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Metafisica (1)

Introduzione

 

Oggi, in molti ambienti, il termine metafisica è assunto come equivalente a dottrina «dogmatica» in senso deteriore, dottrina che contiene affermazioni incontrollate e ingiustificate su realtà che sfuggono all'esperienza. E invece l'opera da cui deriva il termine, quella che per prima è stata chiamata così, e cioè la Metafisica di Aristotele, è una delle opere più ricche di problemi e di aporie che la storia della filosofia ci faccia conoscere. L'autore di una delle migliori edizioni critiche e di un eccellente commento della Metafisica di Aristotele afferma che « la Metafisica come complesso non esprime un sistema dogmatico, ma le avventure di uno spirito in cerca della verità >> Più precisamente: la Metafisica di Aristotele non procede deduttivamente (come, in genere, i trattati di metafisica dei secoli XVII e XVIII noti a Kant), con ordine geometrico, ma cerca quali siano le proposizioni implicite in ogni nostro discorso, quali siano le verità presupposte da ogni ricerca umana e, in questo senso, prime.

 

L'affermazione implicita in ogni altra, il presupposto di ogni ricerca è questo: c'è qualche cosa, aliquid est.

Questa affermazione è al di qua di ogni sistema filosofico, al di qua non solo di materialismo o spiritualismo - poiché spirito e  materia sono qualche cosa, ente.

La metafisica si domanda appunto che cosa implichi l'affermazione, presupposta da ogni altra, c'è qualche cosa: quali proprietà competano a ciò di cui si parla in quanto  ciò di cui si parla è qualche cosa; quali proprietà competano all'ente in quanto ente.

 

Se si tiene presente questo concetto della metafisica:

1) Si capisce che buona parte della metafisica dia l'impressione di non insegnare propriamente nulla di nuovo. L'impressione non è, in fondo, sbagliata, poiché si tratta non di scoprire verità prima affatto ignorate, ma di prender coscienza di ciò che è già implicito in ogni nostra affermazione, di ciò che in certo modo sapevamo già. Ma è assai importante sapere con chiarezza ciò che effettivamente si pensa.

2) Ci si rende conto che una metafisica implicita ce l'hanno tutti; che della metafisica non si può fare a meno. Ma c'è chi ha una metafisica solo implicita, c'è chi ha una metafisica inconsapevolmente - e avendola inconsapevolmente non si assume l'onere di giustificarla  e chi invece è metafisico confesso, se , mi si permette l'espressione scherzosa,  si propone di giustificare razionalmente le proprie affermazioni. Quale dei due sia più "dogmatico" lascio giudicare al lettore.

3) La metafisica, proprio perché è studio dell'ente in quanto ente, non può risolversi nelle scienze particolari, in quella che si chiama la scienza simpliciter poiché le scienze particolari studiano i vari tipi di realtà, i vari tipi di enti, quindi presuppongono anch'esse il concetto di essere e adoprano.infatti i principi riguardanti l'essere, come il principio di non-contraddizione, del quale parleremo più avanti. Come non si può dire che la matematica si risolve nella chimica, nella biologia e nelle altre scienze, proprio perché queste la presuppongono e la adoperano nei loro calcoli e nelle loro misure, così, analogamente, non si può dire che la metafisica si risolva nelle scienze particolari.

 

Già in Aristotele quella che egli chiama filosofia prima, e che noi oggi chiamiamo metafisica, si presenta ora come lo studio dell'ente in quanto ente, ossia dell'essere come aspetto universalissimo di ogni realtà, ora come lo studio dell'Essere che è fondamento di ogni realtà, dell'Essere primo. In Aristotele le due concezioni rispondono probabilmente a due momenti successivi della sua speculazione; ma nella scolastica le due concezioni si fondono in base a questa considerazione: l'essere non implica in sé è la materia, può essere pensato prescindendo dalla materia; quando dunque si sia dimostrata l'esistenza di enti immateriali. e si sia dimostrato che l'Essere primo è immateriale, se ne conclude che l'essere non solo può esser pensato senza materia, ma può realizzarsi anche senza materia. L'oggetto della metafisica è dunque l'essere in quanto prescinde dalla materia (immateriale praecisive) o in quanto esclude la materia (immateriale negative). A cominciare dal secolo XVII si distinsero addirittura due parti della metafisica, una metafisica generale o ontologia che tratta dell'essere in generale e una metafisica speciale che tratta di Dio (teologia naturale), dell'anima come realtà spirituale (psicologia razionale) e del mondo corporeo considerato come essere (cosmologia).

