di
Joseph Ratzinger (Pubblicato da "Il Sabato", 16 marzo 1991)
Nell’attuale
dibattito sulla natura propria della moralità e sulle modalità
della sua conoscenza, la questione della coscienza è divenuta il punto nodale della
discussione, soprattutto nell’ambito della teologia morale cattolica. La coscienza
vi è presentata come il baluardo della libertà di fronte alle limitazioni dell’esistenza imposte dall’autorità. In tale contesto vengono così contrapposte due concezioni del cattolicesimo:
da un lato sta una comprensione rinnovata della sua essenza, che spiega la fede cristiana
a partire dalla libertà e come principio della libertà e, dall’altro lato, un
modello superato, "pre-conciliare", che assoggetta l’esistenza cristiana
all’autorità, la quale attraverso norme regola la vita fin nei suoi aspetti più
intimi e cerca in tal modo di mantenere un potere di controllo sugli uomini. Così
"morale della coscienza" e "morale dell’autorità" sembrano
contrapporsi tra di loro come due modelli incompatibili; la
libertà dei cristiani sarebbe poi messa in salvo facendo appello al principio classico
della tradizione morale, secondo cui la coscienza è la norma suprema, che dev’essere
sempre seguita, anche in contrasto con l’autorità. Infatti
se così fosse, ciò vorrebbe dire che non c’è nessuna verità — almeno in
materia di morale e di religione, ossia nell’ambito dei fondamenti veri e propri
della nostra esistenza. Dal momento che i giudizi di coscienza si contraddicono, ci
sarebbe dunque solo una verità del soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità. Non
ci sarebbe nessuna porta e nessuna finestra che potrebbe condurre dal soggetto al mondo
circostante e alla comunione degli uomini. Chi ha il coraggio di portare questa concezione
fino alle sue ultime conseguenze arriva alla conclusione che
non esiste dunque nessuna vera libertà e che quelli che supponiamo essere dettami della
coscienza, in realtà non sono altro che riflessi delle condizioni sociali.
1.
UNA CONVERSAZIONE SULLA COSCIENZA ERRONEA ED ALCUNE PRIME CONCLUSIONI
In
questo modo è diventato evidente che la questione della coscienza ci porta veramente al
cuore del problema morale, così come la stessa questione dell’esistenza umana. Una volta, un collega più anziano, cui stava molto a cuore la situazione
dell’essere cristiano nel nostro tempo, nel corso di una discussione, espresse
l’opinione che bisognava davvero esser grati a Dio, per aver concesso a così tanti
uomini di poter essere non credenti in buona coscienza. Infatti
se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti, non sarebbero stati in
grado, in un mondo come il nostro, di portare il peso della fede e dei doveri morali che
ne derivano. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui cui non viene
addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a quel giogo morale, che
la fede della Chiesa cattolica comporta. La non verità, il restare lontani dalla verità,
sarebbe per l’uomo meglio della verità. L’uomo starebbe a
casa propria più nelle tenebre che nella luce; la fede non sarebbe un bel dono del buon
Dio, ma piuttosto una maledizione. A questo punto sorgono davvero questioni della massima
importanza: una fede simile può essere veramente un incontro con la verità? La verità
sull’uomo e su Dio è davvero così triste e così pesante, o invece la verità non
consiste proprio nel superamento di un tale legalismo? Essa non consiste anzi nella
libertà? Ma dove conduce la libertà? Quale strada essa ci indica? Nella conclusione dovremo riprendere questi problemi
fondamentali dell’esistenza cristiana oggi; ma è necessario prima
ritornare al nucleo centrale del nostro tema, all’argomento della coscienza. Come ho
detto, ciò che mi spaventò nell’argomento sopra menzionato fu
soprattutto la caricatura della fede, che mi pareva di potervi riscontrare. Tuttavia,
seguendo un secondo filo di riflessioni, mi sembrò che fosse falso anche il concetto di
coscienza, che veniva presupposto. La coscienza erronea
protegge l’uomo dalle onerose esigenze della verità e così la salva...: In questa
concezione la coscienza non è l’apertura dell’uomo al fondamento del suo
essere, la possibilità di percepire quanto è più elevato e
più essenziale. Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui
l’uomo può sfuggire alla realtà e nasconderlesi. A tal riguardo è qui presupposta
proprio la concezione di coscienza del liberalismo. La coscienza non apre la strada al
cammino liberante della verità, la quale o non esiste affatto o è troppo esigente per
noi. La coscienza è l’istanza che ci dispensa dalla
verità. Essa si trasforma nella giustificazione della soggettività, che non si lascia
più mettere in questione, così come nella giustificazione del conformismo sociale, che
come minimo comun denominatore tra le diverse soggettività, ha il compito di rendere
possibile la vita nella società. Quanto era stato per me solo marginalmente chiaro in
questa discussione, divenne pienamente evidente un po’ dopo, in occasione di una
disputa tra colleghi, a proposito del potere di giustificazione della
coscienza erronea. Dopo una tale conversazione fui
assolutamente sicuro che c’era qualcosa che non quadrava in questa teoria sul potere
giustificativo della coscienza soggettiva, in altre parole: fui sicuro che doveva esser
falsa una concezione di coscienza, che portava a simili conclusioni. Görres mostra che il
senso di colpa, la capacità di riconoscere la colpa appartiene all’essenza stessa
della struttura psicologica dell’uomo. Il senso di colpa, che rompe una falsa
serenità di coscienza e che può esser definito come una
protesta della coscienza contro la mia esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto
necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo, che permette di
riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo. Forse ne erano totalmente sprovvisti Hitler o Himmler o Stalin. Anche i sensi di colpa abortiti... Tutti gli uomini hanno bisogno di
sensi di colpa".
