Appunti sintetici ad
uso interno
LEZIONE II/III/IV
FEBBRAIO - MARZO 2005
Anselmo d'Aosta
Credere per comprendere
Monaco, abate, vescovo,
filosofo e santo: Anselmo d'Aosta fu uno splendido esempio di connubio tra fede e ragione.
Celeberrima la sua prova dell'esistenza di Dio. Lottò per la libertà della Chiesa e
pagò con l'esilio.
Vescovo, Dottore della
Chiesa e Santo, Anselmo d'Aosta (la città nella quale venne alla luce nei 1033 o, forse,
l'anno seguente) o di Canterbury (la diocesi di cui fu arcivescovo a partire dal 1093), si
staglia come una figura di primissimo piano della filosofia, della teologia e della
santità di ogni tempo.
La svolta fondamentale
della vita di Anselmo coincide con il suo ingresso nella celebre abbazia benedettina di
Bec, in Normandia: gli anni che vi trascorrerà, caratterizzati dallo studio e dalla
preghiera, saranno particolarmente fecondi e faranno emergere in lui quelle straordinarie
doti intellettuali e morali che lo imporranno come il più grande maestro dei suoi tempi,
senza peraltro impedirgli di governare e amministrare con eccezionale accortezza il
monastero del quale dal 1079 era diventato abate.
In effetti, fin dalla sua
prima opera, il celebre Monologion ("Soliloquio"), Anselmo dichiara
l'intenzione di voler parlare di Dio non facendo
riferimento alla Sacra Scrittura, ma basandosi sul linguaggio comune; e ancora, nel Proslogion
("Colloquio"), l'opera nella quale è contenuta la celeberrima prova
ontologica dell'esistenza di Dio, Anselmo esprime con chiarezza la sua impostazione
metodologica nei termini seguenti: "Io non tento, Signore, di sprofondarmi nei tuoi
misteri perché la mia intelligenza non è adeguata, ma desidero capire un poco della tua
verità che il mio cuore già crede e ama. Io non cerco di comprenderti per
credere, ma credo per poterti comprendere".
Il programma anselmiano
è ben definito: chiarire mediante la ragione ciò che si possiede con la fede,
ovvero - come gli avevano chiesto i monaci stessi - non imporre la verità rivelata,
ma, per quanto possibile, renderla accessibile attraverso il ragionamento. In ciò,
Anselmo palesa una salda fiducia nelle capacità razionali dell'uomo: di qui scaturisce la
sua convinzione che la fede debba cercare l'intelligenza (fides quaerens intellectum),
per trovare in essa una sicura alleata in grado di gettare luce sui misteri della
rivelazione e aiutare così il credente ad avvicinarsi sempre più convintamene alla
verità.
Ma se per un verso la
fede deve cercare ausilio e conferma nella ragione e nelle sue argomentazioni, per un
altro - come sì è accennato poco sopra, riportando le parole del Santo Dottore - la
ragione stessa non può che muoversi nel solco tracciato dalla fede, pena il suo smarrirsi
e inaridirsi: sarà la famosa formula credo ut intelligam ("credo per
comprendere") a sintetizzare mirabilmente e con convinzione e a indicare la volontà
della fede rispetto allo sforzo razionale. Come è facile notare, al centro della grande
lezione anselmiana sta la certezza che esista un accordo perfetto e fecondo tra fede e
ragione: la prima rappresenta l'indispensabile punto di partenza di qualunque
speculazione, la seconda costituisce lo strumento principe per sostenere e corroborare
ciò che si possiede con la fede.
Ha scritto a questo
riguardo Claudio Leonardi: "Anselmo costruisce un sistema teologico in cui la
tradizione patristica, in particolare agostiniana, viene accolta pienamente, ma viene
anche integrata dalla dialettica: in tal modo egli é in grado di apprezzare una teologia
legata ai simboli e alle figure dell'allegoria, insieme a una teologia legata alle
argomentazioni logiche. Il suo intellectus fidei è una dimensione conoscitiva
complessa, ma chiaramente ancorata ai due termini che la esprimono: intelletto e fede. È
questa la grande unità metodologica di Anselmo".