 

Ma quello che in filosofia (ossia con la sola ragione) si può dire di Dio dipende da ciò che si può dire dell'essere. In altre parole: non abbiamo un concetto proprio dell'essere divino, ma possiamo dirne solo quello che è necessario per spiegare l'essere di ciò che cade sotto la nostra esperienza: la teologia naturale è quindi la conclusione dell'ontologia. Ecco perché, diversamente da quanto facemmo nella prima edizione di questi Elementi, non abbiamo separato l'ontologia dalla teologia naturale. Come la seconda dipenda dalla prima si vedrà in ciò che segue.

 

L'ESSERE COME OGGETTO DELLA METAFISICA

 

Una prima difficoltà contro la metafisica potrebbe venire proprio dall'universalità del suo oggetto. Se infatti ogni conoscenza ed ogni scienza ha a che fare con qualche cosa, con enti, e quindi presuppone la nozione di essere, non sembra che occorra una scienza speciale, la metafisica, per studiarlo.

 

Rispondo: Bisogna tener presente che l'oggetto della metafisica è l'ente in quanto ente.

 

Altro è conoscere un inondo di cose sapendo vagamente che esse sono qualche cosa, avendo nello sfondo, per dir così, la nozione di essere, come avviene sempre nell'esperienza quotidiana e nella conoscenza scientifica, altro è fissare lo sguardo proprio sull'aspetto di essere; considerare non questo qualche cosa di colorato, duro, freddo, ecc,, ma semplicemente il fatto che questo è un qualche cosa, un ens, e vedere quali sono le sue proprietà (non in quanto colorato, duro o molle, ecc., ma in quanto «qualche cosa », «ente »).

Ora per far questo bisogna in qualche modo andar contro corrente, perché la tendenza nostra è invece di fermarci ai caratteri particolari e lasciare l'essere soltanto nello sfondo (nello sfondo ci deve essere sempre, e, se non ci fosse sarebbe impossibile metterlo mai in evidenza).

 

E solo quando si considera l'ente in quanto ente si è nel terzo grado di astrazione, caratteristico della metafisica.

Fa osservare il Gaetano nel suo commento al De ente et essentia di S. Tommaso che, quando si parla dei tre gradi di astrazione, si tratta di abstractio,formalis e non di abstractio totalis. Ricordiamo che l'abstracti . o totalis è quella che caratterizza l'attività intellettiva e che ne segna l'inizio: l'attività intellettiva comincia con l'astrazione e precisamente con l'abstractio totalis, la quale consiste nel considerare un oggetto prescindendo dalle note individuanti, dal suo esser questo. Tale astrazione è un processo spontaneo dell'intelligenza umana, un processo comune a tutti gli uomini ed a tutte le conoscenze. Nell'abstraetio totatis l'oggetto considerato nella sua natura o essenza o quiddità (cioè nel suo essere quid) si presenta dapprima come indeterminatissimo (qualche cosa, ente) e sarà poi, col progresso della conoscenza, determinato. Si chiama totale perché abbraccia tutto l'oggetto sia pure indeterminatamente. L'abstractio formalis invece presuppone l'abstractio totalis ed in quel tutto indeterminatamente concepito considera una forma, un aspetto, prescindendo dal soggetto a cui quella forma inerisce. Così quando nel secondo grado di astrazione si considera la quantità, prescindendo dalle qualità del, corpo, si considera una forma, un aspetto del soggetto, p. es. la sfericità e le misure di una sfera di bronzo, prescindendo ` dagli altri caratteri della sfera di bronzo. Quando si è al terzo grado di astrazione, astrazione metafisica, si considera nell'oggetto soltanto l'aspetto per cui è ente, prescindendo dal soggetto in cui l'essere si realizza (vedremo poi che questo prescindere non può essere assoluto).

