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INTERVISTA al dott. Vescovi:
"non voterò ai referendum"

 

Angelo Vescovi, il codirettore dell’Istituto per la ricerca sulle cellule staminali del San Raffaele di Milano, anch’egli tra i fondatori della Associazione "Loris Brunetta", si asterrà sui referendum che vogliono abrogare parti della legge sulla procreazione assistita. «L’embrione non è un grumo di cellule», ribadisce lo scienziato. «Lo attesta la fisica che è scienza più esatta della biologia – spiega –. Con la fecondazione, un evento termodinamico, si ha il passaggio dal non vivente al vivente». Tutte gli altri tentativi di distinguere fasi successive in cui si darebbe la vita non si basano «su parametri oggettivi».

Il problema di una corretta informazione, secondo Vescovi, è diventato pressante per il bene del malato. Si è fatto credere che le cellule staminali embrionali siano l’unica via per salvare molti milioni di pazienti. «Numerosi malati – argomenta il biologo – si sono convinti che le terapie con le cellule embrionali già esistono, ma non sono permesse in Italia. Quindi sono partiti per la Cina, la Russia, si sono fatti trapiantare cose che nessuno di noi sa cosa siano. Nel migliore dei casi sono tornati senza alcun beneficio e con il portafoglio molto alleggerito».

Invece le staminali adulte, che hanno la specifica funzione di ricostruire il tessuto in cui risiedono, sono già utilizzate in medicina per terapie consolidate: cura delle leucemie, trapianti di cornea e di pelle per i grandi ustionati, ricostruzioni delle lesioni ossee. Sono solo i primi passi di una ricerca che preannuncia già altri successi: è in corso un trial clinico negli Stati Uniti e uno in Inghilterra, che utilizzeranno cellule staminali del cervello umano per curare delle malattie neurologiche. Una sperimentazione, contro malattie simili letali partirà in Italia nel 2006.

Ma il problema dei fondi può diventare critico. «C’è il rischio – avverte lo scienziato – di concentrare risorse economiche e umane su quella che si ritiene erroneamente l’unica via di ricerca, togliendo fondi a settori che in Italia non sono solo promettenti ma già altamente sviluppati, sono la nostra eccellenza».
Non c’è nulla di oscurantista nella posizione della Associazione. «Il problema non sono le cellule embrionali in sè – puntualizza Vescovi – non sono embrioni: non danno origine ad un uomo. Ma attualmente c’è un problema etico: per prelevarle si distrugge l’embrione». Il biologo è convinto, però, che sarà possibile risolvere il problema etico, producendo cellule staminali embrionali dalle adulte, senza passare per l’embrione.

 

29 Gennaio 2005 

I teologi: l’embrione? Ha già l’anima

Forte: è già un essere singolare, possiede una propria identità individuale. Cottier: dev’essere considerato come una persona

L' identità dell’embrione umano è uno dei temi più dibattuti dalla bioetica negli ultimi anni. E i prossimi referendum sulla procreazione assistita hanno rilanciato il dibattito. In due interviste all’agenzia Apcom, due autorevoli teologi, l’arcivescovo Bruno Forte e il cardinale George Cottier, chiariscono la fondatezza della posizione della Chiesa, che vede nell’embrione un essere umano sin dall’inizio.
«L’embrione – sottolinea monsignor Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto – è già un essere singolare, relazionato non solo a coloro da cui provengono le componenti originarie che lo costituiscono, ma anche alla sorgente ultima di ogni vita, che il credente riconosce in Dio: anche dal punto di vista strettamente biologico, l’embrione non è solo recettore passivo, ma interagisce con il suo ambiente vitale». Forte non trascura neanche la domanda più impegnativa: l’embrione ha un’anima? «Sì, se con questo si intende che non è solo animato e vitale, ma che gli è anche dovuto il rispetto da dare all’essere umano personale». E questa convinzione esce rafforzata dallo sviluppo delle conoscenze: «La ricerca scientifica ha mostrato come lo zigote possieda una propria identità individuale sin dal concepimento». «La conseguenza – continua Forte – è chiara: in qualunque momento questo sviluppo è interrotto violentemente per decisione di altri, viene di fatto soppressa una vita umana. La differenza che c’è tra un adulto e un bambino è evidente, ma questo non vuol dire che il bambino sia meno persona umana dell’adulto e che sia lecito sopprimerlo». «Gravissimo problema etico» è sollevato dalle «banche di embrioni»: «Di fronte ad esseri umani viventi, sebbene allo stadio primordiale – osserva Forte, è come se ammettessimo una possibilità di selezione. Ciò che abbiamo condannato unanimemente per la barbarie di tutte le violenze perpetrate dall’uomo sull’uomo, e in particolare per la tragedia dei vari genocidi che hanno funestato il cosiddetto “secolo breve”, non si può ignorare di fronte agli scenari che si aprono con la conservazione degli embrioni».

 

Cita Aristotele e San Tommaso, il teologo della Casa Pontificia, cardinale George Cottier, per chiarire che «l’embrione essendo una persona in divenire è ovvio che ha un’anima». Anche il cardinale Cottier parte dai dati scientifici: «Innanzitutto si tratta della generazione di un essere umano. I suoi genitori non sono vegetali o animali. Dunque sin dall’inizio l’embrione è ordinato per natura sua a ricevere da Dio l’anima spirituale. E perciò giuridicamente deve essere considerato come una persona». «Le teorie che negano questo concetto – continua Cottier – sono incapaci di spiegare quand’è che nella catena della vita ci si trova davanti a una persona». E, aggiunge il teologo, «dobbiamo guardarci da quei trattati di bioetica che affermano che non tutti gli esseri umani sono delle persone. Per esempio quando si dice che l’embrione non è una persona. Ma anche quando si stabilisce che anche un malato d’Alzheimer non è più persona, perché non ha coscienza». Resta il dramma degli embrioni congelati: «Quegli embrioni non dovrebbero proprio esistere. Ma la fecondazione artificiale ha tassi di riuscita bassi e per evitare insuccessi viene aumentata la produzione di embrioni. Ed è una strage».

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28 Gennaio 2005 

INTERVISTA a Alfredo Anzani:
«Divulgazione medica troppo spesso pilotata»

«Forti pressioni dovute agli enormi interessi economici in gioco. Le multinazionali hanno investito somme enormi»

Una corretta informazione non esiste e anche i medici sono soggetti al bombardamento mediatico che spinge in una sola direzione. Può sembrare strano, ma è così». Alfredo Anzani, segretario del Comitato etico dell’Istituto Scientifico San Raffaele e vice-presidente europeo dei Medici cattolici commenta così i dati dell’indagine del Censis, secondo cui oltre il 90% dei medici è favorevole all’uso delle cellule staminali embrionali ma nello stesso tempo circa il 65% ignora lo stato reale della ricerca scientifica in materia di staminali.

 

Anche i medici vittime della disinformazione. Certo, lascia perplessi visto che spesso sono i medici a dover indirizzare i propri pazienti.
Comprendo la perplessità, però dobbiamo renderci conto che non basta portare un camice bianco per avere una conoscenza di tutto lo scibile umano.

 

Ma qui si tratta di questioni scientifiche che riguardano l’attività medica. Viene spontaneo chiedersi dove si informano i medici.

Il medico generico si informa sulla letteratura scientifica se ha degli interessi particolari e limitatamente a quegli interessi. Per quel che riguarda gli specialisti dobbiamo tenere conto che tendono a occuparsi soprattutto del loro campo medico: un cardiologo va ai congressi di cardiologi, legge riviste di cardiologia. Per il resto ci sono riviste mediche e giornali, dove non troviamo un solo articolo che dica come stanno le cose: ovvero che non esiste un solo lavoro scientifico che supporti la necessità o l’utilità dell’uso delle cellule staminali embrionali, mentre c’è già una notevole e importante casistica sulle staminali adulte.

