Torna a Scuola

Appunti sintetici ad uso interno

LEZIONE II/III/IV – FEBBRAIO - MARZO 2004

ANSELMO D’AOSTA

Anselmo d'Aosta

Credere per comprendere

Monaco, abate, vescovo, filosofo e santo: Anselmo d'Aosta fu uno splendido esempio di connubio tra fede e ragione. Celeberrima la sua prova dell'esistenza di Dio. Lottò per la libertà della Chiesa e pagò con l'esilio.

Vescovo, Dottore della Chiesa e Santo, Anselmo d'Aosta (la città nella quale venne alla luce nei 1033 o, forse, l'anno seguente) o di Canterbury (la diocesi di cui fu arcivescovo a partire dal 1093), si staglia come una figura di primissimo piano della filosofia, della teologia e della santità di ogni tempo.

La svolta fondamentale della vita di Anselmo coincide con il suo ingresso nella celebre abbazia benedettina di Bec, in Normandia: gli anni che vi trascorrerà, caratterizzati dallo studio e dalla preghiera, saranno particolarmente fecondi e faranno emergere in lui quelle straordinarie doti intellettuali e morali che lo imporranno come il più grande maestro dei suoi tempi, senza peraltro impedirgli di governare e amministrare con eccezionale accortezza il monastero del quale dal 1079 era diventato abate.

In effetti, fin dalla sua prima opera, il celebre Monologion ("Soliloquio"), Anselmo dichiara l'intenzione di voler parlare di Dio non facendo riferimento alla Sacra Scrittura, ma basandosi sul linguaggio comune; e ancora, nel Proslogion ("Colloquio"), l'opera nella quale è contenuta la celeberrima prova ontologica dell'esistenza di Dio, Anselmo esprime con chiarezza la sua impostazione metodologica nei termini seguenti: "Io non tento, Signore, di sprofondarmi nei tuoi misteri perché la mia intelligenza non è adeguata, ma desidero capire un poco della tua verità che il mio cuore già crede e ama. Io non cerco di comprenderti per credere, ma credo per poterti comprendere".

Il programma anselmiano è ben definito: chiarire mediante la ragione ciò che si possiede con la fede, ovvero - come gli avevano chiesto i monaci stessi - non imporre la verità rivelata, ma, per quanto possibile, renderla accessibile attraverso il ragionamento. In ciò, Anselmo palesa una salda fiducia nelle capacità razionali dell'uomo: di qui scaturisce la sua convinzione che la fede debba cercare l'intelligenza (fides quaerens intellectum), per trovare in essa una sicura alleata in grado di gettare luce sui misteri della rivelazione e aiutare così il credente ad avvicinarsi sempre più convintamene alla verità.

Ma se per un verso la fede deve cercare ausilio e conferma nella ragione e nelle sue argomentazioni, per un altro - come sì è accennato poco sopra, riportando le parole del Santo Dottore - la ragione stessa non può che muoversi nel solco tracciato dalla fede, pena il suo smarrirsi e inaridirsi: sarà la famosa formula credo ut intelligam ("credo per comprendere") a sintetizzare mirabilmente e con convinzione e a indicare la volontà della fede rispetto allo sforzo razionale. Come è facile notare, al centro della grande lezione anselmiana sta la certezza che esista un accordo perfetto e fecondo tra fede e ragione: la prima rappresenta l'indispensabile punto di partenza di qualunque speculazione, la seconda costituisce lo strumento principe per sostenere e corroborare ciò che si possiede con la fede.

Ha scritto a questo riguardo Claudio Leonardi: "Anselmo costruisce un sistema teologico in cui la tradizione patristica, in particolare agostiniana, viene accolta pienamente, ma viene anche integrata dalla dialettica: in tal modo egli é in grado di apprezzare una teologia legata ai simboli e alle figure dell'allegoria, insieme a una teologia legata alle argomentazioni logiche. Il suo intellectus fidei è una dimensione conoscitiva complessa, ma chiaramente ancorata ai due termini che la esprimono: intelletto e fede. È questa la grande unità metodologica di Anselmo".

