GIORDANO BRUNO: Un campione del libero pensiero?
Appunti per lanniversario a quattro secoli dalla morte
di Dario Rezza, canonico vaticano
A quattro secoli di distanza dal
rogo che in Campo de' Fiori a Roma pose fine alla vita di
Giordano Bruno, è legittimo formulare una domanda: fu veramente il Bruno l'eroe del
libero pensiero, ingiustamente "abbruciato" da una autorità retriva e
oppressiva? Che valore ha questo mito storiografico che ha segnato la formazione
dell'identità italiana dell'Ottocento in cerca di emblemi di
libertà? Anche a non voler condividere il giudizio negativo, anch'esso di vecchia data,
dello storico Zabreghin che «nessuno al mondo fu meno libero pensatore di quest'uomo», una revisione demitizzante oggi si impone. La
critica storica ci ha insegnato a non ridurre a moduli elementari situazioni e
comportamenti complessi e a sfatare le favole belle degli eroi.
Nel triennio 1998-2000, oltre le letture e i seminari bruniani in diverse città d'Italia,
hanno avuto luogo o sono in via di attuazione a Londra,
Chicago, Tokyo, Barcellona convegni di studio su Giordano Bruno e a Pechino recentemente
(settembre 1999) è stata presentata la traduzione cinese del Candelaio, quella
commedia bruniana che il nostro Carducci stimmatizzò come «volgarmente sconcia e
noiosa». Ben vengano manifestazioni e studi filosofici e letterari su un personaggio
estroso e geniale che merita una rivisitazione storica. Ma è opportuno anche non
confondere i reali meriti del letterato e del pensatore con la mitizzazione che ne è stata fatta e la venerazione che oggi gli adepti del New Age
gli riservano quale loro antico precursore e maestro.
A coloro che vorrebbero comunque ancora oggi definirlo un eroe,
si potrebbe provocatoriamente suggerire di applicarvi almeno un aggettivo: un eroe
fallito. I suoi propositi furono certo grandiosi, come è
proprio di certi ingegni particolarmente dotati, ma rimasero nell'ambiguità e
nell'equivoco tipici delle menti distratte da molteplici interessi.
Giramondo e opportunista; a Ginevra divenne calvinista, a Wittenberg ammiratore di Lutero,
salvo poi affermare che la Riforma protestante ha esasperato le
componenti «asinine» del giudeo-cristianesimo, ha lacerato l'unità spirituale europea,
ha suscitato conflitti, ha provocato decadenza nella cultura, ha dissolto i valori di
patria e di solidarietà, ha rovinato il costume pubblico e privato, ha introdotto «pazzi
riti».
Frequentava il mondo dei re e dei gentiluomini: al seguito del principe polacco Alberto
Laski nel suo primo viaggio a Oxford, protetto (e poi
perseguitato) da Enrico III (cui dedicò nel 1582 il suo De umbris idearum) a Parigi, ospite
dell'ambasciatore francese Michel Castelnau de Mauvissière (cui dedicò la Cena delle
ceneri), a Londra, dove esaltò Elisabetta d'Inghilterra quale «dea sulla terra»,
accolto in Germania dal granduca di Brunswick. Auspicò la vittoria dei sovrani illuminati
e assoluti, Enrico ed Elisabetta, minacciati dal fanatismo
religioso: l'assolutismo monarchico, superiore a divisioni confessionali e settarismi
nonché ai valori mercantili e plebei e alle fortune ereditarie di stampo feudale, era, a
suo giudizio, il solo in grado di sconfiggere, politicamente e militarmente, gli «asini
del mondo» e ridurre al silenzio sia la «poltronesca setta dei pedanti» aristotelici
che disprezzavano la nuova filosofia copernicana sia i protestanti che disprezzavano le
buone opere, pur vivendo di rendita su quelle dei loro predecessori.
Aveva una concezione aristocratica della cultura per cui la
verità non va comunicata a qualsiasi persona. Fu corifeo della cultura alto-borghese: per
questa nuova società dominante, aristocratico-monarchica, cercava di fondare una cultura
diversa opposta all'antica e una nuova interpretazione della storia, ma non si avvide che
la nuova classe al potere chiedeva una scienza ben diversa da quella magica ed ermetica da
lui professata, da porre al proprio servizio.
Esaltò Copernico e da lui prese le mosse, ma elaborò una visione fantastica del mondo,
fondata su una matematica simbolica di matrice neoplatonica ed animistica. Per lui
Copernico era, come leggiamo nella Cena delle ceneri, un «semplice matematico» che non
aveva colto il vero significato della propria scoperta, la quale non faceva altro che
confermare la filosofia «egiziana» dell'animazione universale.
