che dobbiamo comportarci nei suoi
riguardi come verso un Essere buono: la pratica può basarsi soltanto su una conoscenza
vera.
Cosi
i termini essere, bontà, ecc. non hanno soltanto valore
di segni convenzionali applicabili agli effetti e alla loro Causa suprema: essi si
riferiscono a concetti che posseggono una certa unità: la teoria dell'analogia
permetterà di precisarlo.
3.
La sola analogia permette di evitare i due eccessi dellantropomorfismo e
dell'agnosticismo. Un termine o un concetto sono detti analoghi quando si applicano a vari
soggetti in un modo che non è del tutto identico né del tutto differente. Sono state
distinte parecchie specie d'analogia. San Tommaso nell'insieme della sua opera, dà il
primo posto all'analogia di rapporto (si può tradurre cosi il termine 'proportio',
si parla anche di analogia di attribuzione). Tra gli esseri e Dio, c'è il rapporto della
creatura alla sua Causa suprema, esemplare ed efficiente: l'essere finito imita Dio, gli
assomiglia, partecipa alle sue perfezioni, riceve da lui la sua esistenza. Questo rapporto
stabilisce una conoscenza analogica di Dio.
a)
Analogia di rapporto (analogia di attribuzione). Come si presenta il rapporto col
quale un medesimo termine può convenire a diversi? Ci sono da distinguere due casi.
Prendiamo
l'esempio della parola «sano»: conviene principalmente all'animale in buona salute e a
lui solo: per analogia, si dirà che il suo nutrimento è sano, perché gli conserva la
salute, o che un rimedio sano, perché glie
la rende. è in questo caso un rapporto di causa a effetto. Ma il termine «sano» non conviene al nutrimento e al rimedio che per
denominazione estrinseca; a parlare in
termini propri, solo l'animale è in salute.
Esaminiamo ora il termine «buono». Si applica a Dio e alla
creatura. . Tra il Dio infinitamente buono e la creatura che partecipa della sua bontà, c'è un rapporto di causalità, come
c'è una relazione causale tra il nutrimento
sano e l'animale sano. Ma nel caso della bontà, non si può parlare di denominazione
puramente estrinseca: non basterebbe dire che Dio è buono come causa di bontà, nella
stessa maniera che il nutrimento è sano perché causa di salute. La Causa suprema deve
possedere in grado eminente la perfezione dei
suoi effetti; così la bontà gli conviene propriamente e anche principalmente, poiché le
creature non sono buone che in virtù di una partecipazione, d'una comunicazione del Bene
che egli è per essenza. Vi è qui, in qualche modo, attribuzione intrinseca del medesimo
termine alla creatura, di cui la perfezione è anzitutto conosciuta, e a Dio che ne è la
sorgente.
b)
Analogia di proporzionalità impropria o metaforica. L'analogia precedente si
basava su di un solo rapporto, per esempio di causa ad effetto. Le analogie seguenti
comportano almeno due rapporti che si paragonano, come, in aritmetica, quando si scrive una proporzione: 6 sta a 3 come 4 sta a 2
di qui il nome di analogia di proporzionalità.
La prima forma è semplicemente metaforica. In
questo caso il termine conviene propriamente a uno solo degli analogati e agli altri in
virtù di una somiglianza di, rapporti. Ad esempio, il termine 'ridere' che conviene
propriamente all'uomo e a lui solo; se si dice che un prato è ridente o che la fortuna ha
sorriso a qualcuno, si stabiliscono le proporzioni seguenti: il ridere sta all'uomo, come
la fioritura sta al prato, come il successo sta alla sorte di Tizio o di Caio.