 

Ricorda:

"Nella teologia scolastica il ruolo della ragione filosoficamente educata diventa ancora più cospicuo sotto la spinta dell'interpretazione anselmiana dell’intellectus fidei. Per il santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede non è competitiva con la ricerca propria della ragione. Questa, infatti, non è chiamata a esprimere un giudizio sui contenuti della fede; ne sarebbe incapace, perché a ciò non idonea. Suo compito, piuttosto, è quello di saper trovare un senso, di scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti di fede. Sant'Anselmo sottolinea il fatto che l'intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama, più ama, più desidera conoscere". (Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Fides et ratio, n. 42).

 

Le prove razionali dell'esistenza di Dio

Il Monologion

Anselmo elabora una prima serie di prove nell'opera che si intitola Monologion. Il tratto comune di queste prove è l'esistenza di una gerarchia di perfezioni, che la ragione coglie nella realtà del mondo sensibile. Una pianta è più perfetta di una pietra, un atto di coraggio lo è più di un atto di viltà.

1.Ora, in base a che cosa possiamo giudicare una cosa più perfetta di un'altra? Dove desumiamo il criterio che ci permette di operare quella che è una inevitabile, anzi essenziale, componente del nostro modo di conoscere, ossia il paragonare le diverse cose?

Se possiamo giudicare del più e del meno, argomenta A., è perché abbiamo presente qualcosa che sia massimo, cioè insuperabile in quell'ordine. Se esiste un più o meno buono, un più o meno giusto, è perché esiste un massimamente buono, un massimamente giusto. Cioè qualcosa che sia buono e giusto in modo assoluto e insuperabile.

2. Ma per poter essere assolutamente e insuperabilmente perfetto, qualcosa deve essere infinito: se non lo fosse, potrebbe essere superato da qualcosa.

3. Dunque esiste un massimamente perfetto, che è infinitamente perfetto: ed è appunto ciò che diciamo Dio, l'Essere Infinito e infinitamente perfetto.

 

Il Proslogion

 

Quella del Proslogion è una prova detta a priori.Si traduce spesso tale espressione come "prescindente dal dato sensibile", ma bisognerebbe purificare tale spiegazione da un inquinante riferimento al kantismo:  non esiste un disprezzo o una diffidenza nei confronti del sensibile in quanto tale. Il mondo corporeo, sensibile è stato creato da Dio, e Dio ha visto "che era cosa buona". Prova a-priori quindi non significa una prova che escluda il sensibile, quanto una prova che si impernia sulle evidenze che si presentano (che ineriscono) allo spirito umano, sulle evidenze che è strutturalmente impossibile negare, e il cui valore non è smentibile da qualsivoglia esperienza. Comunque si giudichino le prove a-priori è bene non dimenticare perciò che il loro riferimento una concezione realistica della conoscenza: esse fanno appello non ad una ragione come "scatola chiusa", ma ad una ragione come aperta alla realtà, e nella fattispecie la realtà su cui la ragione fa leva è la realtà dello spirito, cioè la realtà del soggetto umano.

Richiamiamo le linee essenziali dell'argomento di S.Anselmo.

1. Vi è nello spirito umano, nello spirito di ogni uomo, un'idea, una conoscenza originaria e incancellabile, quella dell'Id quo maius cogitari nequit, Ciò di cui non si può pensare niente di più grande, cioè l'idea di Dio, la conoscenza di Dio.

Chi, come il suo avversario il monaco Gaunilone nel Liber pro insipiente, volesse negare questa presenza, secondo Anselmo, si contraddirebbe. Infatti come si può negare di avere l'idea di Dio, senza sapere ciò che si nega? Ma sapere ciò che si nega vuol dire precisamente avere l'idea di ciò che si nega, cioè avere l'idea di Dio, dell'Id quo maius cogitari nequit. Anche chi nega Dio, anche l'ateo, deve sapere chi è ciò che nega. Dunque tutti hanno tale idea, tale idea è strutturale ad ogni mente umana, ad ogni uomo.

2. Tale idea di Dio non ci dice semplicemente (ovviamente in modo imperfetto) che cos'è Dio, ma ci dice anche che Dio è. Ci attesta la Sua esistenza, al tempo stesso che ci dice qualcosa della sua essenza. Come un raggio di luce che entri in una stanza, ci dice sia qualcosa di che cos'è la luce, sia che la fonte della luce esiste.