Elaborò, ispirandosi a Raimondo Lullo, l'arte mnemonica, ma gli sfuggì che
considerandola una sintesi del pensiero, essa non può ridursi
a un aggregato meccanico artificioso. L'educazione della memoria era comunque
intesa come una tecnica per conquistare la personalità di mago.
Formulò un principio, che se fosse stato ben valutato avrebbe tagliato sul nascere le
gambe alle elucubrazioni del razionalismo di stampo cartesiano, secondo cui «altro è
giocare con la geometria, altro è verificare con la natura», ma il suo nominalismo, che
lo portava a fare di ogni determinazione della realtà
un'essenza, gli impedì una ricerca realistica del mondo.
Proclamò il rifiuto elitario della ragione ad accettare il
mistero religioso, ma poi cadde in braccio alla magia. Polemizzò col cristianesimo
respingendolo come «bella fabella», una favola cioè utile
«per li rozzi popoli che devono essere governati», e ironizzò su Cristo, la sua natura
divina, i suoi miracoli, ma ritenne la dottrina cristiana migliore delle altre «finché
storia non provveda diversamente». Si era proposto infatti di
essere il riformatore della religione, ma appare ben consapevole che la sua riforma è
un'utopia: solo dopo la lunga eclissi dei tempi biblico-cristiani, la verità, egli
afferma, tornerà a dominare sulla terra, ma per ora è esclusivamente celeste, astratta,
filosofica. E tale verità proposta dal Bruno, a ben guardare,
era una traduzione mistico-filosofica pagana di dogmi cristiani. Anche il testo sacro viene piegato dal nolano ai propri fini con una sottile riscrittura
di passi ampiamente discussi nella esegesi tradizionale. Con uno sguardo ironico alla
nuova cultura biblica della Riforma protestante.
Si propose di costruire un'etica normativa che, in quanto tale,
non può che essere un'etica della continenza, ma contemporaneamente diede luogo a
un'etica della legittimità degli istinti naturali. Ammirò perciò l'Aretino che andava
sciorinando tutti i risvolti dell'istinto sessuale irridendo al
sublime o alla sublimazione dell'amore per immergersi nella comicità dell'esperienza
istintuale. E per il Bruno la poesia d'amore non è che la
decorazione del brutale istinto della procreazione: basta leggere la grandiosa invettiva,
proprio all'inizio dell'Argomento del Nolano, preposto agli Eroici furori, dove il lessico
amoroso discende progressivamente al quotidiano e al volgare, per capire come per lui
l'amore umano si riduca all'istinto. Il quale, come già evidente
nella conclusione della sua prima opera, Il
Candelaio, ben s'inserisce nel caos dei comportamenti umani.
Ciò che voleva dire non riuscì a dirlo nel suo linguaggio barocco: la proliferazione di immagini e di tutti gli strumenti retorici e letterari, di tutte
le forme della parodia, del comico, dell'ironia blasfema hanno funzione irrisoria ma non
costruttiva di valori. Quell'ingente impiego di forme letterarie per esprimere nel trionfo
della letteratura quasi un'allegoria delle sue conquiste filosofiche appesantisce e non
sempre chiarisce il significato della sua scrittura, mutandosi a volte in un gioco logorroico. Del resto il Bruno stesso, nell'Argomento del Nolano, ha
affermato la fondamentale arbitrarietà di ogni discorso
allegorico e la necessità che sia l'autore stesso a darne l'interpretazione. Anche se quel suo linguaggio, trasgressivo e audace quanto la sua
filosofia, conserva un suo innegabile fascino, come tutto ciò che in maniera
letterariamente irregolare, tra il blasfemo e l'osceno, tende alla parodia delle
istituzioni.
Lo stesso suo ideale di eroe, quello degli eroici furori -
anima tormentata che non gode del presente ma del futuro e dell'assente, pervaso da un
impeto intellettuale verso il bello e il buono, che tende infinitamente verso l'infinito,
e, così invasato, appare inadatto alle cose di questo mondo -, non incarna il momento
più importante delle sue vicende che fu senza dubbio politico, cioè di ricerca di una
nuova scienza e di una nuova cultura che fossero espressione della nuova classe dirigente,
ma per le quali egli non aveva ancora gli strumenti adeguati.