Una
tale forma di analogia è molto usata nella Scrittura: Jahvé è detto 'fortezza', 'scudo'
(2 Sam. 22,2-3). 'fuoco divorante' (Deut. 4,24). La fortezza sta al
guerriero, come Dio sta al giusto. Ma il termine 'fortezza' non conviene propriamente: a
Dio: quindi il nome di analogia, di proporzionalità improprie. Questa specie di analogia
conviene alle perfezioni miste o frammiste ad imperfezioni che implicano in se stesse un
modo proprio alle creature e possono essere dette di Dio solo per metafora. (C.G. 1,30).
Alle perfezioni semplici converrà l'ultima e più importante specie di analogia.
c)
Analogia di proporzionalità propria. Qui il termine analogo conviene propriamente
a tutti gli analogati in virtù di una somiglianza di rapporti.
Ad
esempio, il termine 'conoscenza': la visione è la conoscenza della vista, come
l'intellezione la conoscenza dell'intelligenza. Prendiamo inoltre la parola 'principio':
il cuore è il principio della vita animale come le fondamenta sono il principio della
casa
Proporzioni
simili possono essere formulate dell'essere e di tutte le perfezioni semplici, parlando di
Dio e delle creature.
Da
se stesso è l'essere della Causa prima, come da un altro è l'essere del
contingente.
Illimitato
è il bene della Causa di ogni bene, come è sempre parziale il bene che noi
sperimentiamo.
La semplicità assoluta è la bellezza della
Causa suprema, come la complessità unificata è la bellezza del creato.
Misura
delle cose è l'intelligenza della loro Causa universale, così, misurata dalle
cose è l'intelligenza dell'uomo.
In
queste proporzioni raggiungiamo direttamente il secondo membro nei suoi due termini che
appartengono all'ordine del creato. Ora, sappiamo che il creato ha una Causa, alla quale
deve assomigliare: è il secondo termine del primo membro; ma il modo di essere, di
bontà, di bellezza, di intelligenza, ecc., che conviene a questa Causa non può essere
conosciuto in se stesso; è significato solo negativamente e relativamente: così negli
esempi indicati, il primo termine di ogni proposizione implica una negazione: dire che Dio
è da sé, equivale a negare che egli sia da
un altro (C.G. 1,25); egli è bene senza limiti, bellezza senza composizione,
intelligenza senza dipendenza alcuna da ciò che percepisce e senza distanza
né differenza tra l'atto del concepire e l'attività produttrice.
Se
dunque il concetto analogico ha un certo valore conoscitivo, se possiede una certa unità
con la quale raggiungiamo Dio in modo imperfetto e confuso, esso lascia nell'oscurità la
maniera di essere della perfezione divina, come spiega san Tommaso.
STUDIO
DEGLI ATTRIBUTI DIVINI
Dio
è: possiede dunque le proprietà trascendentali dell'essere. Ne deriva un primo gruppo di
attributi: unità, verità, e bontà.
Dio
è necessariamente: quindi sfugge a tutto quello che, per noi, è segno di contingenza, è
senza limiti, senza dimensione spaziale né temporale. Quindi un secondo gruppo: infinità,
immensità, eternità, attributi dalle nozioni, a primo aspetto, negative, ma che
esprimono anche pienezza di essere, di presenza ad ogni essere e di totale presenza a se
stesso. Finalmente, tre termini positivi, intelligenza, volontà e potenza vengono
attribuiti a Dio: riguardano sia il suo Essere intimo, sia la sua attività fuori di lui;
il loro studio offrirà lo spunto alla terza parte, nella quale verrà analizzata questa
azione ad extra con la quale Dio produce il mondo e lo dirige verso di sé.
L'UNITÀ
DIVINA (SEMPLICITÀ E UNICITÀ)
Dio
è perfettamente uno, indiviso in se stesso, Dunque, è
semplice: in lui nessuna composizione; è unico: vi è un solo Dio. La
semplicità divina : Dio è semplice: sfugge ad ogni composizione. San
Tommaso stabilisce da un lato negando di Dio le diverse specie di composizione osservate
dalla filosofia della natura e dalla metafisica, e dall'altro affermando nel modo più
assoluto che l'essere composto non può convenirgli.