 

Passi per i giornali, ma lei sta dicendo che anche le riviste mediche informano a senso unico.
Purtroppo è così, ci sono forti pressioni dovute agli enormi interessi economici in gioco. Ci sono laboratori e multinazionali che hanno investito somme enormi per la ricerca sugli embrioni e hanno perciò tutto l’interesse a spingere l’informazione in questa direzione. E allora non si usa tanto il linguaggio scientifico, quanto la generica speranza, l’apertura a una possibilità per quanto remota.

 

Sembra di capire che l’informazione scientifica sia una sorta di emergenza.
È una questione decisiva. Oltretutto c’è anche una difficoltà oggettiva, perché rispetto ad altri argomenti medico-scientifici quello delle staminali non ha un suo specifico punto di riferimento: c’è coinvolta l’embriologia, la bioetica, la filosofia e giù giù fino all’economia e alla politica.

 

D’accordo, i medici forse non sono correttamente informati sullo stato della ricerca in fatto di cellule staminali. Però non possono non sapere che con le staminali embrionali si distruggono gli embrioni, ovvero vite umane.
Sull’atteggiamento davanti all’embrione però, più che il medico c’entra l’uomo, ovvero il senso che la vita ha per me. In più diciamo che i medici sono sensibili a due aspetti: la libertà di ricerca e la pressione dei pazienti.

 

Spieghi il primo aspetto.
Un medico sa che solo con la ricerca sarà possibile un giorno ciò che oggi non lo è. Quindi invocare la necessità della ricerca a 360 gradi è un argomento molto sensibile. Il punto che viene però trascurato è come fare questa ricerca e cosa essa comporta. Ad esempio, la vivisezione aprirebbe molte possibilità alla medicina, eppure non si fa. Cioè c’è un limite etico che si impone, e questo aspetto deve essere sollevato anche per l’embrione.

 

E la pressione dei pazienti?
Ho fatto a volte discussioni con medici che mi dicevano: "Io al mio malato devo dare una risposta". Ecco, questo è il punto: si cerca di dare una risposta positiva, almeno in termini di speranza, alla persona che si ha davanti prescindendo da un giudizio etico.

Riccardo Cascioli

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01 Febbraio 2005 

Le «bugie» sulle staminali

Pubblichiamo l'intervento pronunciato ieri all'Accademia dei Lincei, da Angelo Vescovi, co-direttore dell'istituto per la ricerca sulle staminali del San Raffaele di Milano

Una delle ragioni alla base dello scontro sulla legge che regolamenta la produzione di embrioni umani riguarda la possibilità di utilizzarli al fine di isolare cellule staminali embrionali pluripotenti. Essendo queste cellule in grado di produrre qualunque tipo di cellula matura dei tessuti del nostro organismo, esiste la possibilità che le cellule staminali embrionali possano essere utilizzate per lo sviluppo di numerose terapie rigenerative ad oggi incurabili, quali il diabete, il morbo di Alzheimer eccetera. Questa tesi è sicuramente logica e sostenibile fintanto che si accetti il fatto che si sta parlando di prospettive future e non di terapie già esistenti o in rapido divenire, e che si sta parlando di una delle numerose vie percorribili.
Purtroppo, il messaggio che incautamente viene trasmesso al grande pubblico e al legislatore è di ben altra natura e diametralmente opposto a quello che la realtà dei fatti ci propone.

 

Ci viene infatti spesso spiegato il contrario del vero, e cioè che le cellule staminali embrionali rappresentano se non l'unica (concetto che comunque in molti propongono), sicuramente la via migliore per lo sviluppo di terapie cellulari salvavita. Si allude spesso, nemmeno troppo velatamente, al fatto che le terapie a base di cellule staminali embrionali sarebbero addirittura già disponibili.
Non posso mancare di notare come un tale approccio è totalmente infondato e pone il cittadino, presto chiamato a decidere sulla validità della legge sulla fecondazione assistita, di fronte ad un dubbio dilaniante: lasciare morire milioni di persone o permettere l'uso degli embrioni umani per generare cellule salvavita? Ovviamente, in un contesto simile la natura dell'embrione umano viene stravolta, negata e banalizzata fino a renderlo un semplice "grumo di cellule", qualcosa di sacrificabile ignorando gli enormi problemi etici che questo sacrificio solleva.
In realtà il sacrificio non è per nulla necessario. Non ci sono terapie "embrionali"
A dispetto di un oggettivo, significativo potenziale terapeutico, non esistono terapie, nemmeno sperimentali, che implichino l'impiego di cellule staminali embrionali. Non è attualmente possibile prevedere se e quando questo diverrà possibile, data la scarsa conoscenza dei meccanismi che regolano l'attività di queste cellule, che ci impediscono di produrre le cellule mature necessarie per i trapianti, e data la intrinseca tendenza delle staminali embrionali a produrre tumori.

 

Secondo, ma non meno importante, esistono numerose terapie salvavita che rappresentano realtà cliniche importanti, quali le cure per la leucemia, le grandi lesioni ossee, le grandi ustioni, il trapianto di cornea. Tutte queste si basano sull'utilizzo di cellule staminali adulte. Inoltre, sono in fase di avvio nuove sperimentazioni sul paziente che implicano l'utilizzo di cellule staminali cerebrali umane.
Terzo, le terapie cellulari per le malattie degenerative non si basano solo sul trapianto di cellule prodotte in laboratorio. Esistono tecniche altrettanto promettenti basate sull'attivazione delle cellule staminali nella loro sede di residenza. Saranno quindi le cellule del paziente stesso che si occuperanno di curare la malattia, una volta stimolate con opportuni farmaci. Ovviamente, trattandosi delle cellule staminali del paziente stesso, i problemi di rigetto che, ricordiamolo, possono esistere col trapianto di staminali sia embrionali che adulte, in questo caso non sussistono.
Quarto: la produzione di cellule staminali embrionali può avvenire senza passare attraverso la produzione di embrioni. Sono infatti in corso studi grazie ai quali è possibile deprogrammare le cellule adulte fino a renderle uguali alle staminali embrionali senza mai produrre embrioni. Si tratta di una procedura che ha la stessa probabilità di funzionare della clonazione umana, ma scevra da problemi etici e che produce cellule al riparo da rischi di rigetto.

 

Da quanto descritto sopra, emerge molto chiaramente la seguente conclusione: il dibattito riguardante la legge sulla fecondazione assistita deve avvenire in assenza delle pressioni emotive e psicologiche che, artatamente, vengono fatte scaturire dalla supposta inderogabile necessità di utilizzare gli embrioni umani per produrre cellule staminali embrionali che rappresenterebbero l'unica o la migliore via per la guarigione di molte malattie terribili e incurabili.
Questa affermazione è incauta non solo perché fondata su concetti facilmente questionabili ma anche in relazione all'esistenza di linee di ricerca, di sviluppo e di cure almeno altrettanto valide, molto più vicine alla messa in opera nella clinica corrente e prive di controindicazioni etiche. Il dibattito sulla legge deve quindi incentrarsi sugli aspetti relativi alla dignità dell'embrione e al suo riconoscimento come vita umana a tutti gli effetti.
In questo contesto, mi permetto di concludere che, nella mia scala di valori di laico e agnostico, il diritto alla vita dell'embrione precede inequivocabilmente il diritto alla procreazione.

Angelo Vescovi


 

 

 

 

25 Gennaio 2005 

Contrario alla legge

sulla procreazione si dichiara il 49% degli interpellati,ma sui quesiti la partita si fa incerta: tra coloro che vogliono votare no e quelli che intendono astenersi si raggiunge la maggioranza

Referendum, far bene i conti del quorum

 

Confusione, disorientamento, indecisione, dunque quorum a rischio per il referendum sulla fecondazione assistita. Ma da qui alla data della consultazione popolare, ancora da fissare, il quadro potrebbe mutare.
È quanto risulta da un’indagine di Renato Mannheimer pubblicata domenica sul Corriere della Sera. Secondo il ricercatore l’elemento più rilevante dell’attuale situazione è «forse il fatto che il complesso di indecisi su come votare e di esplicitamente propensi all’astensione raggiunge quasi metà del campione intervistato. Ciò può legittimamente suscitare dubbi sulla possibilità di raggiungere il quorum necessario per la validità del referendum».
Ad accentuare il quadro di disorientamento è il fatto che la percentuale di chi dice di aver seguito con attenzione il dibattito sulla legge registra un calo dal 20% al 17% rispetto a settembre scorso, quando era in corso la raccolta delle firme. E ha subìto una riduzione ancora più rilevante rispetto alla fine del 2003, quando la legge era in Parlamento. Mentre la quota di coloro che hanno seguito poco o niente rispetto a settembre scorso sale dall’80 all’83%.