Del
resto anche solo uno sguardo alla Sacra Scrittura avrebbe potuto preservare da simili
diagnosi e da una simile teoria della giustificazione mediante la coscienza erronea. Nel salmo 19, 13 è contenuta quest’affermazione, sempre
meritevole di ponderazione: "Chi si accorge dei propri errori? Liberami dalle colpe
che non vedo!". Qui non si tratta di oggettivismo
veterotestamentario, ma della più profonda saggezza umana; il non vedere più le colpe,
l’ammutolirsi della voce della coscienza in così numerosi ambiti della vita è una
malattia spirituale molto più pericolosa della colpa, che uno è ancora in grado di
riconoscere come tale. Se il pubblicano, con tutti i suoi
innegabili peccati, sta davanti a Dio più giustificato del fariseo con tutte le sue opere
veramente buone (Lc 18, 9-14), ciò avviene non
perché in qualche modo i peccati del pubblicano non siano veramente peccati e le buone
opere del fariseo non siano buone opere. Ciò non significa affatto che il bene che
l’uomo compie non sia bene davanti a Dio e che il male non sia male davanti a Lui e
neppure che ciò non sia poi in fondo così importante. La ragione vera di questo giudizio
paradossale di Dio si mostra proprio a partire dalla nostra questione: il fariseo non sa
più che anch’egli ha delle colpe. È completamente in pace con la sua coscienza. Ma questo silenzio della coscienza lo rende impenetrabile per Dio e
per gli uomini. Invece il grido della coscienza, che non da tregua al pubblicano, lo fa
capace di verità e di amore. Tutta quanta la teoria della
salvezza mediante l’ignoranza crolla in questo versetto: c’è nell’uomo la
presenza del tutto inevitabile della verità — di una verità del Creatore, la quale è stata poi anche messa per iscritto nella rivelazione della
storia della salvezza. L’uomo può vedere la verità di Dio a motivo del suo essere
creaturale. A questo punto delle nostre riflessioni è possibile tirare le prime
conseguenze per rispondere alla questione sulla natura della coscienza. Quanto è venuto alla luce dopo il crollo del sistema marxista nell’Europa
orientale, conferma questa diagnosi. Le personalità più attente e nobili dei popoli
finalmente liberati parlano di un’immane devastazione spirituale, che si è
verificata negli anni della deformazione intellettuale. Essi rilevano un ottundimento del
senso morale, che rappresenta una perdita e un pericolo ben più grave dei danni
economici, che sono accaduti. L’errore, la "coscienza
erronea", solo a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce,
l’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione
del mondo e ad un pericolo mortale.
Detto con altre parole: l’identificazione della
coscienza con la consapevolezza superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua
soggettività non libera affatto, ma rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti
dalle opinioni dominanti ed abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno.
La riduzione della coscienza alla certezza soggettiva significa nello stesso tempo la
rinuncia alla verità.