Bisogna
negare di Dio ogni composizione quantitativa: poiché Dio non è un corpo; cosi pure ogni
composizione di materia prima e di forma sostanziale, poiché nell'Essere divino nulla è
in potenza: Dio è Atto puro ; siccome ogni essere
agisce dalla sua forma, egli è Forma da sè, secondo tutta la sua essenza, In lui non vi
è, come negli esseri materiali, distinzione tra la natura e la realtà individuale alla
quale questa natura appartiene né, come nell'essere finito, distinzione fra
essenza ed esistenza, Non vi è neppure, in Dio,composizione alcuna di sostanza e
di accidenti, poiché nulla può essere aggiunto all'Essere assoluto, illimitato; egli è
tutto quello che ha. D'altronde, si può
mostrare in generale che Dio non è composto, poiché ogni composto implica dipendenza,
contingenza, potenzialità: dipendenza dai
suoi componenti, perché non potrebbe esistere senza di essi, contingenza che esige una
causa, perché elementi diversi in se stessi non possono unirsi e divenire un essere
se non mediante una causa esterna a loro Dio
perché è semplice, è immutabile: ogni cambiamento suppone un soggetto potenziale che
rimane, e un atto realmente distinto che si modifica
Nulla può fare violenza alla sua natura (C.G. 1,19); nessun male è
concepibile in essa (C. G.,1,39): violenza e male implicano composizione. La
semplicità di Dio è quella pace inalterabile alla quale tendeva l'anima di Agostino: ecce
distentio est vita mea.
È
impossibile che vi siano più dei la
semplicità divina lo esige, in primo luogo. Se la natura di Dio potesse comunicarsi a vari esseri, essa vi si
distinguerebbe da ciò che caratterizza ciascuno di essi nella sua singolarità: l'essere
di molteplici dei non potrebbe essere semplice.
L'unicità
si deduce ancora dalla perfezione infinita di Dio: non si possono concepire più dei
infinitamente perfetti; poiché bisognerebbe supporli distinti, uno dovrebbe possedere una
perfezione che mancherebbe agli altri, e questi sarebbero dunque imperfetti.
Questa
unicità divina non è matematica o numerica: Dio è al di sopra del numero; il numero
può convenire solo a realtà materiali, nelle quali una medesima natura si moltiplica in
individui distinti. L'unità di Dio è d'ordine metafisico. Essa si collega alla sua
aseità: L'essere da sé, scrive Fénelon, può essere uno soltanto. Egli è
l'essere e non occorre aggiungere altro. Se egli fosse due, sarebbe uno aggiunto a un
altro e ciascuno di essi non sarebbe più l'essere al quale nulla si può aggiungere... Ne
segue che più dei non solo non sarebbero di più di un solo Dio, ma sarebbero addirittura
infinitamente meno di uno solo
2.
LA VERITÀ DIVINA
La
verità è la conformità della realtà e dell'intelligenza: in primo luogo e parlando propriamente, essa si trova
in quest'ultima; in secondo luogo, si trova nell'essere in quanto esso è ordinato
all'intelligenza .
Ora,
la verità è in Dio al grado supremo (cfr. quarta via), considerato sia in sé, sia come
Causa delle sue creature.
Come
Causa delle sue creature, Dio deve ancora essere chiamato Verità, e Verità prima,
poiché l'atto col quale egli si conosce e conosce in sé le creature è misura e causa di
ogni essere e di ogni intelligenza. L'essere trascendentale è vero in riferimento
all'intelligenza divina che lo pensa, o all'unica Verità prima. Cosi, nell'Intelligenza
divina, ogni verità può essere detta eterna e immutabile. Quanto alle intelligenze
finite, esse entrano in modo passeggero e mutevole in possesso di verità molteplici, che
sono riflessi della verità divina. Quindi tutta la verità che si trova nell'essere o
nell'intelletto è per noi segno di Dio.