Inoltre, sottolinea Mannheimer, viene sostanzialmente confermata «l’opinione – condivisa da due terzi degli italiani, trasversalmente agli orientamenti politici o religiosi – che su temi personali e delicati come aborto e fecondazione ciascuno deve potere decidere liberamente, secondo la propria coscienza». Gli orientati in questo senso, però, registrano un leggero calo dal 67 di settembre al 65%.
Emerge, poi, una significativa discrepanza tra l’orientamento generale nei confronti della norma e l’opinione sui quesiti. Ad un giudizio globale i "per nulla" o "poco favorevoli" alla legge 40 ammontano al 49%, mentre i pienamente e gli abbastanza favorevoli raggiungono solo il 22%.


Invece nel dettaglio l’orientamento sui quesiti, sicuramente più significativo, dà una quadro abbastanza diverso. In due quesiti, favorevoli e contrari alla legge di fatto si equivalgono. Infatti gli abrogazionisti superano i decisi a votare "no" di un solo punto sia sul divieto di ricerca sull’embrione che sull’obbligo di non crearne più di tre. Più ampio lo scarto (6 punti) dei favorevoli all’introduzione dell’eterologa. Si rovescia, invece, la situazione nel caso del riconoscimento dei diritti dell’embrione, coloro che si dicono decisi a votare per il mantenimento di questa normativa superano di ben 10 punti gli abrogazionisti (34 a 24).


Se si considera allo stato il fronte allargato del "no", cioè coloro che sono decisi a esprimerlo in un voto e gli intenzionati all’astensione, questa fascia di popolazione supera sempre gli abrogazionisti: 56% per il quesito sulla scienza, il 57% sul limite dei tre embrioni, il 62% per il riconoscimento dei diritti dell’embrione, il 54% sull’eterologa. A ciò però si aggiunge una percentuale che oscilla dal 14 al 16% che non sa cosa votare. Aggregando, quindi, i dati in un altro modo si ha che la somma degli indecisi e degli intIntervista

(18 febbraio 2005)
Antonio Lanzone: «Va incoraggiata la ricerca sugli ovociti»

Enrico Negrotti

«Sono dati ancora preliminari, ma che mostrano come non si sia verificato il drammatico crollo di successi che qualcuno si attendeva». Antonio Lanzone, presidente della Società italiana della riproduzione (Sidr) e docente di Fisiopatologia della riproduzione umana all’Università Cattolica di Roma, ci aiuta a interpretare i dati dello studio della Sidr sui primi effetti della legge 40.

Come deve essere valutata la riduzione di quasi il 3% delle gravidanze ottenute?
La riduzione in termini relativi è piuttosto modesta, in altre parole la probabilità di avere gravidanze non sembra drammaticamente peggiorata con l’introduzione della nuova legge. In particolare se guardiamo alla riduzione dal 27 al 24,2% del tasso di gravidanza per ciclo di prelievo ovocitario significa che se prima per avere 100 gravidanze dovevo fare 370 cicli di stimolazione ormonale, ora ne devo fare 413. Posso dire che, rispetto alle aspettative, il calo è apparso meno netto nelle donne più anziane, dalle quali già non si poteva ottenere di più, rispetto alle più giovani, per le quali era possibile selezionare gli embrioni migliori.

Non crede che ogni calo, anche se minimo, venga percepito come negativo?
I nostri dati devono essere consolidati, ma sono validi. E li abbiamo inviati a una rivista internazionale per la pubblicazione. Tenga presente che il fatto che un dato sia ritenuto statisticamente significativo non è una scelta arbitraria, ma risponde ai requisiti degli studi scientifici. Se un fenomeno non è statisticamente significativo, esso non ha rilevanza di causa ed effetto rispetto a quanto si sta analizzando.

Però se non sono più possibili i congelamenti di embrioni, caleranno ulteriormente i risultati?
Il problema non si pone perché la legge ha vietato il congelamento degli embrioni per problemi etici. Vorrei però fare osservare che secondo dati Istat nel 2002 solo il 30 per cento dei 194 Centri di secondo livello effettuava crioconservazione degli embrioni; e di questi una parte importante (il 30-40 per cento) non otteneva gravidanze. Allora io mi interrogo piuttosto sulla qualità dei centri, spesso non adeguata alla tecnologia.

Ma il confronto tra gravidanze da embrioni congelati o da ovociti congelati è comunque rilevante.
Si devono tenere in considerazione diversi fattori. Innanzi tutto che gli embrioni congelati utilizzati nel 2003 erano comunque selezionati, mentre gli ovociti congelati nel 2004 non lo sono stati. A questo proposito esistono dati prodotti proprio da studiosi italiani che mostrano come lo sforzo di individuare le caratteristiche utili a effettuare la selezione degli ovociti può migliorare significativamente i risultati. Questo scarto potrebbe quindi essere colmato se si avranno parametri per valutare la qualità degli ovociti.

enzionati all’astensione arriva a quasi metà del campione degli intervistati. Infatti il 28-31% si dice orientato da astenersi, mentre disposta al voto è una percentuale dal 53 al 58%. È l’analisi di questi dati che secondo Mannheimer «può legittimamente suscitare dubbi sulla possibilità di raggiungere il quorum».
Da notare, pure, il fatto che il sondaggio registra una quota significativa di non praticanti favorevole alla attuale legge: una percentuale che oscilla dal 25% sui diritti dell’embrione al 18% dell’eterologa. Invece è probabilmente dovuta anche a scarsa informazione quella fetta di praticanti a favore della abrogazione che oscilla dal 26% sull’eterologa al 15% sulla tutela dei diritti dell’embrione.


Tuttavia il sondaggista avverte: «La verità è che, pur offrendo una descrizione degli orientamenti attuali dei cittadini, questi dati non possono oggi prefigurare quanto accadrà realmente. Perché, specialmente in questo caso, data la complessità e la delicatezza della materia, tutto dipende dalle campagne di comunicazione che verranno attuate dai due opposti fronti».

da Roma Pier Luigi Fornari

 

 

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Intervista a Claudio Risé

(17 febbraio 2005)
Il bisogno del volto del padre                                                       

di Marina Corradi

Il padre in provetta, il padre per sempre sconosciuto ridotto al seme anonimo della fecondazione eterologa, chi e cosa diventa nella storia del figlio in quel modo generato? Mentre i sostenitori dei referendum combattono perché anche questo tipo di paternità sia possibile, in nome del più ampio "diritto al figlio" da parte delle coppie sterili, la estromissione del padre non lascia indifferente la psicoanalisi. Ha scritto il professor Claudio Risè: «Il padre serve semplicemente a consentire che ogni cosa prenda il suo posto. A partire dal posto del padre si definisce l’ordine simbolico in cui si dispone il resto della famiglia. Il padre è figura del limite – "di qui non si può andare" – e di direzione, di senso - nel significato , appunto, di orientamento: "cerca la tua strada, che io comincio a proporti". Limite e spinta direzionale che derivano anche dal fatto che ci ha messo al mondo lui, con quel primo getto ben centrato: la nostra storia è cominciata lì. E’ quindi lui la prima figura che ci garantisce un’appartenenza».