Infatti l'id quo maius, l'Essere perfettissimo, per essere tale (per essere pensato) non può essere pensato come non esistente: deve infatti essere insuperabile (altrimenti non sarebbe perfettissimo, non sarebbe l'Id quo maius cogitari nequit); ma sarebbe superabile se fosse un Essere perfettissimo che avesse tutte le perfezioni, fuorché l'esistere; sarebbe superabile, cioè da un Essere perfettissimo, che oltre ad avere tutte le perfezioni (dell'essenza), avesse anche la perfezione di esistere. Detto in termini algebrici affermare che l'Id quo maius non esista sarebbe come dire: X+1>X (dove x=tutte le perfezioni essenziali, ossia la infinita bontà, la infinita conoscenza, la infinita conoscenza, etc.; e 1= la perfezione consistente nell'esistere); ma è impossibile che X+1>X, se abbiamo assunto che X è assolutamente massimo, è ciò che di più grande esiste, l'Id quo maius, il maximus. Dunque Dio esiste.

3. All’obiezione di Gaunilone, che osservava come allora potremmo dire di avere l'idea delle isole beate, e da tale idea trarre la conclusione, evidentemente infondata, che le isole beate esistono, Anselmo replicava che il caso dell'idea di Dio è assolutamente unico, e non ha paragone con alcuna altra idea. Solo dell'Essere perfettissimo si può dire che la sua esistenza è inclusa nell'essenza: per ogni "altro" ente ciò non vale.

[ La prova a-priori ha avuto successo anche presso filosofi come Cartesio, Leibniz ed Hegel, che si sono allontanati dalla weltanschaung cristiano-medioevale. Nondimeno tali pensatori hanno concepito anche in termini teoretici in modo diverso dai medioevali la prova ontologica: fondamentalmente la differenza sta nel fatto che mentre per questi ultimi l'idea di Dio era qualcosa di non oggettivabile, uno sfondo onniavvolgente che permea la conoscenza mentale senza poter essere afferrato in modo esaustivo, senza poter essere incapsulata in un concetto collocabile accanto ad altri, ma sovrastando ogni concetto, nei citati pensatori moderni l'idea di Dio viene ridotta ad una delle tante idee, su cui la ragione esercita un potere di comprensione e di manipolazione.]

Quanto appena ricordato va tenuto presente se si vuole avvicinarsi al significato che per i medioevali aveva la prova a-priori. Essa non significa un possesso conoscitivo dell'Infinito, né una affermazione di autosufficienza del pensiero nei confronti del mondo sensibile e dell'oggettività dei rapporti umani come veicolo essenziale per incontrare l'Infinito. Ci sembra piuttosto che la prova ontologica, per quanto possa suscitare dubbi e perplessità abbia il senso di evidenziare i seguenti punti:

1) la conoscenza umana non è dispersa frammentarietà di sensazioni e pensieri, fluttuanti nel vuoto, ma si riannoda attorno a un Centro, che non può essere che l'Infinito e l'Eterno;

[Ciò è agli antipodi del concetto di mente come teatro di cui avrebbe parlato Hume, agli antipodi cioè di una polverizzazione, di una disintegrazione della conoscenza umana in un caos di atomi conoscitivi.

Ma è anche qualcosa di più di quanto poteva ammettere Aristotele, che pure raccoglieva in unità gli aspetti conoscibili del "mondo esterno", riannodandoli attorno ai tanti centri, ai tanti nuclei delle sostanze: il filosofo greco infatti lasciava sullo sfondo l'unità del soggetto umano, che invece la presenza dell'idea di Dio, ovvero il suo essere immagine di Dio, fonda appieno.]

2) l'uomo, parallelamente, è proteso verso tale Realtà (lo stesso Tommaso d'Aquino, che pure rifiuta la prova ontologica nella sua valenza conoscitiva, le riconosce in qualche modo una valenza sul piano del desiderio);

3) tale protensione è appunto una molla verso una pienezza, che l'uomo non possiede di suo, escludendo perciò un possesso già attuato. In questo senso la dimostrabilità a-priori di Dio non va vista come esclusiva di un incontro storico, concreto, visibile; non va cioè vista come fattore di ripiegamento su di sé, di intimistico soggettivismo.