Ricorda:
"Nella teologia
scolastica il ruolo della ragione filosoficamente educata diventa ancora più cospicuo
sotto la spinta dell'interpretazione anselmiana dellintellectus fidei. Per il
santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede non è competitiva con la ricerca
propria della ragione. Questa, infatti, non è chiamata a esprimere un giudizio sui
contenuti della fede; ne sarebbe incapace, perché a ciò non idonea. Suo compito,
piuttosto, è quello di saper trovare un senso, di scoprire delle ragioni che permettano a
tutti di raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti di fede. Sant'Anselmo
sottolinea il fatto che l'intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama, più ama, più
desidera conoscere". (Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Fides et ratio, n.
42).
Le prove razionali dell'esistenza di
Dio
Anselmo
elabora una prima serie di prove nell'opera che si intitola Monologion. Il tratto
comune di queste prove è l'esistenza di una gerarchia di perfezioni, che la
ragione coglie nella realtà del mondo sensibile. Una pianta è più perfetta di una
pietra, un atto di coraggio lo è più di un atto di viltà.
1.Ora,
in base a che cosa possiamo giudicare una cosa più perfetta di un'altra? Dove desumiamo
il criterio che ci permette di operare quella che è una inevitabile, anzi essenziale,
componente del nostro modo di conoscere, ossia il paragonare le diverse cose?
Se
possiamo giudicare del più e del meno, argomenta A., è perché abbiamo presente qualcosa
che sia massimo, cioè insuperabile in quell'ordine. Se esiste un più o meno
buono, un più o meno giusto, è perché esiste un massimamente buono, un massimamente
giusto. Cioè qualcosa che sia buono e giusto in modo assoluto e insuperabile.
2.
Ma per poter essere assolutamente e insuperabilmente perfetto, qualcosa deve essere
infinito: se non lo fosse, potrebbe essere superato da qualcosa.
3.
Dunque esiste un massimamente perfetto, che è infinitamente perfetto: ed è appunto ciò
che diciamo Dio, l'Essere Infinito e infinitamente perfetto.
Quella
del Proslogion è una prova detta a priori.Si traduce spesso tale espressione come
"prescindente dal dato sensibile", ma bisognerebbe purificare tale spiegazione
da un inquinante riferimento al kantismo: non
esiste un disprezzo o una diffidenza nei confronti del sensibile in quanto tale. Il mondo
corporeo, sensibile è stato creato da Dio, e Dio ha visto "che era cosa buona".
Prova a-priori quindi non significa una prova che escluda il sensibile, quanto una prova
che si impernia sulle evidenze che si presentano (che ineriscono) allo spirito umano,
sulle evidenze che è strutturalmente impossibile negare, e il cui valore non è
smentibile da qualsivoglia esperienza. Comunque si giudichino le prove a-priori è bene
non dimenticare perciò che il loro riferimento una concezione realistica della
conoscenza: esse fanno appello non ad una ragione come "scatola chiusa", ma
ad una ragione come aperta alla realtà, e nella fattispecie la realtà su cui la ragione
fa leva è la realtà dello spirito, cioè la realtà del soggetto umano.
Richiamiamo
le linee essenziali dell'argomento di S.Anselmo.
1.
Vi è nello spirito umano, nello spirito di ogni uomo, un'idea, una conoscenza originaria
e incancellabile, quella dell'Id quo maius cogitari nequit, Ciò di cui non si può
pensare niente di più grande, cioè l'idea di Dio, la conoscenza di Dio.
Chi, come il suo
avversario il monaco Gaunilone nel Liber pro insipiente, volesse negare questa
presenza, secondo Anselmo, si contraddirebbe. Infatti come si può negare di avere l'idea
di Dio, senza sapere ciò che si nega? Ma sapere ciò che si nega vuol dire precisamente
avere l'idea di ciò che si nega, cioè avere l'idea di Dio, dell'Id quo maius cogitari
nequit. Anche chi nega Dio, anche l'ateo, deve sapere chi è ciò che nega. Dunque tutti
hanno tale idea, tale idea è strutturale ad ogni mente umana, ad ogni uomo.
2.
Tale idea di Dio non ci dice semplicemente (ovviamente in modo imperfetto) che cos'è Dio,
ma ci dice anche che Dio è. Ci attesta la Sua esistenza, al tempo stesso
che ci dice qualcosa della sua essenza. Come un raggio di luce che entri in una stanza, ci
dice sia qualcosa di che cos'è la luce, sia che la fonte della luce esiste.