Troppo disinvolto dunque, professore, e forse anche pericoloso questo accantonamento del padre, ridotto a strumento anonimo, che con la battaglia per la eterologa si vorrebbe far passare?
«Credo che i sostenitori della fecondazione eterologa dovrebbero tornare a rileggersi il mito di Edipo, e Freud, e la psicoanalisi e la filosofia contemporanea, compreso Foucault e Lacan, che facevano poggiare sul "no" del padre tutto il sistema normativo e del diritto. Togliere di mezzo il padre significa togliere di mezzo il punto di riferimento simbolico dell’organizzazione normativa di tutta la storia dell’Occidente. Fino a oggi nella vita dell’individuo e nell’esperienza collettiva l’incontro con il principio d’ordine, con ciò che dà la propria collocazione nel mondo, è avvenuta  nella relazione col padre. Ciò discende d’altra parte dalla nostra visione religiosa, che è quella della tradizione ebraico-cristiana».

Sul valore simbolico fondante della figura paterna molti, probabilmente, sarebbero d’accordo, ma venendo alla concretezza della legge 40 forse obietterebbero: d’accordo, con la fecondazione eterologa il padre è anonimo, tuttavia al momento della nascita del figlio il padre non biologico assume il suo ruolo paterno. Non è lo stesso?
«Il padre è figura dell’origine, e per questo deve avere un nome e un volto. Se noi non sappiamo quale è la nostra origine è molto difficile che riusciamo a individuare un destino. Possiamo sapere dove andiamo quando sappiamo da dove veniamo: la conoscenza delle origini è necessaria agli uomini. Diverso è il caso del padre adottivo, che raccoglie tutti gli aspetti simbolici della paternità. Il bambino sa che aveva un padre naturale, ma le radici affettive sulle quali crescere sono quelle che gli vengono presentate da chi lo ha accolto, con un gesto di amore e di ospitalità, e non per soddisfare un proprio bisogno. Nel caso della fecondazione eterologa, tuttavia, vorrei sottolineare, non è nemmeno detto che il padre sia concretamente presente una volta nato il bambino. Infatti in molti Paesi in cui questa pratica è permessa si prescinde del tutto dalla presenza di un padre, e la procreazione artificiale è aperta alle madri singles, o lesbiche, o alle coppie omosessuali . In questi casi il padre non c’è, semplicemente. Esistono siti Internet come www.mannotincluded.com, cioè "uomo non-compreso", che alle clienti consentono di scegliere le caratteristiche somatiche del donatore anonimo: gruppo etnico, altezza, colore degli occhi. Una possibilità che corrisponde pienamente all’ideologia del "father disposable", diffusasi in questi anni: il padre "usa e getta", che serve e poi si butta via».
«Ora – prosegue Risè – ci sono Paesi come gli Stati Uniti che hanno ormai un’esperienza assai più lunga della nostra di come funziona questo trittico aborto-divorzio-procreazione artificiale. Si è prodotta una grande quantità di malessere affettivo e psichico, e quindi anche di costi economici rilevanti per la collettività. Il bilancio dei costi sociali di questi decenni di liberismo familiare non è estraneo, ritengo, al successo elettorale di Bush, che è stato votato da molti elettori, pure non favorevoli alla sua politica internazionale, in adesione alla sua svolta in difesa della famiglia».

Un voto di reazione, dunque, alla crisi dell’autorità paterna?
 «Sì, i costi umani delle politiche di questi trent’anni negli Usa sono inequivocabili, e ampiamente documentati. Come spiego nel mio saggio "Il padre, assente inaccettabile" ( Edizioni San Paolo, ndr) , secondo i dati dell’ultimo censimento americano l’85% dei giovani in carcere è cresciuto senza un padre, come il 70% dei ragazzi devianti e il 63% dei giovani suicidi. Il 90% degli homeless, le persone senza fissa dimora, è pure cresciuta in famiglie senza un padre. Così, secondo il ministero della Giustizia americano, il 72% degli omicidi e il 60% degli stupratori viene da case in cui era assente il padre. I ragazzi senza padre esprimono comportamenti violenti a scuola in misura 11 volte maggiore rispetto ai coetanei. E il 69% dei bambini abusati sessualmente proviene da case in cui il padre, ancora una volta, manca. Dati che non vanno letti rigidamente, in base ad un’inesistente legge di causa-effetto, ma come prova di un altissimo fattore di rischio».

L’"assente inaccettabile". Dunque, sembra paradossale e in ritardo la pretesa di rendere questo padre addirittura, qualora lo si voglia, anonimo.
«La questione della eterologa è discussa ormai anche in Gran Bretagna, come sappiamo il Paese che ha dato origine alla ricerca e alla legislazione sulla procreazione artificiale in Occidente. E proprio qui fa discutere una nuova legge governativa che chiede che il donatore sia sempre noto. La commissione di bioetica inglese ha dato parere favorevole, perché nessuno, ha dichiarato, può sottrarre al figlio il nome del padre».

L’eliminazione dell’anonimato, introducendo la possibilità di dovere riconoscere questi figli, e i loro diritti alla successione, cancellerebbe l’eterologa.
«Certo, ma la riconoscibilità del donatore va a toccare il punto centrale della questione. Il padre deve esserci. Se si sa chi è, c’è, in un modo sia pure stravagante, discutibile, ma c’è, nominalmente definito. E’ di nuovo possibile un teatro delle origini».

Cosa accade nelle famiglie in cui dopo una fecondazione eterologa il padre è sconosciuto ?
«Il padre sconosciuto è un fantasma attorno a cui si animano le insicurezze e i rancori familiari all’interno della coppia, e dei figli. E’ una mina vagante. Un conto è quando il padre assente è il risultato di una vicenda esistenziale, e un bambino abbandonato ha modo di ricostruire il suo passato nella rassicurazione affettiva fornita dalla famiglia adottiva. Siamo sempre nella vita, nei corpi, negli affetti, e tutto questo può essere elaborato psicologicamente. In questo caso invece, quando la vita è messa in provetta, i corpi e gli affetti diventano invisibili, il silenzio è assoluto, la vita in formazione è separata dal vivente, e quindi la sofferenza successiva sarà molto più forte».

Ma cosa c’è al fondo di questa progressiva espulsione del padre dalla società occidentale?
«La provetta è solo ultima tappa di un lungo processo. Il primo è stato il divorzio: oggi negli Usa oggi un matrimonio su due si conclude con un divorzio, nel 75% dei casi chiesto dalla moglie, e nel 92% dei casi la casa e i figli sono affidati alla moglie. Il padre appare letteralmente buttato fuori, espulso. L’altro punto che mi colpisce molto è la sua emarginazione nell’aborto. Nella 194, il padre non ha alcuna voce in alcun ambito, né giudiziario né consultivo. E’ tagliato fuori fin dall’inizio della procreazione, e questo ha provocato alcune tragedie finite sui giornali, ma determina molto più frequenti drammi silenziosi».

E la sterilità maschile, che lei definisce "somatizzazione della paura di procreare", giunta a sfiorare il 40% dei maschi occidentali?
«Sintomo anche questa della insicurezza del proprio ruolo, in un sistema legislativo in cui il padre rischia di essere espulso con un divorzio, di non vedere o quasi più i suoi figli, e non ha voce in capitolo su un’eventuale gravidanza. Non è un quadro che promuova la pulsione/desiderio a riprodursi».

Ma, alle radici di tutto questo, cosa c’è stato?
«Il processo di secolarizzazione, cioè la separazione fra uomo e Dio, e la conseguente negazione del Padre celeste. Il padre terreno fonda la sua funzione simbolica e affettiva sulla relazione con l’archetipo del Padre celeste, che dall’Illuminismo in poi è stato progressivamente negato, fino alla "morte di Dio" del primo Novecento. Ora, sappiamo che a livello popolare queste elucubrazioni filosofiche non hanno vinto, e che soprattutto negli ultimi decenni c’è stata una forte reazione religiosa. Tuttavia la negazione del padre continua a ispirare le legislazioni dei paesi occidentali. La secolarizzazione, rifiutata dal sentire popolare, è ampiamente condivisa nella cultura delle classi dominanti, e la sacralità della vita umana e del padre è costantemente ignorata».