Dunque si può avere: 1) la nozione di essere soltanto nello sfondo, che fa da supporto ai caratteri sensibili che mi interessano (ens concretum quidditati sensibili); 2) la nozione di essere come la più universale, che si applica a tutte le cose ed esprime il tutto di ognuna, ma in modo indeterminatissimo; 3) la nozione di essere come di quell'aspetto, quella forma della realtà per cui precisamente le cose sono reali, sono qualche cosa.

 

Trascendentalità e analogia dell'essere

LA NOZIONE DI ESSERE

 Che cosa è l'essere ? Non se ne può certo dare una definizione per genere e differenza specifica, poiché l'essere sta a fondamento di tutte le nozioni generiche e specifiche, è « id in quo intellectus omnes conceptiones

 resolvit ».

            Possiamo dire che cosa è l'essere solo con espressioni sinonime:

id cui competit esse, id cuius actus est esse, sicut viventis vivere. In questo concetto troviamo già una polarità, per così dire, di essenza ed essere in atto: c'è il. ciò, l'id e c'è l'esse. L'essenza esprime <<ciò che la cosa è >> mentre l'essere in atto esprime «il fatto che una cosa è ». L'essenza risponde alla domanda “che cosa è questo? “, l'esistenza alla domanda « esiste questo ? ». Perciò dice S. Tommaso che l'essenza è ciò che è significato dalla definizione, perché la definizione dice appunto che cosa è un oggetto, prescindendo dal fatto che quell'oggetto esista o non esista. L'essenza è detta anche: id quidditas o quod quid est o quod quid erat esse ratio rei, perché è ciò per cui una cosa è tale o tal altra, ciò, per cui l'uomo è uomo il cavallo è cavallo, ecc.; 3) forma, perché ciò che determina l'essenza di una cosa, ciò per cui ogni cosa è tale e non talaltra è appunto la sua forma; 4) natura: natura è detta propriamente l'essenza in quanto la si considera come un principio di attività, ma qualche volta si usa natura nel senso generale di essenza, senza aver riguardo all'attività.

Si badi: questa polarità di essenza ed essere in atto nel concetto di ente non.dice ancora nulla della questione sulla distinzione reale di essenza ed esistenza in creatis, questione della quale si parlerà più avanti.

 

LA NOZIONE DI ESSERE  TRASCENDENTALE

La nozione di essere è trascendentale, ossia trascende le categorie che sono i concetti univoci più universali. Dire che la nozione di essere trascende le categorie significa dire che tale nozione è più ampia, più estesa, di qualsiasi categoria; e per questo è compresa in ogni altra nozione. Il concetto di essere è implicito non solo nei concetti delle cose, ma anche nei concetti delle determinazioni, delle qualità delle cose e quindi, a differenza degli altri concetti, è predicato di qualsiasi realtà. Animale, per es., si predica di uomo, gatto, cane, ma non della razionalità dell'uomo, del colore del gatto, della fedeltà del cane. Essere invece si predica di animale, di uomo, di cane, ecc., ma anche della razionalità dell'uomo, della fedeltà del cane, ecc. Dice ogni aspetto dei soggetti dei quali si predica, sebbene dica questo tutto in modo estremamente confuso.

Dovremo dire allora che le determinazioni, le differenze che determinano l'essere ad essere tale piuttosto che tal altro, non possono aggiungersi all'essere dal di fuori, per così dire, non  possono cioè essere estranee al concetto di essere, ma debbono essergli intrinseche, debbono essere modi dell'essere.