Infatti l'id quo maius,
l'Essere perfettissimo, per essere tale (per essere pensato) non può essere pensato come
non esistente: deve infatti essere insuperabile (altrimenti non sarebbe perfettissimo, non
sarebbe l'Id quo maius cogitari nequit); ma sarebbe superabile se fosse un Essere
perfettissimo che avesse tutte le perfezioni, fuorché l'esistere; sarebbe superabile,
cioè da un Essere perfettissimo, che oltre ad avere tutte le perfezioni (dell'essenza),
avesse anche la perfezione di esistere. Detto in termini algebrici affermare che l'Id quo
maius non esista sarebbe come dire: X+1>X (dove x=tutte le perfezioni essenziali, ossia
la infinita bontà, la infinita conoscenza, la infinita conoscenza, etc.; e 1= la
perfezione consistente nell'esistere); ma è impossibile che X+1>X, se abbiamo assunto
che X è assolutamente massimo, è ciò che di più grande esiste, l'Id quo maius, il
maximus. Dunque Dio esiste.
3.
Allobiezione di Gaunilone, che osservava come allora potremmo dire di avere l'idea
delle isole beate, e da tale idea trarre la conclusione, evidentemente infondata, che le
isole beate esistono, Anselmo replicava che il caso dell'idea di Dio è assolutamente
unico, e non ha paragone con alcuna altra idea. Solo dell'Essere perfettissimo si può
dire che la sua esistenza è inclusa nell'essenza: per ogni "altro" ente ciò
non vale.
[
La prova a-priori ha avuto successo anche presso filosofi come Cartesio, Leibniz ed Hegel,
che si sono allontanati dalla weltanschaung cristiano-medioevale. Nondimeno tali pensatori
hanno concepito anche in termini teoretici in modo diverso dai medioevali la prova
ontologica: fondamentalmente la differenza sta nel fatto che mentre per questi ultimi
l'idea di Dio era qualcosa di non oggettivabile, uno sfondo onniavvolgente che permea la
conoscenza mentale senza poter essere afferrato in modo esaustivo, senza poter essere
incapsulata in un concetto collocabile accanto ad altri, ma sovrastando ogni
concetto, nei citati pensatori moderni l'idea di Dio viene ridotta ad una delle tante
idee, su cui la ragione esercita un potere di comprensione e di manipolazione.]
Quanto
appena ricordato va tenuto presente se si vuole avvicinarsi al significato che per i
medioevali aveva la prova a-priori. Essa non significa un possesso conoscitivo
dell'Infinito, né una affermazione di autosufficienza del pensiero nei confronti del
mondo sensibile e dell'oggettività dei rapporti umani come veicolo essenziale per
incontrare l'Infinito. Ci sembra piuttosto che la prova ontologica, per quanto possa
suscitare dubbi e perplessità abbia il senso di evidenziare i seguenti punti:
1)
la conoscenza umana non è dispersa frammentarietà di sensazioni e pensieri, fluttuanti
nel vuoto, ma si riannoda attorno a un Centro, che non può essere che l'Infinito e
l'Eterno;
[Ciò è agli antipodi
del concetto di mente come teatro di cui avrebbe parlato Hume, agli antipodi cioè di una
polverizzazione, di una disintegrazione della conoscenza umana in un caos di atomi
conoscitivi.
Ma è anche qualcosa di
più di quanto poteva ammettere Aristotele, che pure raccoglieva in unità gli aspetti
conoscibili del "mondo esterno", riannodandoli attorno ai tanti centri, ai tanti
nuclei delle sostanze: il filosofo greco infatti lasciava sullo sfondo l'unità del
soggetto umano, che invece la presenza dell'idea di Dio, ovvero il suo essere immagine di
Dio, fonda appieno.]
2)
l'uomo, parallelamente, è proteso verso tale Realtà (lo stesso Tommaso d'Aquino, che
pure rifiuta la prova ontologica nella sua valenza conoscitiva, le riconosce in qualche
modo una valenza sul piano del desiderio);
3) tale protensione è
appunto una molla verso una pienezza, che l'uomo non possiede di suo, escludendo perciò
un possesso già attuato. In questo senso la dimostrabilità a-priori di Dio non va vista
come esclusiva di un incontro storico, concreto, visibile; non va cioè vista come fattore
di ripiegamento su di sé, di intimistico soggettivismo.