Il padre, lei spiega nel suo libro, è lo spirito d’iniziativa, là dove la madre nutre e soddisfa. Dove il padre è in crisi decade la vitalità dei popoli. Se l’America comincia a reagire, l’Europa pare ancora adagiata nel soddisfacimento dei bisogni individualistici. Quali prospettive intravede?
«L’America ha verificato prima il disastro, e ora comincia a correre ai ripari. Crogiolo di razze, memore ancora della antica spinta pionieristica, è un mondo più primitivo e dinamico, e mantiene la capacità di adesione all’istinto vitale. L’Europa dispone di  ricchezze più consolidate, è più intellettualizzata, più lontana dalla sensibilità per la vita. Ha meno iniziativa, è meno veloce, meno audace, anche negli interventi per difendere se stessa. Tuttavia questa iniziativa in Gran Bretagna per restituire il nome ai padri anonimi delle provette è estremamente importante. Io credo al significato simbolico delle parole, e questo è, penso, l’inizio di una presa di coscienza. Si è fatto un  grande errore, e ora forse si comincia a comprendere la necessità di tornare a dare un ordine alle cose, "nel nome del padre"».

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Intervista

(15 febbraio 2005)

Silvia Vegetti Finzi:
Le donne imparino a darsi dei limiti

di Marina Corradi

“Procreazione, le donne si diano dei limiti» titolava pochi giorni fa l’intervento sul «Corriere della sera» della psicoanalista Silvia Vegetti Finzi. Contestatrice della legge 40, convinta che questa legge debba essere modificata, tuttavia la professoressa lancia un messaggio chiaro: «La procreazione – scrive – è sempre un atto di relazione che coinvolge chi ancora non c’è. (..) Emerge la necessità di porre dei limiti al desiderio personale e di confrontare l’urgenza del singolo con la sensibilità morale della collettività, sull’idea condivisa del bene comune». Lontano dunque dall’idea di un figlio come pretesa incontestabile, non soggetta ad alcuna regolamentazione, in quella logica che avrebbe voluto l’abrogazione in toto della legge 40. Lontano, anche, da certa retorica femminile per cui il diritto al figlio è assoluto.

Professoressa Vegetti Finzi, se le donne devono "dare dei limiti" al loro desiderio materno, quali sono i luoghi più vistosi in cui questi limiti sono stati superati?

«Penso alla domanda di maternità avanzata da donne sole, senza un compagno, o alle gravidanze ottenute artificialmente in età avanzatissima, o a quelle avute da un’inseminazione di un uomo legato da un vincolo di parentela alla futura madre. Vedo in queste domande di maternità un’ansia di onnipotenza materna – la procreazione senza padre, o oltre i limiti della vecchiaia – che è sempre stata nell’anima dell’umanità, e si ritrova infatti nei miti più antichi, ma che dalla scienza riproduttiva è stata in qualche modo "armata" e resa possibile. Tuttavia, come ho spiegato nel saggio "Volere un figlio", le tecnologie riproduttive possono celare, sotto la veste lucente dell’efficienza, ombre lunghe di angosce non riconosciute, per esempio quando un’inseminazione all’interno della famiglia riconduca oscuramente all’idea dell’incesto».

 Mai come oggi per la donna è stata garantita la possibilità di rifiutare la maternità – legalmente, con l’aborto, alla luce del sole – o di ottenerla contro ogni difficoltà naturale. Questa ampiezza di poteri, mai così estesi, modifica l’atteggiamento femminile verso la maternità stessa?

«Certamente sì. Può indurre la tentazione di pensare che tutto, alla donna, è possibile in riferimento al suo desiderio di avere o no un figlio. E occorre che le donne lavorino per imparare a darsi dei limiti in ordine a questo potere. Questo limite, io credo, le donne potrebbero trovarlo nella parola "relazione": procreare è una questione di relazione, non è esclusivo affare della madre».

Si gridava una volta, trent’anni fa: "l’utero è mio e lo gestisco io".

«Ecco, è giunto il tempo di fare un passo indietro rispetto a questo vecchio slogan. Di confrontare la propria domanda con la sensibilità della collettività che vive attorno».

Una femminista che forse in quella frase si riconobbe, la storica Anna Bravo, ha scritto recentemente in un saggio sulla rivista «Genesis» che negli anni Settanta le donne si misuravano con l’aborto con una certa immaturità, trascurando il fatto che "vittima era anche il feto".

«È un’affermazione che testimonia di una sensibilità cambiata a livello femminile. Io da anni scrivo su questi temi, e ho sempre trovato gli ambienti del femminismo piuttosto sordi sulla questione maternità. Quasi che sotterraneamente vi intravvedessero una minaccia, se non addirittura una condanna. Ma accade ora che le nuove generazioni si reimpadroniscano della maternità. Stanno superando il mito del lavoro e del successo, ne hanno colto il limite, e intravvedono nella possibilità di avere un figlio qualcosa di bello, e non un destino obbligato, come le generazioni precedenti. Non c’è da stupirsi se le più attente fra le intellettuali cominciano a raccogliere l’eco di questo sguardo».

La storica Lucetta Scaraffia fa notare come nel dibattito politico su aborto e procreazione artificiale la posizione femminista è sempre stata contro ogni regolamentazione, a difesa della "libertà delle donne". Quasi una difesa corporativa. È vero secondo lei?

«Sì, ma questo, va detto, è dovuto alla inadeguatezza della politica, che ha stretto questi temi entro i limiti degli schieramenti politici e i tempi dei dibattiti parlamentari, ingenerando una reazione difensiva femminile».

Ma dov’erano le donne che ora gridano alla "legge crudele" nei lunghi anni della procreazione-Far West in Italia, e mentre di regolamentazione si cominciava a discutere? Non c’è stato un lungo silenzio femminile su una questione che pure fortemente riguardava le donne?

«È assolutamente vero. Ricordo certi convegni di non molti anni fa, i cui a discutere su questi temi, di donne, eravamo solo in tre. È stata sottovalutata la questione: si è pensato che fosse una faccenda medica, invece la procreazione assistita è questione antropologica fondante, e il modo in cui vi si accede non è semplicemente terapia, è qualcosa che interviene nel nostro modo di essere madri, padri, figli, uomini».

Sempre la Scaraffia ha osservato che questa legge 40 che parla di "tutela dell’embrione" solleva per molte il nodo doloroso del ricordo di un aborto. Quella affermazione costringerebbe a rimettere in discussione la propria scelta, e la fatica a farlo distorcerebbe il dibattito pubblico sulla legge. Crede sia vero?

«Sì, perché quando si parla di questi temi e in particolare di aborto c’è sempre una forte componente inconscia che rischia di restare nell’ombra. Quanti aborti di donne giovanissime, per esempio, apparentemente dovuti a "distrazione", celano la volontà segreta di provare la propria fecondità. L’aborto è spesso uno scacco del pensiero, un avere sottovalutato la forza della potenzialità generativa che è in ciascuna donna, non riconosciuta. Quanti aborti si eviterebbero se oltre alle norme "igieniche" di educazione sessuale si spiegasse alle ragazze la complessità dei desideri inconsci".

Non pensa ci sia stata, nella generazione che ha ottenuto e rivendicato la 194, anche una censura del dolore dell’aborto?

«C’è stata anche questa, all’interno di una più generale censura delle donne attorno alla maternità. Un ignorare se stesse e il proprio corpo. È l’atteggiamento di quelle madri che si vantano d’essere andate in consiglio d’amministrazione o a fare footing fino al giorno prima del parto. Orgogliose, paradossalmente, di avere ignorato la gravidanza».

Tanto da ripensare, dunque. E, quest’ansia delle future madri, che in Italia fanno 120 mila test genetici prenatali e 100 mila amniocentesi all’anno - secondo illustri genetisti, una sorta di accanimento nello screening. Dalla antica accoglienza del figlio com’era, non si sta passando alla maternità come ricerca della perfezione, come performance?