Dice S. Tommaso in un famoso articolo delle Quaestiones disputatae de Veritate che l'essere è la prima, la più nota e più universale nozione che noi abbiamo, la nozione implicita in ogni altra. E appunto perché è implicita in ogni altra, ossia perché ogni realtà è essere, non è possibile che gli altri concetti si ottengano aggiungendo qualcosa al concetto di essere per determinarlo, perché questa aggiunta sarebbe pur sempre qualche cosa, ma bisogna che gli altri concetti più determinati siano in qualche modo già impliciti in quello di essere, esprimano qualche cosa che già era contenuto, se pur in modo non espresso, nel concetto di essere.

Chi conosce qualche cosa dell'ontologia contemporanea, che pure si compiace di non essere tradizionale, si renderà conto dell'attualità di questa pagina tomistica. Heidegger osserva infatti che noi abbiamo sempre una iniziale comprensione dell'essere, sia pur vaga e indeterminata finchè si voglia, e che tale nozione dell'essere è implicita e presupposta nella nozione di qualsiasi cosa. N. Hartmann riconosce pure che la nozione di essere è un dato ultimo, presupposto ad ogni altra nozione e al di là del quale non si può risalire.

 

L'ESSERE CONTIENE IMPLICITAMENTE LE DIVERSE SUE DETERMINAZIONI

Dalla trascendentalità dell'essere segue che l'essere non è un genere, perché il genere è determinato da differenze che non sono già comprese nella nozione del genere.

Se il concetto di essere ha già in sè le differenze che lo determinano, esso non potrà rigorosamente prescindere da nessuna differenza, da nessun modo dell'essere; se prescindesse assolutamente dai modi dell'essere, prescinderebbe da se stesso.

Dunque quando si parla di astrazione totale e astrazione formale a proposito del concetto di essere, non sì deve credere di poter usare una rigorosa astrazione per arrivare al concetto di essere.10 Se si potesse infatti prescindere assolutamente dai soggetti o dai determinati soggetti in cui si realizza la nozione di essere, bisognerebbe che l'essere non si predicasse anche di ciò da cui abbiamo prescisso. Invece non è così. Io prescindo, per es., dal bronzo per considerarne solo la sfericità perché il bronzo non è sfericità; prescindo dalle differenze specifiche dell'uomo per considerarlo solo come animale, e perciò non posso dire che la razionalità è animale. Ma a proposito dell'essere non è così, poiché tutto ciò da cui prescindessi sarebbe ancora qualche cosa, ossia ente.

Dunque la nozione di essere contiene attualmente, sebbene solo implicitamente (actu implicite) tutti i suoi modi, le sue determinazioni, perché le ha già in sè, mentre una nozione generica, come quella di animale, contiene solo potenzialmente le detérminazioni che lo faranno, per es., cavallo o uomo. Le contiene solo potenzialmente perché è suscettibile di tali determinazioni, ossia le può. ricevere dal di fuori, per dir così, ma non le sprigiona dà sè, perché i caratteri per cui un animale è cavallo sono altri da quelli per cui è animale. Si badi: qui si parla di estraneità di concetti: la stratificazione dei caratteri c'è solo nel nostro intelletto che astrae, non nella realtà del cavallo che è una. Se abbiamo negato che la nozione di essere prescinda

assolutamente da quelle dei suoi modi e dei suoi inferiori, a maggior ragione dobbiamo negare che in realtà l'essere sia qualche cosa di distinto dai suoi inferiori.

 

UNIVOCITA' EQUIVOCITA' ANALOGIA

Ricordiamo cosa sia il termine univoco, equivoco e analogo.