2. NEWMAN E SOCRATE: GUIDE PER LA COSCIENZA
A
questo punto vorrei fare una breve digressione. Prima di tentare di formulare risposte
coerenti alle questioni sulla natura della coscienza, occorre che allarghiamo un po’
le basi della riflessione, al di là della dimensione personale
da cui abbiamo preso l’avvio. Per la verità non ho l’intenzione di sviluppare
qui una dotta trattazione sulla storia delle teorie della coscienza, argomento sul quale
proprio di recente sono stati pubblicati diversi contributi. Un primo sguardo deve
rivolgersi al cardinale Newman, la cui vita ed opera potrebbero ben essere designati come
un unico grande commento al problema della coscienza. In questa
cornice non ci è permesso di soffermarci sulle particolarità
del concetto newmaniano di coscienza. Vorrei solo cercare di indicare il posto
dell’idea di coscienza nell’insieme della vita e del
pensiero di Newman. Le prospettive così guadagnate approfondiranno lo sguardo sui
problemi attuali e apriranno collegamenti con la storia, cioè
condurranno ai grandi testimoni della coscienza e alle origini della dottrina cristiana
sulla vita secondo la coscienza. Comprendere ciò è difficile per l’uomo moderno,
che pensa a partire dalla contrapposizione di autorità e
soggettività. Per lui la coscienza sta dalla parte della soggettività ed è espressione
della libertà del soggetto, mentre l’autorità sembra restringere, minacciare o
addirittura negare tale libertà. Per Newman il termine medio che
assicura la connessione tra i due elementi della coscienza e dell’autorità è la
verità. Non esito ad affermare che quella di verità è
l’idea centrale della concezione intellettuale di Newman; la coscienza occupa un
posto centrale nel suo pensiero proprio perché al centro c’è la verità. In
altre parole: la centralità del concetto di coscienza è in Newman legata alla precedente
centralità del concetto di verità e può essere compresa solo a partire da questa. La
presenza preponderante dell’idea di coscienza in Newman non significa che egli, nel XIX secolo e in contrasto con l’oggettivismo della
neoscolastica abbia sostenuto per così dire una filosofia o teologia della soggettività.
In occasione della sua elevazione al cardinalato, Newman confessò che tutta la sua vita
era stata una battaglia contro il liberalismo. La coscienza non significa per Newman che
il soggetto è il criterio decisivo di fronte alle pretese dell’autorità, in un
mondo in cui la verità è assente e che si sostiene mediante il compromesso tra esigenze
del soggetto ed esigenze dell’ordine sociale. Essa significa piuttosto la presenza
percepibile ed imperiosa della voce della verità all’interno del
soggetto stesso; la coscienza è il superamento della mera soggettività
nell’incontro tra l’interiorità dell’uomo e la verità che proviene da
Dio. Mi sembra significativo che Newman, nella gerarchia delle
virtù sottolinei il primato della verità sulla bontà o, per esprimerci più
chiaramente: egli mette in risalto il primato della verità sul consenso, sulla capacità
di accomodazione di gruppo. Direi quindi: quando parliamo di un uomo di coscienza,
intendiamo qualcuno dotato di tali disposizioni interiori. Un uomo di coscienza è uno che
non compra mai, a prezzo della rinuncia alla verità, l’andar d’accordo, il
benessere, il successo, la considerazione sociale e l’approvazione da parte
dell’opinione dominante. In questo Newman si ricollega all’altro grande testimone britannico della coscienza: Tommaso Moro, per il
quale la coscienza non fu in alcun modo espressione di una sua testardaggine soggettiva o
di eroismo caparbio. Egli stesso si pose nel numero di quei martiri angosciati, che solo
dopo esitazioni e molte domande hanno costretto se stessi ad
obbedire alla coscienza: ad obbedire a quella verità, che deve stare più in alto di
qualsiasi istanza sociale e di qualsiasi forma di gusto personale. Si evidenziano così
due criteri per discernere la presenza di un’autentica voce della coscienza: essa non
coincide con i propri desideri e coi propri gusti; essa non si
identifica con ciò che è socialmente più vantaggioso, col consenso di gruppo o con le
esigenze del potere politico o sociale.
L’individuo
non può pagare il suo avanzamento, il suo benessere, a prezzo di un tradimento della
verità riconosciuta. Tocchiamo qui il punto veramente critico della modernità:
l’idea di verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di
progresso. Il progresso stesso "è" la verità. La teoria della relatività
formulata da Einstein concerne, come tale, il mondo fisico. A me sembra però che possa
descrivere adeguatamente anche la situazione del mondo spirituale del nostro tempo. La
teoria della relatività afferma che all’interno dell’universo non si dà nessun
sistema fisso di riferimento. Quanto è stato detto a proposito del mondo fisico, riflette
anche la seconda svolta "copernicana" verificatasi nel nostro atteggiamento
fondamentale verso la realtà: la verità come tale, l’assoluto, il vero punto di
riferimento del pensiero non è più visibile.