«È un dubbio che condivido. Temo un futuro di figli omologati, pavento un mondo di Barbie e di Big Jim. Quante future madri ansiose vedo, sempre in attesa di un nuovo responso medico».

Pare che se lo aspettino sempre cattivo...

«Vivono nel sospetto. Ma l’attenzione è sempre centrata sui mali del corpo, con molti dei quali, almeno con quelli meno gravi, si può convivere, e mai su quelli dell’anima, e del cuore. E anche su questo, credo, le nuove madri dovranno molto lavorare».

 

 

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14 febbraio 2005)
Elena Porcu: legge crudele? Andiamola a vedere

di Marina Corradi

BOLOGNA. Eleonora Porcu, ginecologa e ricercatrice del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, è l’ideatrice della "via italiana" alternativa al congelamento degli embrioni, processo oggi proibito dalla legge 40. La tecnica della dottoressa Porcu prevede il congelamento del solo ovocita materno, che viene poi fecondato al momento del trasferimento in utero mediante Icsi, l’iniezione dello spermatozoo. È bene dire che si è al di fuori della naturalità prescritta dal magistero cattolico, ma almeno nessun embrione resta sospeso nel gelo, in attesa di una vita che forse non verrà mai. Una scelta a cui la Porcu, allieva di Carlo Flamigni, è arrivata dopo anni di ricerca controcorrente. Fino alla nascita di Elena, nel 1997, la prima bambina italiana venuta da un ovocita congelato. Oggi questi bambini sono 60. La percentuale di successo è, afferma la dottoressa, del 17% , sovrapponibile al 18,5% di successo del trasferimento di embrioni congelati. A testimoniare che congelare gli embrioni non è necessario per la riuscita della procreazione assistita.
Ma sono molti altri i luoghi comuni sulla "legge crudele" che la Porcu smentisce, lei che pure i problemi della sterilità li conosce a fondo. La sua è la storia di un medico, e di una donna, che vale la pena di ascoltare.

La strada del congelamento dell’ovocita è stata seguita anche all’estero – la prima nascita con questo metodo fu ottenuta nell’86 in Australia – tuttavia pare che la ricerca internazionale non ci abbia mai creduto davvero. Perché lei invece fin dagli anni 80 ci si è dedicata?
«Congelare l’ovocita è più difficile che congelare l’embrione. In molti ricercatori si sono applicati a questa tecnica, ma con poca costanza, o spesso con materiale genetico di scarsa qualità, elemento che ha alterato i risultati della sperimentazione. Il problema di fondo è che congelare l’ovocità anziché l’embrione risponde prevalentemente a un’obiezione etica, ma non è di grande vantaggio pratico, o economico. Non crea un mercato, dunque difficilmente si investe, e mancano i fondi per la ricerca. Quanto alla scelta mia e del mio gruppo – un gruppo di laici, sottolineo – mi disturbava la questione degli embrioni sovrannumerari. Gli embrioni per me sono vita nascente. Parlo come ricercatrice: mi sembra evidente che dal momento del concepimento la vita è un continuum, che non c’è un "salto" prima del quale si possa dire: fino a ora no, e da adesso c’è vita. Ora, se sappiamo che il congelamento non distrugge gli embrioni, che rimangono vitali per un lunghissimo tempo, è anche vero che molti di loro negli anni, di fatto, vanno incontro all’abbandono, e probabilmente quindi alla distruzione».

All’origine della sua ricerca dunque l’interrogativo sul destino di quei "sovrannumerari" accumulati per dare più chanches alla fecondazione artificiale. Nelle coppie che ricorrono a questi metodi e che hanno degli embrioni in questa sorta di "limbo", c’è eco di simili interrogativi?
«Qualche volta, ma non sempre. Direi che è notevole il pensiero rimosso, tra chi affronta i percorsi della provetta. Io sto ad ascoltare molto queste coppie, e cerco di non essere mai moralistica nei miei giudizi . Mi rendo conto che il desiderio riproduttivo può diventare per molti uomini e donne un bisogno drammatico, quasi una trappola mortale. Voglio dire che chi non riesce più ad accogliere, come forse accadeva in passato, il figlio come un accadimento gratuito, un incontro, qualcosa che non ci appartiene, finisce quasi inevitabilmente col vivere il figlio come uno strumento, e un oggetto di possesso. E chi non riesce ad avere il figlio tanto voluto si sente da questo scacco gravemente diminuito, e può cadere nella trappola di volerlo a ogni costo. Ogni onere pare accettabile allora in una domanda che si fa drammatica: dai trattamenti ormonali ripetuti all’avere dei figli "in sospeso" al gelo, si è disposti a ogni cosa. Peraltro, è paradossale notare come molte delle sterilità che trattiamo siano indotte dall’età relativamente avanzata delle madri. Età avanzata dovuta al fatto che le donne oggi sono obbligate a far carriera, prima di concedersi un figlio. Una ragnatela di obiettivi spesso dolorosamente inconciliabili: prima il lavoro, ma poi per la maternità è tardi, e allora si ricorre alla provetta. Ma anche la provetta è purtroppo poco efficace a quell’età».

È una bella critica, detta da una che fa il suo lavoro.
«Finché le donne che affrontano la maternità non si sentiranno considerate e rispettate come se stessero facendo la cosa più importante del mondo, e non invece emarginate sul lavoro come accade oggi, mi sembra evidente che non torneranno a fare figli, o li faranno tardi, a posizioni professionali già conquistate, con i problemi che sappiamo, e i tassi demografici che vediamo. E a questo proposito il congelamento degli ovociti, prezioso per le donne che affrontino una terapia anticancro e vogliano salvare la loro capacità riproduttiva, ha anche un’utilizzazione diversa e secondo me preoccupante. L’anno scorso sono stata invitata, privilegio unico per un italiano, a una lettura magistrale dalla Società americana di fertilità e sterilità, organizzazione prestigiosa sempre molto attenta alle novità scientifiche come il congelamento degli ovociti, ma anche preoccupata dalla proposta che si sta diffondendo negli Stati Uniti di congelare gli ovuli di donne giovani e sane che li potranno eventualmente utilizzare per avere bambini a quarant’ anni, dopo aver raggiunto gli obiettivi di carriera. Un’intraprendente imprenditrice americana ha creato negli Usa e in altri paesi le "banche degli ovociti". Aveva contattato anche me, chiedendomi se ero interessata all’iniziativa. Non lo ero. A me questa sembra un’autentica violenza sulle donne: costringerle a piegare la naturalità del proprio essere al punto di subire un intervento chirurgico di prelievo degli ovociti ai fini dell’efficienza e della carriera. Mi fa sorridere sentire gridare che la legge 40 è "crudele" verso le donne. Il vero sopruso, io dico, viene prima, è la sistematica costrizione della maternità in ritmi e tempi diversi da quelli naturali facendone quindi una scelta di secondo piano. In questo senso le banche degli ovociti sarebbero il coronamento dell’alienazione dalla maternità; e ho il timore che fra qualche anno ci si possa arrivare anche da noi».

In un suo intervento di due anni fa lei parlò di "supermercato della riproduzione"in Italia . La legge 40 ha almeno in parte eliminato questo "supermercato"?
«La legge ha indubbiamente dato una regolamentazione. Sussiste perà nell’ambito della procreazione assistita un incontro inevitabilmente problematico della domanda e dell’offerta, che non è cosa governabile per legge. Intendo dire che una coppia che domanda un intervento di riproduzione assistita, magari dopo anni di attesa di un figlio, è molto vulnerabile. Se per esempio una donna di 42 anni arriva da un medico e dice: dottore, faccio qualsiasi cosa, spendo qualsiasi cifra, ma un figlio lo voglio, sarebbe onesto dirle, signora, le possibilità reali di successo alla sua età sono intorno al 5 %, lei va incontro a una serie di dolorosi fallimenti. Lasci stare, trovi un’alternativa, rinunci. Ma non sempre questo avviene».