Dio
non è soltanto vero, ma ancora verità scevra di errore, purissima veritas (C.G. 1,61).
Egli non conosce come noi, componendo e dividendo gli oggetti del pensiero, ragionando di
proposizione in proposizione: il nostro spirito può deviare e ingannarsi attraverso
questi molteplici procedimenti, ma Dio vede tutto con un unico sguardo volto su se stesso
e sulle partecipazioni finite del suo Essere. Inoltre se le cose sono vere in riferimento
all'Intelligenza divina che le concepisce e le produce, non vi può essere discordanza tra
il pensiero di Dio è la realtà.Dio è anche veracità totale in virtù della sua
perfezione infinita: cosi non può ingannarsi, né ingannarci.
3.
LA BONTÀ DIVINA
Non
si tratta qui solamente di bontà nel senso morale del termine, di quella disposizione,
propria degli esseri personali, per la quale essi vogliono il bene degli altri.
II
termine 'buono' ha qui il senso più esteso: Dio è buono, egli è il Bene supremo.Che
cosa è dunque il bene? Ciò che è desiderabile, oggetto di appetito: bonum est quod
omnia appetunt (1/5,1), dunque una perfezione, un atto: così il sapere è il bene
dell'intelligenza. L'essere potenziale tende verso la sua perfezione o il suo atto, che è
sempre un bene, altrimenti non si verificherebbe nessun movimento verso di esso. Dio è
buono perché è perfezione infinita e atto puro.
La
bontà di Dio si dimostra prendendo le mosse dalla sua causalità. Egli è causa
efficiente, esemplare e finale di ogni movimento degli esseri verso il loro bene.
Per
tendere alla loro perfezione, gli esseri debbono trovarsi sotto l'influenza di un Atto o
Agente supremo (cfr. la prima via); ora, ogni agente conferisce la propria somiglianza a
ciò che muove: Omne agens agit simile sibi (1/6,1); dunque l'essere tende verso
una somiglianza con Dio, che quindi è il Bene supremo.
È
anche, per conseguenza, l'esemplare di ogni bene. ultimo di tutte le cose, l'oggetto
supremo del desiderio, primum desideratum (C.G. 1,37). Poiché se si cercano i vari
fini degli esseri, gerarchicamente ordinati, non si può supporre una serie illimitata di
tali fini (C.G. 1,38); bisogna arrivare a un Bene ultimo, che renda conto di ogni
azione e dello stesso Agire divino: Dio fa tutto a causa della sua bontà: Omnia
operatur propter suam bonitatem ( I, 105,2 ad 2).
Quindi
la causalità finale di Dio spiega la sua causalità efficiente. Dio è per eccellenza il
bene che ama diffondersi, bonum diffusivum sui esse; egli produce fuori di
sé delle somiglianze della sua Bontà.
Cosi,
benché il termine 'buono' possa essere affermato propriamente di ogni essere finito,
rimane vero che tutto è buono della bontà divina, poiché questa è il primo principio,
esemplare, efficiente e finale, di ogni bontà. Come ogni verità ci rimanda alla Verità
prima, cosi ogni bene è per noi segno della Bontà suprema. In un certo senso, Dio è il
bene di ogni bene.
Si
raggruppano qui tre attributi la nozione dei quali si presenta a primo aspetto in modo
negativo. Dire che Dio è infinito. Tutto quello che mi attira nelle creature si trova in
Dio in maniera purissima, santa, perfetta, senza mescolanza, senza limite, senza timore di
eccesso o di errore... «O Signore, fammi gustare... la tua somma bontà. Sì, tu solo sei
Buono. Sì, ogni bene viene da te. Sì, tu sei migliore di tutti i tuoi beni». (L.