Il termine univoco dice la stessa cosa (lo stesso contenuto ideale) di. tutti i soggetti dei quali si predica. "Animale", per es., significa il medesimo contenuto ideale quando è applicato all'uomo, al gatto, al cavallo, ecc. Non ci preoccupiamo ora della questione se la natura animale del cane, così come esiste in realtà sia identica a quella del cavallo e dell'uomo (dovremmo rispondere di no): non è questo il problema che ci interessa. Il problema che ci interessa è invece quello della identità della nozione, del concetto. Ora il concetto di animale è un, concetto uno, è un concetto che ha sempre il medesimo contenuto, sia quando è predicato del cane come quando è predicato del gatto e dell'uomo.

Il termine equivoco dice, con. una medesima parola, contenuti affatto diversi quando è applicato a soggetti diversi. L'esempio classico è quello del termine cane applicato all'animale ed alla costellazione.

Il termine analogo dice, dei soggetti dei quali è predicato un contenuto in parte uguale e in parte diverso; uguale sotto un certo rispetto, diverso sotto un altro aspetto. Esempio classico: il predicato sano attribuito all'uomo, alla medicina, al colorito.

E’ evidente che al termine univoco e, più imperfettamente, al termine analogo corrisponde un concetto, mentre al termine equivoco non corrisponde un concetto, ma ne corrispondono diversi. Sotto una sola parola stanno diversi concetti.

 

ANALOGIA DELL'ESSERE

Per convincersi che l'essere è analogo basta pensare che esso è trascendentale. Infatti l'affermazione che l'essere è trascendentale vuol dir questo: l'essere esprime tutta la realtà dell'oggetto di cui si predica e la esprime totalmente (ossia fino alle ultime differenze). Non c'è sfumatura - per dir così -di un oggetto, in tutta la sua concretezza, che sfugga alla nozione di essere. Dunque è chiaro che l'essere non può significare la stessa cosa dei diversi enti concreti, chè altrimenti questi enti dovrebbero identificarsi totalmente, essere un'unica realtà. "Fiore" può esser predicato univocamente di tutti i fiori perché non,dice tutto di ogni fiore concreto. In questo fiore concreto c'è un'immensità di cose che sfuggono al concetto di "fiore". Ma in questo fiore concreto non c'è nulla che sfugga alla nozione di essere.

La concezione dell'analogia dell'essere è voluta da questo problema: come può un concetto esprimere realtà diverse ed esprimere queste realtà diverse anche in quanto diverse, anche nelle differenze che le diversificano ?

Non ci sono che tre vie di soluzione:

1) la differenze (o modi) dell'essere non sono formalmente essere (ossia non sono essere anche in quanto diverse); via che abbiamo già esclusa, perché, se tali differenze non fossero essere, sarebbero nulla e quindi non differenzierebbero nulla;

2) non c'è diversità fra le cose.. tutte le cose sono un essere solo (panteismo);

3) il concetto di essere non è uno se non in modo imperfetto, non è univoco, non dice la stessa cosa di tutti i soggetti dei quali è predicato (analogia).

Vediamo ora come sia l'analogia del concetto di ente.

 

ANALOGIA DI ATTRIBUZIONE E DI PROPORZIONALITA’

Abbiamo detto che un concetto analogo esprime in parte una identità e in parte una diversità fra i molti enti dei quali si predica. Ora l'analogia di attribuzione è quella che esprime identità quanto al punto di riferimento e diversità quanto alla relazione con questo punto. Si dice, cioè, analogo secondo una analogia di attribuzione quel concetto che esprime rapporti diversi ad un medesimo punto di riferimento. Esempio classico è quello del concetto “sano”. C'è un punto di riferimento unico, la salute dell'animale, e ci sono diversi rapporti con questo. Il cibo si dice sano perché ha un rapporto di causalità con la salute dell'animale; il colorito perché ha un rapporto di manifestazione della salute dell'animale, ecc. L'animale di cui si predica principalmente il carattere “sano” si dice analogato principale (princeps analogatum); il cibo, il colorito, ecc., dei quali l'attributo "sano" si predica solo secondariamente, si dicono analogati secondari.