C’è sempre qualcuno che promette ciò che è quasi impossibile.
 «E soprattutto, il concetto di rinuncia sembra del tutto improponibile, come qualcosa di assurdo. Mi è capitata recentemente una coppia portatrice di talassemia. Si erano già informati, avevano già previsto, se l’embrione fosse risultato portatore della malattia, di abortire. A fronte di una gravidanza così complessa ho chiesto, senza moralismi, semplicemente perché mi sembrava una scelta più serena, se non avevano pensato di adottare un bambino. Mi hanno guardato sbalorditi. L’idea di poter rinunciare a quel figlio che viene raccontato come un "diritto", è inconcepibile. Ma questo non riguarda solo chi è sterile, o malato. Riguarda anche i sani, che però possono evitare di chiedersi "che cosa" è diventato oggi un figlio. In fondo, questi referendum ci interpellano profondamente in questo senso: che cos’è un figlio, è un evento gratuito, o l’oggetto di una pretesa?».

C’è stato, dopo l’entrata in vigore della legge, quell’esodo all’estero delle coppie sterili che era stato annunciato?
«Se c’è stato, è stato in buona parte un effetto mediatico: queste coppie hanno sentito dalla tv che dovevano recarsi all’estero. In realtà, il divieto che poteva riguardare un maggior numero di coppie è quello della fecondazione eterologa. Ora, si sa bene ormai come la maggior parte dei difetti dello sperma possa essere rimediata con l’Icsi, l’iniezione dello spermatozoo nell’ovulo, e si possa ottenere dunque in molti casi una gravidanza con fecondazione omologa, senza bisogno di donatori esterni. Le maternità surrogate, le maternità in età avanzata, sono invece situazioni molto rare, casi limite. Ma lo stesso congelamento degli embrioni, afferma l’Istituto superiore della Sanità in una pubblicazione del 2003, prima della legge era praticato solo dal 37,4% dei centri, e la diagnosi pre impianto appena dall’11,6%. Ora invece molte madri in attesa , dopo il clamore sul ricorso dei genitori talassemici di Catania, vengono a richiederla come fosse una procedura di routine: sono invece analisi che anche prima del divieto erano riservate a gravissime patologie ereditarie».

Vuole dire che si è fatto leva su un numero ristretto di casi limite per dare battaglia alla legge 40?
 «Mi pare di vedere una manipolazione strumentale di questa legge, una battaglia ideologica nel senso più deteriore del termine. Da un lato si sminuisce l’oggetto primo di cui si sta parlando, l’embrione: è più piccolo di una punta di spillo, ho sentito dire, come se la natura umana fosse un problema di dimensione. Dall’altro si tira in ballo la dignità e la salute della donna - di quelle donne che spesso a 40 anni non vengono dissuase dal tentare una maternità che probabilmente sarà un calvario. Dicono anche: la ricerca sulle cellule staminali embrionali è necessaria per guarire i malati di sclerosi amniotrofica, e per fortuna che abbiamo uno come il professor Angelo Vescovi che spiega che la grande speranza viene dalle staminali adulte. Io vedo davvero dietro ai referendum una battaglia ideologica, orchestrata per arrivare ad affermare che dell’embrione, cioè della vita che nasce, si può fare ogni cosa».

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a proposito

(15 febbraio 2005)
Ce la fanno 20 embrioni su 1800 

di Angelo Serra

L’attesa essenziale per ogni donna che intraprende la via della fecondazione assistita è il "bambino in braccio". Un certo progresso si può oggi registrare rispetto ai primi dati riportati sulla base di ampie casistiche nel 1984. Queste indicavano che solo il 6-7% delle donne avevano visto soddisfatto il loro desiderio di avere un figlio in braccio: 14.585 embrioni erano stati trasferiti in 7.793 donne; 1.369 (17,1%) soltanto di esse avevano iniziato la gravidanza; 628 di queste (45,8%) abortirono; 523 donne – cioè il 6.7% di quelle nelle quali erano stati trasferiti embrioni – partorirono un totale di 656 neonati, a causa della frequente gemellarità. Il numero degli embrioni perduti era quindi del 95,5% . I risultati raggiunti dopo anni e anni di ricerche, pur sensibilmente migliorati, sono tuttavia ben lontani dall'essere soddisfacenti. Parlano all'evidenza un notevole numero di dati rigorosamente raccolti e analizati e alcune autorevoli testimonianze.

Nel 1988, l'analisi dei risultati di 41 "cliniche della fertilità", ottenuti dal Registro nazionale Ivf/Et degli Stati Uniti, indicava che soltanto 311 donne su 2864, cioè l'11%, aveva ottenuto il figlio desiderato . Un analogo rapporto della Voluntary Licencing Authority, riferendo lo scarso successo ottenuto in Inghilterra, faceva notare: «Che nel 1986 siano ricorse alle cliniche Ivf 4.670 pazienti è una misura di quanto il servizio sia richiesto. Che un gran numero di donne abbiano sopportato un totale di più di 7.000 cicli, dopo aver già avuto precedenti trasferimenti, nella speranza di diventare gravide è una misura dei sacrifici che esse sono preparate a fare per superare la sterilità. Che da tutto questo sforzo ci siano stati soltanto 605 (8.6%) nati vivi  è una prova che l'Ivf resta una potente sorgente di grandi speranze deluse... uno stato di cose in cui migliaia di donne ogni anno giocano di fortuna con una nuova tecnica, e sono crudelmente deluse quattro volte su cinque». Non migliori apparivano i risultati nel 1992: riferendosi a questi, R.M.L. Winston e A.H.Handyside, attivi in questo campo fin dai primi anni, nel 1995 iniziavano un articolo sulle nuove sfide nel campo della fecondazione in vitro con questa affermazione: «La fertilizzazione umana in vitro (Ivf) è sorprendentemente un insuccesso [...]. In Inghilterra, il tasso di nati vivi per ogni ciclo iniziato è del 12.5%, e del 14% negli Stati Uniti». Un lieve miglioramento ancora sembra rilevabile dalle ultime statistiche pubblicate negli Stati Uniti relative al 1997: su 73.584 cicli, la frequenza media di parti per ciclo sarebbe salita al 23.7% .

Il "bambino in braccio" è, dunque, ancora il privilegio di una coppia sterile su cinque o sei che lo desiderano! Scienza e tecnologia, in 24 anni, non hanno risparmiato né ricerche né mezzi per superare gli ostacoli; ma, finora, i risultati non possono che essere deludenti per la maggior parte delle coppie che affrontano questa via lunga, faticosa e costosa. Anzi, la delusione è presente anche nel piccolo gruppo di donne in cui l'inizio della gravidanza è clinicamente accertato. Un notevole numero di ricerche indicano che tra le gravidanze clinicamente accertate: il 22% terminano in aborti spontanei e il  5% in gravidanze ectopiche; circa il 27% sono gravidanze multiple con tutte le complicanze che ne seguono, tra cui la "riduzione fetale"; il 29,3% terminano in parti pre-termine e il 36% in nati con basso peso. Di più, c'è evidenza di un aumento preoccupante di disturbi e mortalità neonatale, con tassi significativamente superiori a quelli della popolazione generale. E dati relativi alle più recenti tecniche indicano un rischio di anomalie congenite circa doppio rispetto alle gravidanze naturali. Né è da trascurare il rischio principale per la donna, la cosiddetta sindrome da iperstimolazione ovarica (...) che non può non influire sull'esito dell'impianto degli embrioni.

Sono ben note oggi molte ragioni della bassa efficienza di tutte le tecnologie finora introdotte nel campo della medicina per una "riproduzione assistita". Si poté, infatti, stabilire: che circa il 37% degli zigoti e il 21% degli embrioni pre-impianto hanno delle gravi anomalie cromosomiche, e che già il 40-50% degli oociti ottenuti con processi di super-ovulazione sono alterati; e che l'alterazione di singoli geni o di famiglie di geni interessati nel controllo dello sviluppo, e vari fattori connessi con gli stessi trattamenti tecnici – tra cui, in particolare, leggere modificazioni di temperatura, difetti dei terreni di coltura e necessarie micromanipolazioni – possono essere ulteriori cause di gravi anomalie che terminano nella cessazione molto precoce dello sviluppo, o in aborto spontaneo o in serie malformazioni.