De Grandmaison)
Infinito,
immenso, eterno, equivale a negare di lui ogni limite,
ogni dimensione spaziale, ogni durata temporale. Tuttavia questa negazione non
implica evidentemente in Dio alcun difetto, e conviene affermare nel tempo stesso
la pienezza d'essere che quei tre attributi suppongono: infinito, Dio è perfetto,
immenso, egli è presente a ogni essere,eterno, egli si possiede interamente.
I.
L'INFINITÀ DIVINA
L'infinità
di Dio è assenza di limite e pienezza di perfezione. Negativamente, Dio è senza limiti,
senza frontiere, senza termine; positivamente, possiede ogni attualità di essere.
L'infinità
divina non può essere quella di una moltitudine, poiché Dio non è composto, né quella
di una quantità continua, il come di una realtà che si estenda senza limiti nello
spazio, poiché non vi è quantità che nell'ordine materiale. Dio può essere infinito
solo dal punto di vista della grandezza spirituale, secundum spiritualem magnitudinem
(C.G. 1,43).
L'infinità
divina si ricollega alla nozione di Essere da sé. L'atto di essere di Dio sussiste da sé
e non è ricevuto in alcunché, quindi nulla può limitarlo. Da un lato, non è ricevuto
in un'essenza che lo determini. L'essere è delimitato soltanto dall'essenza, dalla
natura, dalla forma che attualizza;
per esempio, l'essere dell' uomo, il suo atto di esistere è ristretto ai confini
dell'essenza o della natura umana; l'esistenza di un uomo non può essere nient'altro che
quello che spetta all'uomo. Ma quello che è unicamente Essere e non essere di una data
essenza determinata, possiede in grado eminente ogni perfezione senza termine, né limite.
D'altro
lato, Dio non è una forma ricevuta in una materia che l'individui, che la contragga ad
essere la forma di un dato individuo. Una
forma materiale, quella per esempio di una determinata specie animale, può realizzarsi in
una moltitudine in- definita di individui distinti; in questo senso ha una certa
infinitezza; ma in un determinato membro della specie, è limitata, dalla materia, a
essere quella tale forma individuale. Ora, Dio è senza materia, è unicamente Forma, ed
è anzi la più assoluta delle forme pure, maxime formale omnium (1,7,1), poiché
in lui l'Atto di essere non è nemmeno ricevuto in un'essenza distinta: nulla dunque può
limitarlo.
Dio
solo è infinito nel senso assoluto del termine (infinitum simpliciter). Tuttavia
alcune realtà create sono infinite in maniera relativa (infinitum secundum quid).
Così
si può concedere una qualche infinitezza alla materia prima, pura potenza, perché può
attuarsi in una infinità di forme, minerali, vegetali e animali; ma questa è
un'infinitezza di potenzialità o di
dipendenza.
Così
pure gli esseri spirituali creati sono in certo modo infiniti. Ne è prova il potere
dell'intelletto; questo è capace, da un lato, di apprendere l'universale, applicabile a
una serie illimitata di individui, d'altro lato di pensare, al di là di un essere finito
qualsiasi, un altro più grande di sé. Ma questa infinità dell'intelletto creato è del
tutto relativa, poiché questo intelletto non c'è il suo essere, riceve l'esistenza
condizionata dai limiti di una determinata natura, angelica o umana.
È
possibile concepire inoltre una grandezza materiale infinita, cioè un corpo esteso, senza
limiti, o anche una moltitudine di esseri attualmente infinita? Benché, nella Somma (1,7,
3 e 4), san Tommaso risponda negativamente, il suo pensiero sembra aver esitato su questo
punto. Non si tratterebbe d'altronde che di realtà infinite sotto un certo aspetto, ma
limitate quanto all'essenza.
Soltanto
l'Essere assolutamente indipendente può essere infinito sotto tutti i rapporti.
2.
L'IMMENSITÀ DI DIO
Dio
è immenso, è al di fuori di ogni misura (aspetto negativo), presente a ogni essere e in
ogni luogo (aspetto positivo).