L'analogo di attribuzione non mi dice un carattere intrinseco degli analogati secondari, ma solo una denominazione estrinseca, cioè una relazione con qualche cos'altro (con l'analogato principale), Quando dico che le patate sono sane (come cibo) non dico nulla della natura delle patate, dico solo un rapporto che esse hanno con la salute dell'uomo.

Analogia di proporzionalità è quella che esprime una similitudine di rapporto nei vari soggetti. Ma qui il rapporto è dentro ogni singolo analogato.

Spieghiamoci.

Cosa vuol dire in aritmetica proporzione? Uguaglianza di rapporti. Una proporzione è questa, per es.: 2 : 4 = 3 : 6. Quando si tratta di analogia di proporzionalità invece non dobbiamo intendere la proporzione in senso così rigoroso, come uguaglianza di rapporto, ma solo come similitudine di rapporto. Si dice, per es., l'apprensione intellettuale è una visione dell'oggetto. Visione è un concetto analogo attribuito all'operazione dell'occhio ed a quella dell'intelletto, perché non dice la medesima cosa in tutti e due i casi. Dice però una cosa simile, e precisamente: simile nel rapporto con l'oggetto. L'occhio sta al suo oggetto come l'intelletto sta al suo. Dicevo che qui il rapporto è dentro ogni analogato: non è più, come nell'analogia di attribuzione, rapporto dell'analogato secondario con un'altra cosa, con l'analogato principale. Perciò l'analogia di proporzionalità ci dà un carattere intrinseco ai vari soggetti, sebbene esprima questo carattere dei diversi soggetti solo secondo una similitudine, non secondo una identità.

 

L'ANALOGIA DELL'ESSERE COME ANALOGIA DI PROPORZIONALITA'

L'analogia dell'essere è analogia di attribuzione e di proporzionalità. Di proporzionalità, innanzi tutto, perché quando si dice di un qualsiasi oggetto che è ente, che è una realtà, si esprime con questo un carattere intrinseco all'oggetto stesso, si esprime anzi il suo carattere fondamentale e primo.

Dire che il concetto di ente è analogo di analogia di proporzionalità, significa riconoscere che ogni categoria di enti ha un suo proprio modo di essere in atto, ma che tuttavia c'è una similitudine fra questi modi di aver l'essere, sì che, per es., la sostanza sta al suo essere come la quantità sta al suo,. Dio sta al suo essere come la creatura sta al suo. Si badi però che quel “come” non indica uguaglianza, ma solo similitudine.

«E poiché i diversi enti, dice il Gaetano, benché abbiano diverse essenze, sono però tra loro simili perché ognuno ha l'essere che gli spetta, per questo hanno in realtà una analogia, ossia una similitudine proporzionale; non perché nei vari enti ci sia un carattere uguale, ma perché l'essenza propria di ognuno è commisurata al proprio essere. Dunque alla sostanza compete l'essere in modo conforme alla sua natura (cioè in sè), alla quantità compete l'essere in modo conforme, alla sua natura (cioè in altro, e come prima determinazione del corpo); sì che la sostanza sta al suo essere come la quantità sta al suo. Il che non vuol dire che fra la sostanza e il suo essere ci sia un rapporto identico a quello fra la quantità e -il suo essere .- tanto è vero che la sostanza ha l'essere in sè e la quantità in alio - ma c'è una similitudine fra questi due rapporti, perché l'essere della sostanza è commisurato, è adatto alla natura sostanziale così come l'essere della quantità è adatto alla natura della quantità.

Si dirà: ma allora almeno il concetto di essere in atto è univoco, poichè io dico: la sostanza ha l'essere, l'accidente ha l'essere, Di o ha l'essere, la creatura ha l'essere. Rispondo: no. Non è univoco neppure il concetto di esistenza perché l'esistenza non è qualche cosa di uniforme che si appiccichi quasi dal di fuori alle essenze: ogni essenza ha il suo modo di esistere commisurato a sé.