 

________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________

 

S.TOMMASO

LE CINQUE VIE

1) L'esistenza di Dio è dimostrata da Tommaso con cinque argomenti (le famose «quinque viae »), e cioè:

a) Argomentazione dal mosso al Primo Motore Immobile. - E' certo, e consta dall'esperienza sensibile, che alcune cose sono mosse in questo mondo. Ma tutto ciò che è mosso, è mosso da altri, perché ciò che è mosso è in potenza al movimento, e nulla passa da sé dalla potenza all'atto se non per opera di un movente o motore in atto. Or nella serie dei mossi e dei motori non si può risalire indietro all'infinito, bensì occorre fermarsi a un Primo Motore non mosso da altri, e questo è Dio. Se infatti si risalisse indietro all'infinito, il Primo Motore non si darebbe mai, e quindi nemmeno i motori intermedi e le cose da essi mosse, il che è contrario alla esperienza.

b) Argomentazione dal causato all'Incausato. - Negli enti sensibili esiste un ordine delle cause efficienti, per cui ogni ente, non potendo si fare da sé (in tal caso dovrebbe esistere prima di se stesso, il che è assurdo), richiama una sua causa efficiente. Ma  nella serie delle cause efficienti non si può risalire all'infinito, per lo stesso motivo addotto nell'argomentazione precedente (risalendo indietro all'infinito, la Causa efficiente prima non si darebbe mai e quindi nemmeno le cause efficienti intermedie e le cose da esse fatte). Bisogna quindi far capo ad una Causa efficiente prima, e questa è Dio.

c) Argomentazione dal possibile al Necessario. - Le cose che cadono nella nostra esperienza, in quanto nascono e periscono, potevano esistere e non esistere; ci fu quindi un momento in cui nulla esisteva. Se ciò è vero, ora niente dovrebbe esistere, perché nulla può creare se stesso dal nulla. Ma ciò è falso, perché esistono gli enti della nostra esperienza. Ciò vuol dire che essi sono sta posti all'essere da un ente che non era nella loro condizione, che cioè non era possibile, ma necessario. E questo è Dio.

d) Argomentazione dai gradi delle cose all'Ente Sommo. - Nel mondo della nostra esperienza esistono enti più o meno buoni veri, nobili, ecc., cioè esistono dei gradi tra gli enti. Ma il più o i meno sono detti di enti diversi, secondo che si avvicinano più t meno a qualcosa che è massimamente; esiste quindi un Ente ottimo, verissimo, ecc., in base al quale gli enti sono detti più o meno buoni, veri, ecc. Ma ciò che è il massimo in un genere è casa di tutti gli enti che appartengono a quel genere; esiste quindi un Ente che è causa a tutti gli enti della bontà, della verità, dell'essere e di ogni perfezione, e questo è Dio.

e) Argomentazione dall'ordine dell'universo al Supremo Ordinatore. - Nel mondo della nostra esperienza esistono enti privi di intelletto, i quali operano così da raggiungere un fine, che rappresenta 1'« optimum» per ciascuno di loro; è chiaro quindi che non operano a caso, ma intelligentemente. Ora, enti privi di intelligenza non possono tendere ad un fine, se non sono mossi da un Ente intelligente, come la saetta è mossa dal saettante. Esiste quindi un Ente intelligente, dal quale tutte le cose sono state ordinate ad un fine, e questo è Dio (S. Theol., I, q. 2, a. 3).

 

Si noti la netta superiorità speculativa del quintuplice procedimento tomistico rispetto all'unico contraddittorio procedimento addotto da Aristotele per dimostrare l'esistenza del Primo Motore, la tendenza verso Dio degli enti che lo amano a causa del «desiderio» della materia di passare dalle forme inferiori alle forme superiori.