A
questo punto diventa chiara l’estrema radicalità dell’odierna disputa
sull’etica e sul suo centro, la coscienza. In essa viene
messa alla prova la decisione cruciale tra due atteggiamenti fondamentali: la fiducia
nella possibilità per l’uomo di conoscere la verità, da una parte, e d’altra
parte una visione del mondo in cui l’uomo da se stesso crea i criteri per la sua
vita. La rinuncia ad ammettere la possibilità per l’uomo di conoscere la verità
conduce dapprima ad un uso puramente formalistico delle parole e dei concetti. A sua volta
la perdita dei contenuti porta ad un mero formalismo dei giudizi, ieri come oggi. Lo
specifico dell’uomo in quanto uomo consiste nel suo
interrogarsi non sul "potere", ma sul "dovere", nel suo aprirsi alla
voce della verità e delle sue esigenze. Questo fu, a mio parere, il contenuto ultimo
della ricerca socratica e questo è anche il senso più profondo della testimonianza di
tutti i martiri: essi attestano la capacità di verità dell’uomo quale limite di ogni potere e garanzia della sua somiglianza divina. È proprio in
questo senso che i martiri sono i grandi testimoni della coscienza, della capacità
concessa all’uomo di percepire, oltre al potere, anche il dovere e quindi di aprire
la via al vero progresso, alla vera ascesa.
3. CONSEGUENZE SISTEMATICHE: I DUE LIVELLI DELLA COSCIENZA
A) ANAMNESIS
Dopo
tutte queste scorribande attraverso la storia del pensiero è giunto
il momento di tirare le somme, cioè di formulare un concetto di coscienza. La tradizione
medioevale giustamente aveva individuato due livelli del concetto di coscienza, che si
devono distinguere accuratamente, ma anche mettere sempre in rapporto l’uno con
l’altro. Molte tesi inaccettabili sul problema della coscienza mi sembrano dipendere
dal fatto che si è trascurata o la distinzione o la correlazione tra i due elementi. La
corrente principale della scolastica ha espresso i due livelli della coscienza con i
concetti di sinderesi e di coscienza. Il termine sinderesi
(synteresis) confluì nella tradizione medioevale sulla coscienza dalla dottrina
stoica del microcosmo. Rimase però non chiaro nel suo esatto significato e venne così a
costituire un ostacolo per un accurato sviluppo della riflessione su questo
aspetto essenziale della questione globale circa la coscienza. Col termine anamnesi
si deve qui intendere precisamente quanto Paolo, nel secondo capitolo della lettera ai
Romani, così espresse: "Quando dunque i pagani, che non hanno la legge, per natura
agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi
dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta
dalla testimonianza della loro coscienza..." Lì possiamo leggere: "L’amore
di Dio non dipende da una disciplina impostaci dall’esterno, ma è costitutivamente
inscritto in noi come capacità e necessità della nostra natura razionale". Basilio,
coniando un’espressione divenuta poi importante nella mistica medioevale, parla della
"scintilla dell’amore divino, che è stata nascosta nel nostro intimo".
Ciò significa che il primo, per così dire ontologico livello del fenomeno della
coscienza consiste nel fatto che è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due realtà
coincidono); che c’è una tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a
immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme. Su questa anamnesi
del Creatore, che si identifica col fondamento stesso della nostra esistenza, si basa la
possibilità e il diritto della missione. In tal senso Paolo può dire che i pagani sono
legge a se stessi — non nel senso dell’idea moderna e liberalistica di autonomia, che preclude ogni trascendenza del soggetto, ma nel
senso molto più profondo che nulla mi appartiene così poco quanto il mio stesso io, che
il mio io personale è il luogo del più profondo superamento di me stesso e del contatto
con ciò da cui provengo e verso cui sono diretto. Il senso del bene è
stato impresso in noi, dichiara Agostino. A partire da ciò siamo ora in grado di
comprendere correttamente il brindisi di Newman prima per la coscienza e solo dopo per il
Papa. Una simile concezione moderna e volontaristica dell’autorità può soltanto
deformare l’autentico significato teologico del papato. Quando si parla della fede e
della Chiesa, il cui raggio a partire dal Logos redentore si
estende oltre il dono della creazione, dobbiamo tuttavia tener conto di una dimensione
ancor più vasta, che è sviluppata soprattutto nella letteratura giovannea. In diversi
passi del Vangelo si trova che essi compresero mediante un atto
della memoria. L’incontro originale con Gesù ha offerto ai discepoli ciò che ora
tutte le generazioni ricevono mediante il loro incontro fondamentale col Signore nel
battesimo e nell’eucaristia: la nuova anamnesi della fede, che, analogamente
all’anamnesi della creazione, si sviluppa in un dialogo permanente tra
l’interiorità e l’esteriorità.