 

L'ANALOGIA DELL'ESSERE COME ANALOGIA DI ATTRIBUZIONE

            L'analogia del concetto di essere è anche analogia di attribuzione, perché ciò che ha veramente l'essere è ciò che ha l'essere in sè, ossia la sostanza. La quantità, la qualità, la relazione esistono solo come determinazioni della sostanza, come modi di essere della sostanza. E, come vedremo,. l'ente possibile può dirsi ente solo in relazione con l'essere attuale: l'ente ideale solo in relazione con l'ente reale. Quando poi sarà dimostrata l'esistenza di Dio si vedrà che la creatura può dirsi  ente solo per il rapporto che ha con Dio.

Questi problemi sull'ente in quanto ente, sull'analogia sembrano estremamente astratti e sono effettivamente tali in un certo senso: ma ricordiamoci che appunto per, questo essi comandano poi tutte le soluzioni dei problemi più concreti. Abbiamo già accennato all'importanza della dottrina dell'analogia per quel che riguarda il problema dell'uno e del molteplice che, in fondo in fondo, è ancora il problema di Dio. Vedremo poi l'importanza che la dottrina dell'analogia ha per la conoscenza di Dio. L'analogia infatti ci permette di dire qualche cosa sulla essenza di Dio senza cadere nell'antropornorfismo: ci fa evitare gli scogli dell'agnosticismo e dell’antropormorfismo.

 Essere possibile ed essere ideale

Si disse che l'essere di cui si occupa la metafisica generale è l'essere reale, il quale abbraccia l'attuale e il possibile: ciò che attualmente è, e ciò che può essere. Domandiamoci ora in che cosa consista la possibilità. Anche questo, che si credeva un problema ozioso e ormai dimenticato della vecchia scolastica, è invece tornato di attualità nella ontologia contemporanea. Uno degli ultimi volumi di N. Hartmann è infatti interamente dedicato alla teoria dei modi dell'essere: necessario, attuale, possibile.

 Quello che è necessario, qui all'inizio, è non confondere l'ente possibile con l'ente ideale (ens rationis). Ente ideale infatti è ciò che non può esistere così come è pensato, è ciò il cui essere consiste nell'esser pensato, mentre è possibile ciò che può essere.

La distinzione sarà chiarita da qualche esempio.

La chimera, l'ippogrifo, un monte d'oro ecc. sono enti possibili: se l'artista o il sognatore che li escogita avesse la forza di produrli, potrebbe farli essere.

Nessuno invece potrà far essere un universale in quanto universale (per esempio, un uomo o un gatto che non sia questo determinato uomo o questo determinato gatto), una proposizione, un sillogismo. L'universale è infatti il modo in cui gli individui reali sono pensati dall'uomo, le proposizioni sono i modi in cui le cose sono riconosciute dall'uomo e così via.

 

I TRE TIPI DI ENTI IDEALI

L'ente ideale può essere una negazione, una privazione o una relazione. La negazione indica il semplice non essere di una cosa, la privazione indica la mancanza di una cosa che dovrebbe esserci,quindi il non esserci gli occhi in un sasso è una negazione, in un mammifero è una privazione. In realtà non esistono nè privazioni nè negazioni: esistono solo i soggetti mancanti di qualche cosa: in realtà il buco della tela è tela  logorata o tagliata, o, se si vuole, aria penetrante nella tela; il buco non ha esistenza come buco, come mancanza: è la nostra mente che se lo rappresenta come un'entità.

L'ente ideale può essere anche relazione, non nel senso che tutte le relazioni siano ideali - come vedremo più avanti - ma nel senso che ci sono anche relazioni ideali. A questo tipo di ente ideale appartengono gli universali riflessi. Si disse infatti che il contenuto dei concetti universali, il ciò che è rappresentato da essi è reale; irreale è il modo di essere dell'universale. Ma da che cosa è dato il modo di essere universale? Da una relazione. Da una  relazione di similitudine che il mio pensiero stabilisce fra certi caratteri di una cosa e quelli di altre cose.

 

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