 Stabilita l'esistenza di Dio con queste cinque argomentazioni, Tommaso ricava da esse gli attributi divini con una serie di passaggi deduttivi molto sottili, i quali si riallacciano idealmente attraverso i secoli alle indagini di Senofane e alle critiche di Platone nei primi libri della Repubblica contro le stravaganze dai miti poetici sulla natura degli dèi. Dio è Atto puro e quindi perfettissimo, immutabile, eterno, semplice, unico, ecc. (S. Theol., I, q. 3-26). Tommaso si sofferma in particolare sulla intelligenza e scienza divine, il punto di maggiore importanza, che rappresenta il versante che separa l'Aristotelismo pagano dall' Aristotelismo cristiano. Tutte le perfezioni - egli dice - che si trovano nelle creature preesistono in Dio in maniera più alta: di conseguenza, se la creatura umana conosce se stessa e gli enti altri da essa, anche Dio conoscerà e comprenderà se Stesso e gli enti altri da Lui, e con una conoscenza completa, intuitiva e non discorsiva, estesa a ciò che non è, al male, ai singolari, agli indefinibili, ai futuri contingenti (S. Theol., q. 14, a. 3-14). Cioè, Aristotele non si è accorto che, negando a Dio la conoscenza degli enti altri da Lui, ha reso il suo Primo Motore inferiore all'uomo, in potenza a ciò che non conosce, e quindi non più Atto puro.

Passando alla dimostrazione della creazione delle cose da par te di Dio, Tommaso la deduce dalla natura di Dio come l'Assoluto, cioè come l'Ente per sé sussistente. L'Assoluto non può essere che unico; quindi tutti gli altri enti oltre Dio sono enti per partecipazione, e quindi sono causati da Dio, perché - come si è visto nella quarta via - ciò che è il massimo in un genere è causa di tutti gli enti che appartengono a quel genere. Quindi tutti gli enti finiti sono stati creati da Dio.

Per distinguere nettamente Dio dalle creature Tommaso, soprattutto allo scopo di ovviare ad ogni pericolo di panteismo, introduce nell'aristotelismo la distinzione, già scoperta da Al-Kindi, come diremo" tra essenza (quod est) ed esistenza (quo est) negli enti creati e all'opposto l'identità dell'essenza con l'esistenza in Dio. Dio come l'Assoluto non può non essere pensato esistente (S. Anselmo): all'Assoluto infatti, in quanto tale, l'esistenza appartiene di diritto, ché altrimenti non sarebbe l'Assoluto.

 

Approfondiamo le argomentazioni di tre delle “5 vie” di S. Tommaso

 

L’ESISTENZA DI DIO (LE CINQUE VIE DI S. TOMMASO)

 

I. PROVA METAFISICA

 

Prove metafisiche sono quelle che poggiano sui primi ed universali principi della ragione, che hanno quindi un valore assoluto e causano nella mente un'adesione perfetta che si dice appunto  certezza metafisica. Gli argomenti metafisici, se ben compresi,  costituiscono sempre la  dimostrazione più bella e più solida dell'esistenza di Dio: perciò cominciamo da questi.                            

Essi, solitamente, vengono proposti in varie forme; celebri sono le cinque vie di S. Tommaso (Summa theol., I, q. 2, a. 3) con le quali si prova l'esistenza di Dio, come primo motore immobile, prima causa incausata, essere necessario, essere perfettissimo, sapientissimo ordinatore. Non potendo svilupparle tutte, in questa lezione fisseremo il nostro sguardo sulla terza via, la più facile ed evidente, che brevemente si può riassumere nel seguente argomento.

1. L’argomento.

L'universo è un complesso di esseri contingenti. Ma l'essere contingente esige l'Essere necessario come sua prima causa. Dunque oltre l'universo esiste un Essere necessario, creatore dell'universo, che è appunto Dio.
Esaminiamo le singole proposizioni della nostra argomentazione:

1) L'universo è un complesso di esseri contingenti.

Noi scorgiamo nell'universo un'infinita quantità di cose: noi stessi, gli altri uomini, animali, piante, minerali di tante specie, composti di molecole, atomi, ecc., che costituiscono la terra, il sole, gli astri, e così via. Tutti questi esseri non sono esseri necessari, perché essere necessario è quello che necessariamente è (quindi non può non essere) e che necessariamente è quello che è (quindi non può mutarsi). Invece tutte le cose che compongono l'universo sono mutabili e di fatto continuamente mutano. I viventi nascono, crescono e muoiono; e durante la loro vita si evolvono e si modificano sempre. Le sostanze inorganiche anch'esse sono soggette a continue trasformazioni. Inoltre a nessuna delle cose che costituiscono il mondo compete l'essere in modo che le ripugni intrinsecamente il non essere. Dunque tutti gli esseri che costituiscono l'universo sono contingenti, cioè possono essere e non essere e, quando sono, possono modificare accidentalmente il loro modo di essere.