In sostanza il Bruno non è quello venerato da una certa cultura laica antiecclesiale
dell'Ottocento: è singolare tra l'altro che ad inneggiare all'erezione del monumento a
Bruno in Roma nel 1889, insieme a frammassoni e così detti liberi pensatori, ci fossero
molti ebrei, ignari di quanta polemica antigiudaica confluisca negli scritti del nolano
dall'umanesimo italiano del Quattrocento attraverso Erasmo suo "maestro".
Fu uomo del suo tempo, che non si prefisse tanto di affermare
il diritto dell'uomo a credere ciò che pensa e ad abbattere l'autorità ottusa che lo
impedisce, quanto piuttosto di proporre una sua visione del mondo, in parte magica ed
ermetica, in parte coacervo di influssi diversi non ben amalgamati in una costruzione
barocca, con la pretesa che essa potesse proporsi anche come la religione del futuro. Fu cioè un sincretista di vastissime letture e cercò di inserire e far
convivere, nell'alveo della sua visione ermetica, Platone e gli scolastici, i manuali di
magia e i dogmi cristiani.
A quattro secoli dalla sua morte demitizzare la sua figura e riumanizzarla nelle sue
intemperanze e intuizioni, errori e grandezza, debolezze e slanci, ci dà la possibilità
di rileggere alcune delle sue opere con spirito sgombro da pregiudizi e di goderle per
ciò che le rende ancora fruibili. C'è una pluralità di registri nel pensiero del nolano
che alimenta oggi gli studi bruniani più seri e che merita di essere messa in luce,
abbandonando la "Bruno-mania" di stampo ottocentesco, fatta di superficialità e
di retorica.
Sul rogo acceso a Campo de' Fiori, sui tormenti, che
giudichiamo oggi scarsamente cristiani, inflitti al Bruno nei sette anni della prigionia
romana, sul lungo processo che lo vide impenitente e in aperto atteggiamento di sfida,
credo che ormai sia sufficiente una veloce puntualizzazione. Il processo fu condotto in
stretta legalità, senza acredine, ma nei modi rispondenti agli usi dei tempi. Il Bruno da
parte sua fu, pur tra arrendevolezze e rifiuti, dogmatico e intransigente quanto i suoi
accusatori, estroso e a volte sprezzante, litigioso e volgare. Usatissima poi era ai suoi tempi la pena di morte (anche per piccoli furti), esecratissima
era ritenuta l'eresia, non solo dal punto di vista religioso ma anche sociale e
giuridico. I temi del contendere furono teologici, quali la Trinità,
l'Incarnazione, la vita ultraterrena, salvo qualche teoria pseudoteologica (il moto
terrestre): ciò rendeva la Chiesa abilitata a giudicare l'apostata.
E che di eresia e apostasia si trattasse appare evidente non
soltanto seguendo gli atti del processo, le censure degli inquisitori e le risposte
ambigue del Bruno, ma anche leggendo le sue opere: negata l'immortalità individuale
dell'anima umana, ridotta la "fides" a "credulitas", dissolto il dogma
trinitario, negata la divinità di Cristo, la verginità di Maria, il sacramento
dell'Eucaristia. Non si trattava di colpire la scienza, ma di perseguire eterodossie
formali e gravi infrazioni disciplinari. Non fu un confronto
tra il mondo dell'autorità intollerante e quello della libertà conculcata - che
porterebbe a una concezione astratta delle vicende umane -, ma,
anche a volerlo giudicare con spirito laico, solo un episodio doloroso di quel conflitto
di idee che, con diverse modalità, si ripete inesauribile nella storia dell'uomo e
continua a fare le sue vittime.
Ma la Chiesa cattolica non dovrebbe sentire di avere comunque
un debito nei riguardi del Bruno? Se con questa domanda si intende
sollecitare, a quattro secoli di distanza, un mea culpa che sottintenda una riabilitazione
del pensatore nolano, ciò non sembra possibile. La filosofia del Bruno, come sarà quella
di Spinoza e di Hegel, ma con in più qualche puntata
sarcastica e sprezzante, non è conciliabile col pensiero cristiano. Auspicabile invece è
la comprensione del caso umano e l'affermazione di una coscienza nuova nei rapporti tra
gli uomini. Le posizioni odierne della Chiesa, che la vedono in prima linea nella difesa
dei diritti dell'uomo, sono molto lontane da quelle tenute in passato. Questa nuova
coscienza deve tradursi non tanto in rammarico, pur doveroso, per il numero di eretici dovunque processati in altri secoli e con altre
mentalità, quanto nell'impegno a ribadire oggi che inquisizioni e condanne offendono la
dignità dell'uomo, non sono in armonia col Vangelo e non favoriscono l'avvento del Regno
di Dio.