Questi dati, che danno una ragione dei fallimenti, spiegano anche perché l'intervento deve essere ripetuto da 5 a 6 volte affinché, in media, una donna possa avere attraverso la Fivet la probabilità del 50% di ottenere il figlio desiderato, e da 13 a 15 volte per raggiungere la probabilità del 95-99%; e perché l'esigenza di ricorrere più volte a queste tecniche, altamente stressanti, può scatenare un tendenziale rigetto da parte della donna stessa e della coppia, accompagnate spesso da notevoli crisi depressive.

Sembrerebbe ovvio che queste innegabili costatazioni dovrebbero far riflettere sia la donna – e/o la coppia – che chiede di utilizzare queste tecnologie riproduttive, sia – a maggior ragione – chi ve la induce e offre tali tecnologie. E ciò indipendentemente da qualsiasi considerazione etica, ma solo di correttezza professionale. A chi offre queste tecniche R.L.Winston e A.H.Handyside ricordavano, chiudendo il lavoro sopra citato: «Tutti questi trattamenti rimangono nel regno della terapia privilegiata, disponibile soltanto a relativamente poche coppie, che sono per lo più in una posizione economica sufficientemente solida per affrontarla».

Una conclusione è chiara: per la massima parte delle coppie sterili che vi si affidano, queste tecnologie oggi ancora rappresentano una speranza che andrà quasi certamente delusa: soltanto circa 20 su 100 possono avere la speranza di portare a casa il figlio desiderato. Ma di tutto ciò si tace. Non se ne parla attraverso le grandi vie di comunicazione mass-mediale. Non se ne parla neppure, se non molto velatamente e di passaggio, negli studi di chi offre l'assistenza. Accusa aperta, fatta senza attenuanti nell’analisi dell’Institute for Science, Law, and Technology (Islat) di Chicago: «Le cliniche dovrebbero, come minimo, essere obbligate dalla legge federale a manifestare i rischi, i benefici e gli specifici procedimenti delle tecniche che saranno impiegate [...] i rischi associati con i farmaci utilizzati [...] i rischi di gravidanze multiple, e i potenziali problemi medici e pscicologici per i figli».

In breve sembra che, di fatto, l'assistenza alla riproduzione umana sia sfuggita al controllo di una medicina responsabile, che prosegue in una fase ancora sperimentale con danni notevoli – fisici, economici e psicologici – alla maggior parte delle persone che vi sono coinvolte. La regola ippocratica fondamentale – e profondamente umana – del medico, «Primum, non nocere», nell'applicazione di queste tecnologie è totalmente calpestata. Con tutta evidenza la prospettiva economica prevale (...).

Un altro serio problema di notevole rilevanza etica è spesso volutamente ignorato: l'elevata incidenza di embrioni intenzionalmente prodotti ed esposti a morte certa a fronte di un figlio "desiderato". Si supponga: 1) che si produca, per ogni tentativo, un minimo di sei embrioni per selezionare i tre da trasferire quando la legge lo impone; 2) che in media per donna si facciano – come minimo – tre tentativi per attuare il desiderio del "bambino in braccio"; e 3) che, secondo le più aggiornate statistiche, solo 20 mamme su 100 riescano ad avere  il loro bambino. A un semplice calcolo, segue che su 1800 embrioni prodotti solo 20 giungerebbero alla nascita, e 1780 andrebbero perduti, cioè, in media, 18 per ogni donna. Anche se si sta riproponendo un'accettabile probabilità di successo riducendo a 2 o 1 il numero degli embrioni trasferiti in utero allo stadio di blastociste , la produzione di più embrioni rimarrà sempre una esigenza tecnica. È evidente che il diritto alla vita di questi embrioni è coscientemente violato.

Morte "programmata" che si sta estendendo, sotto una forte spinta eugenistica, alla eliminazione – attraverso le tecniche offerte dai progressi della genomica umana, precisamente la "diagnosi genetica pre-impianto" (Dgp) – di ogni embrione diagnosticato suscettibile di manifestare serie patologie, o giudicato diverso da quello voluto, o in sovrappiù rispetto all'"uno" desiderato. Situazioni e prospettive ormai da tempo in atto, descritte in tutta la loro cruda realtà da J. Testart – che si dichiara ateo – e B. Sèle i quali, con evidente preoccupazione, scrivono: «Ciò che sta avvenendo è una vera rivoluzione dell'etica che sorpassa le frontiere di ogni nazione.[...] Al di là dell'esecuzione tecnica, dell'interesse individuale e di un ingenuo desiderio, i problemi sono più complessi di quanto siamo portati a credere. Noi dovremmo avvicinarci a questi problemi con uno sforzo cosciente e umiltà determinata a sostenere la dimensione etica della vita umana». In realtà, è veramente difficile comprendere come sia possibile essere indifferenti da ambedue le parti, richiedenti e medico, all'omicidio multiplo intenzionale che accompagna ogni nato. Per difendersi da questa accusa si oppongono due argomenti.

Il primo argomento afferma che durante i primi 15 giorni dal momento della fecondazione non c'è l'embrione, cioè un vero individuo umano, ma soltanto un pre-embrione, cioè un semplice cumulo di cellule. Come si è visto nel precedente capitolo, a un attento e serio esame, questa affermazione è, con tutta evidenza, un "falso scientifico". Tutti i dati prodotti e analizzati da una scienza onesta e cosciente, dimostrano chiaramente e senza ambiguità che l'embrione, fin dallo stadio di zigote, è un ben determinato individuo umano. La ragione di questo incomprensibile e irragionevole "falso scientifico" non fu mancanza di dati o ipotetica interpretazione di dati scientifici; fu, come si è ricordato, la precisa volontà di sottrarre l'embrione umano alle norme internazionali relative alla sperimentazione su individui umani, le quali ne avrebbero impedito totalmente l'uso.

Il secondo argomento afferma che, anche in natura, è notevole la perdita di embrioni. Questo sarebbe indicato da statistiche che, oltre alle gravidanze cliniche, prendono in considerazione anche quelle biochimiche, cioè determinate molto precocemente con particolari metodi di analisi. Si tratta di una giustificazione inconsistente e assurda. Infatti, ben diverse sono le situazioni: in natura ogni ciclo comporta, nella stragrande maggioranza dei casi, un solo embrione; nella riproduzione tecnicamente assistita, invece, si esige il trasferimento in utero di almeno tre embrioni per ciclo, due dei quali vanno perduti nel 70% dei casi in cui inizia la gravidanza, mentre tutti vanno perduti nell’altro 80% circa dei casi in cui non inizia la gravidanza. Inoltre, sono centinaia di migliaia gli embrioni crioconservati destinati alla morte certa, o per l'atto stesso del congelamento e/o scongelamento, o per legge, o per consegna alla ricerca. Infine, un fenomeno che avviene in un processo naturale non può affatto giustificare una volontaria e cosciente provocazione dello stesso. Sarebbe assurdo pensare che la morte di migliaia di persone in occasione di terremoti o altri particolari avvenimenti giustifichi la morte programmata di migliaia di soggetti umani per una qualsiasi ragione, anche in vista di un qualche bene raggiungibile.

Si può concludere, dunque, che la pratica della "riproduzione tecnicamente assisitita" ha sparso e sta spargendo, forse contro gli stessi desideri di chi la invoca, "morte e dolore" invece che "vita" e "gioia". E quel poco di "vita" e "gioia" è sempre accompagnato da notevole sofferenza fisica e psichica per la famiglia e i nati, oltre a inimmaginabili perdite economiche. In realtà, il desiderio di vita è frustrato e minacciato da opprimenti ombre di morte.

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