Dal
primo punto di vista, Dio sfugge a ogni dimensione spaziale, ai limiti di qualsiasi luogo;
e la sua presenza non può essere limitata ad alcune zone dell'estensione, perché la sua
potenza è essa stessa senza limiti.
Dal
secondo punto di vista, l'immensità assume altri due nomi: si chiama onnipresenza, cioè
presenza di Dio in ogni essere; e anche ubiquità, termine che designa in modo più
diretto la presenza divina in ogni luogo, dato che il luogo è ciò che contiene o
circoscrive gli esseri corporei.
San
Tommaso prova l'onnipresenza muovendo dall' azione divina sull'essere e sull'agire
delle creature.
La
causa deve essere presente al suo effetto; ora, l'essere finito è l'effetto proprio di
Dio; l'atto di esistere delle cose, ossia l'effetto più universale è prodotto dalla
Causa assolutamente universale; tutto ciò che partecipa all'essere dipende dall'Essere
per essenza: Cum Deus sit ipsum esse per suam essentiam, oportet, quod esse creatum sit
proprius effectus eius (ib.). Quindi, come il sole non cessa di illuminare
l'atmosfera, Dio conserva l'esistenza delle cose, in ogni istante. Ora, questo atto di
esistere delle creature è ciò che vi è di più intimo in loro, il principio che le fa
essere ed essere tutto quello che sono, alla stregua di una forma profonda; ciò vuol dire
che Dio penetra nel cuore stesso della realtà. Bisogna
escludere ogni panteismo; il finito non va confuso con l'infinito; tuttavia, proprio in
virtù della grandezza assoluta del suo Essere, Dio deve essere presente in seno a ogni
realtà, sia pur l'infima; tutto sussiste nella sua immensità.
Come
l'essere delle creature dipende dalla creazione e dalla conservazione divine, così il
loro agire dipende dal suo concorso. Nessuna creatura è causa di essere, al suo posto e
nella qualità di strumento che le è propria, se non nella potenza di Dio che la muove
alla sua operazione e che produce, come Causa principale, tutto l'essere dell'effetto.
È
classico dire che Dio è in ogni cosa per potenza, per presenza e per essenza;
non soltanto per potenza, come un sovrano le cui leggi si estendono a tutto il regno,
nemmeno solo per presenza come chi abita una casa e abbraccia con lo sguardo tutto
l'arredamento - ma soprattutto per essenza, poiché l'Essere di Dio è in ogni essere e in
ogni luogo.
Alla
nozione di onnipresenza si connette quella di ubiquità o presenza divina in ogni
luogo.
Gli
esseri corporei occupano un certo luogo determinato dal contatto delle loro dimensioni,
sono 'circoscritti' da questo luogo. Le realtà incorporee, anime umane, puri spiriti
creati e lo stesso Dio, sono presenti in un luogo attraverso un contatto di potenza, per
contactum virtutis (1,8,2 ad I); così l'anima esercita il suo potere in tutto
l'organismo, è tutta intera in ogni parte
del corpo, tuttavia non può agire al di là, la sua influenza è 'definita' o limitata
dalle dimensioni del corpo. Lo stesso dicasi dello spirito puro: la sua potenza finita non
può esercitarsi che in questo o quel luogo. La presenza divina in ogni luogo è anche un
contatto di potenza, ma di una potenza infinita; ovunque, Dio causa l'essere e l'agire; ma
non è né 'circoscritto' dal luogo come i corpi, né 'definito' o limitato da un certo
ambito come l'anima o lo spirito puro; egli possiede la ubiquità.
L'immensità
apparterrebbe sempre a Dio anche se non avesse creato nulla: nessuna estensione potrebbe
misurarlo, ed egli, avrebbe un potere infinito capace di far sorgere dei mondi ai quali
dovrebbe essere necessariamente presente.