2) Ma l'essere contingente esige l'Essere necessario come sua prima causa.

Infatti essere contingente, come abbiamo detto, significa che può essere e non essere, essere in un modo ovvero in un altro; il che vuol dire che quella cosa non è di natura sua determinata ad essere, ma di natura sua è indifferente all'essere e al non essere. Per esempio alla natura dell'uomo appartiene la razionalità (per cui un uomo senza razionalità è assurdo) ma non appartiene alla natura dell'uomo la bontà, per cui può essere buono e cattivo, e molto meno appartiene alla natura dell'uomo l'esistenza, per cui ogni uomo è, ma non era e non sarà; vive, ma è nato e morirà.
Se per sua natura l'essere contingente è indifferente ad essere e a non essere, vuol dire che non ha in sé la ragione sufficiente della propria esistenza, cioè non ha in sé quello che è necessario e sufficiente per poter esistere; ed allora è chiaro che questa sua esistenza deve averla ricevuta da un altro, cioè ci deve essere un altro ente che sia la ragione sufficiente della sua esistenza, la causa che l'abbia determinato ad essere. Questa causa che l'ha determinato ad essere o è un essere contingente o è un essere necessario. Se è contingente, neppure esso ha in sé la ragione sufficiente della propria esistenza, che perciò deve essere causata da un altro essere; e riguardo a questo si riproduce la medesima questione. Orbene non si può procedere all'infinito nella serie delle cause essenzialmente subordinate, altrimenti si avrebbe una serie infinita di anelli che stanno sospesi senza un fulcro di attacco, si avrebbe, cioè, una serie infinita di specchi che riflettono la luce senza un corpo per sé lucente, una somma di zeri che, per quanto prolungata, non può dare l'unità.
3) Dunque ci deve essere un essere necessario, che abbia in sé la ragione sufficiente del proprio essere e che sia ragione sufficiente di tutti gli altri, causa prima dell'universo. Ed allora è evidente la conclusione: oltre l'universo esiste un Essere necessario, creatore dell'universo, che è appunto DIO.

2. Il principio di causalità.

L'argomento, come si vede, è fondato sopra il principio di causalità, che si può e si suole esprimere in vari modi; il più esatto è: ogni ente contingente è causato.
Questo principio, salvo rare eccezioni, era comunemente ammesso sia nella filosofia antica (Platone, Aristotele), sia nel Medio Evo (S. Tommaso) come principio di per sé evidente, che non esigeva lunghe dimostrazioni per essere giustificato. Nella filosofia moderna, quando cominciarono a sorgere i pregiudizi critici sul valore delle nostre cognizioni, si cominciò a negare valore oggettivo anche al principio di causalità; lo si disse frutto dell'abitudine di associare i fenomeni successivi (Hume), ovvero lo si considerò come giudizio sintetico a priori (Kant), e quindi legge della mente che non può pensare in altro modo, ma il cui valore non oltrepassa il campo fenomenico.

II. PROVA FISICA

 

Uno dei fenomeni che più colpisce chi si pone a contemplare lo spettacolo della natura è l'ordine che vi riluce, ordine meraviglioso e costante. Di qui la mente arguta della gente semplice trae uno degli argomenti più profondi per risalire a Dio, argomento che lo scienziato analizza e perfeziona dandogli forma di rigorosa dimostrazione scientifica. Così provarono l'esistenza di Dio Platone, Aristotele, Cicerone fra i pagani; così nei tempi cristiani usarono questo argomento i primi apologeti, i Padri lo ampliarono eloquentemente e S. Tommaso lo espose in forma nitida e rigorosa nella sua Summa, così come tutta la sua scuola lo espose e lo difese. Anche i razionalisti ne sentirono la forza. Voltaire diceva: «L'universo mi imbarazza e io non posso sognare che questo orologio esista e non abbia orologiaio».