Ciò
non significa che i credenti possiedano una fattuale
onniscienza, ma indica piuttosto la certezza della memoria cristiana. Oggi noi, proprio
nella crisi attuale della Chiesa, stiamo sperimentando in modo nuovo la forza di questa
memoria e la verità della parola apostolica: più delle direttive della gerarchia è la
capacità di orientamento della memoria della fede semplice che
porta al discernimento degli spiriti. Solo in tale contesto si
può comprendere correttamente il primato del Papa e la sua correlazione con la coscienza
cristiana. Il significato autentico dell’autorità dottrinale del Papa consiste nel
fatto che egli è il garante della memoria cristiana. Tutto il potere che egli ha è
potere della coscienza: servizio al duplice ricordo, su cui si basa la fede e che
dev’essere continuamente purificata, ampliata e difesa contro le forme di distruzione
della memoria, la quale è minacciata tanto da una
soggettività dimentica del proprio fondamento, quanto dalle pressioni di un conformismo
sociale e culturale.
L’atto della coscienza applica questa conoscenza
basilare alle singole situazioni. Su questo piano, il piano del giudicare (quello della conscientia in senso stretto) vale il principio che
anche la coscienza erronea obbliga. Quest’affermazione è pienamente intellegibile
nella tradizione di pensiero della scolastica. La colpa quindi si trova altrove, più in
profondità: non nell’atto del momento, non nel presente giudizio della coscienza, ma
in quella trascuratezza verso il mio stesso essere, che mi ha reso sordo alla voce della
verità e ai suoi suggerimenti interiori. EPILOGO:
COSCIENZA E GRAZIA
A
conclusione del nostro cammino rimane ancora aperta la questione dalla quale siamo
partiti: la verità, almeno così come la fede della Chiesa ce la presenta, non è forse
troppo alta e troppo difficile per l’uomo? Dopo tutte le considerazioni che siamo venuti facendo possiamo ora rispondere: certo, la via alta ed
ardua che conduce alla verità e al bene non è una via comoda. Scalando le altezze del
bene, l’uomo scopre sempre più la bellezza, che c’è nell’ardua fatica
della verità, e scopre anche che proprio in essa sta per lui
la redenzione.
Senza
dover spendere troppe parole, ciò può diventar evidente in un’immagine tratta dal
mondo greco, in cui possiamo notare nello stesso tempo come l’anamnesi del Creatore si protenda in noi verso il Redentore e come ogni uomo possa
riconoscerlo come Redentore, dal momento che egli risponde alle nostre più intime attese.
Mi riferisco alla storia dell’espiazione del matricidio di Oreste.
Questi commise l’omicidio come un atto conforme alla sua coscienza, fatto che il
linguaggio mitologico descrive come obbedienza all’ordine
del dio Apollo. Ma ora viene perseguitato dalle Erinni, che
sono pure da vedere come personificazione mitologica della coscienza, che dalla memoria
profonda, straziandolo, gli rimprovera che la sua decisione di coscienza, la sua
obbedienza al "comando divino" era in realtà colpevole. Tutta la tragicità
della condizione umana emerge in questa lotta tra gli "dei", in questo conflitto
intimo della coscienza. Nel tribunale sacro, la pietra bianca del voto di
Atena porta ad Oreste l’assoluzione, la purificazione, in forza della quale le
Erinni si trasformano in Eumenidi, in spiriti della riconciliazione. In questo mito è
rappresentato qualcosa di più del superamento del sistema
della vendetta del sangue in favore di un ordinamento giuridico giusto della comunità. In
questo mito percepiamo la voce nostalgica che la sentenza di colpevolezza obiettivamente
giusta della coscienza e la pena interiormente lacerante che ne deriva non siano l’ultima parola, ma che ci sia un potere della grazia, una
forza di espiazione, che possa cancellare la colpa e rendere la verità finalmente
liberante. In ciò consiste la vera novità, su cui si fonda la più grande
memoria cristiana, la quale è nello stesso tempo anche la risposta più profonda a ciò
che l’anamnesi del Creatore attende in noi. Essa ci porta nella terra desolata del
nulla e così si distrugge da sola. Il giogo della verità è divenuto "leggero"
(Mt 11, 30), quando la Verità è venuta, ci ha
amato ed ha bruciato le nostre colpe nel suo amore. Solo quando noi conosciamo e
sperimentiamo interiormente tutto ciò, diventiamo liberi di ascoltare con gioia e senza
ansia il messaggio della coscienza.