L'argomento si può brevemente compendiare nel seguente modo: nella natura esiste un mirabile ordine teleologico. Dunque necessariamente esiste una suprema intelligenza ordinatrice. Ma questa intelligenza ordinatrice deve essere anche creatrice dell'universo. Dunque esiste un Dio creatore e ordinatore dell'universo.

Esaminiamo ora le singole affermazioni.

1. L’ordine cosmico.

 Esso ci appare chiaramente considerando la scala degli esseri dai più semplici ai più complessi.

1) Regno vegetale. Un piccolo seme: uno dei tanti di quei minuscoli granellini sparsi nella natura: quale mirabile ordine nella sua struttura, nel suo progressivo sviluppo, nella formazione della pianta! Per es., la disposizione delle foglie lungo il picciolo secondo un ciclo determinato in modo da ricoprirsi il meno possibile e che tutte possano ricevere la maggior quantità di luce.  «Se voi mi volete salvare da una miserabile morte –  scriveva Darwin ad un botanico –  ditemi perché l'angolo fogliare è sempre di 1/2, 1/3, 2/5, 3/8 (...) e non mai diverso. Basterebbe questo solo fatto per fare impazzire l'uomo più tranquillo».  Disposizioni non meno complesse e sapienti si trovano nei fiori per favorire l'impollinazione di piante diverse e impedire l'autofecondazione, che sarebbe nociva alla specie per il manifestarsi di caratteri difettosi; disposizioni ancor più mirabili per assicurare, ottenuta la fecondazione e la formazione dei semi, la disseminazione in modo che non cadano tutti in un terreno sterile e ombroso, ma siano trasportati in terreno adatto e sia assicurata la sopravvivenza della specie.

2) Regno animale, dai più minuscoli viventi ai più complessi ed evoluti. La struttura dell'organismo, i vari organi della nutrizione, della riproduzione, del movimento, della sensazione; la loro adattabilità secondo l'ambiente e le circostanze o nei casi di malattia; tutto ciò presenta un evidente finalismo. I mirabili istinti in virtù dei quali gli animali agiscono e operano con tanta sicurezza, precisione e perfezione di mezzi, risolvendo con la massima semplicità i problemi più difficili: le formiche (organizzazione del lavoro), le api (la struttura dell'alveare), i ragni (l'ingegnosa costruzione della tela), gli uccelli (il nido, la cura della prole), e così via.

3) L’uomo. Il corpo e le sue parti: sono milioni di cellule differenziate fra loro, riunite in tessuti di­versi che formano i vari organi, ciascuno dei quali sapientemente costituito per la sua funzione che eser­cita spontaneamente, naturalmente, senza che ce ne accorgiamo. La mirabile struttura dei singoli organi; l'orecchio, l'occhio (Newton diceva che chi ha fatto l'occhio dell'uomo doveva conoscere bene le leggi del­l'ottica), ecc. Il grande anatomista americano Alexis Carrell, in un libro che ebbe grande successo, L'uomo, questo sconosciuto, cita molti esempi di tali meraviglie nel corpo umano e conclude: «L'esistenza di una finalità nell'organismo è innegabile: tutto avviene come se ogni organo conoscesse i bisogni presenti e futuri dell'insieme e si modificasse secondo questi».

4) La terra. La sua posizione rispetto al sole (per una temperatura conveniente alla vita); il duplice moto di rotazione e di traslazione (per l'avvicendarsi dei giorni e delle notti, per l'alternarsi delle stagioni a vantaggio dei viventi); le terre glaciali e la zona torrida (per i dislivelli di temperatura necessari per le correnti benefiche dell'aria e degli oceani), ecc.

5) L’universo. Gli astri: il loro numero, la loro grandezza, la loro distanza, i movimenti che compiono, ecc.

I vari regni della natura sono l'uno all'altro subordinati armonicamente per il bene universale. Ordine e subordinazione hanno sempre colpito i più geniali osservatori. Già Aristotele scriveva:  «Tutto nell'universo è sottoposto a un determinato ordine (...) Le cose non vi sono disposte in modo che una non abbia alcun rapporto con l'altra, che anzi tutte sono in relazione fra loro, concorrono con perfetta regolarità ad un unico risultato. Si verifica nell'universo quello che vediamo in una casa ben governata».