La pagina di don Andrea
26-27 settembre
2000
Andrea Ruberti
1.
Il tempo della transizione come tempo kairologico: abitare la
transizione
- guardare con coraggio al
nostro tempo
- è un tempo “sconveniente”?
2.
Tre stelle che guidano nella transizione
- La stella del cuore
- La stella della debolezza
- La stella dell’“altro”
3.
Un linguaggio per abitare la transizione: la narrazione
Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999
B. Forte, Dove va il Cristianesimo?, Queriniana, Brescia 2000
H. Fries, Di fronte alla decisione. Le Chiese diventano superflue?, Queriniana, Brescia 1995
A. Giddens, Il mondo che cambia,
Il Mulino, Bologna 2000
C.M. Martini, La Madonna del sabato santo, Centro ambrosiano, Milano 2000
J.B. Metz, «Breve
apologia del narrare», in Concilium
9 (1973), 860-878
J. Moltmann, «Fede cristiana e mutamento di valori nella modernità», in Id.,
Dio nel progetto del mondo moderno, Queriniana, Brescia 1999,
73-90
Id., «Il riconoscimento dell’altro e la comunione dei diversi», in Id., Dio nel progetto del mondo
moderno, Queriniana, Brescia 1999, 131-148
Id., «Teologia e progetto della modernità», in Id., Dio nel progetto del mondo moderno, Queriniana,
Brescia 1999, 9-26
C. Rocchetta, «La teologia narrativa. Una nuova figura di teologia?», in Ricerche
Teologiche 2 (1991), 153-180
M.I. Rupnik, «Il coraggio del dialogo critico con le culture di oggi», in
Novità della soglia. Aperture della nuova evangelizzazione, Lipa, Roma
1995, 103-145
H.
Weinrich, «Teologia narrativa», in Concilium 9 (1973), 846-859
Come si legano, come tenere insieme, unite transizione e
narrazione? Per me ciò che le lega è una domanda: come abitare la transizione?
È questa domanda che fa da sfondo al mio intervento.
L’idea
del convegno nasce dall’immagine posta dal vescovo all’inizio della lettera
pastorale: il racconto della tempesta sedata: dopo una giornata faticosa
passata predicando, raccontando storie, raccontando parabole, Gesù, quando
inizia a farsi sera, invita i suoi a salire sulla barca per passare all’altra
riva. Contro ogni aspettativa ed ogni desiderio il viaggio quella notte non
sarà affatto tranquillo, tempesta di vento, onde che si abbattono sulla barca,
spavento, disorientamento dei discepoli. E Gesù che sembra non interessarsi.
Dove stiamo andando, che fine stiamo per fare? Che ne sarà di noi? Qual è
l’altra riva verso la quale siamo diretti? I discepoli sono posti in una
situazione di estrema difficoltà, di estremo pericolo che li smarrisce e li
lascia senza speranza per il futuro. Il vescovo ci invita a vedere riflessa in
questa immagine il volto della nostra Chiesa. Non è una cosa da poco: è un
invito a guardare in faccia la realtà senza troppe scuse consolatorie: siamo
disorientati, siamo impauriti, siamo nella notte sballottati dalle onde. E non
sappiamo dove stiamo andando e che cosa fare. È un’indicazione da prendere sul
serio, tanto più che anche da altre parti ci vengono suggerimenti che si
trovano su questa linea. A me ad esempio ha colpito non poco che anche il card.
Martini nella sua lettera pastorale inviti la sua Chiesa a prendere coscienza
di questa stessa situazione. Usa un’altra immagine, quella del sabato santo, ma
il senso è lo stesso: «nei discepoli riconosceremo il disorientamento, le
nostalgie, le paure che caratterizzano la nostra vita di credenti nello
scenario della fine del secolo e dell’inizio del millennio»; «dove va il
cristianesimo? Dove va la Chiesa che amiamo?».
Dunque siamo in questa epoca di passaggio, di cambiamenti
profondi, l’epoca nella quale l’uomo ha la senzazione, per M. Buber, di «essere
senza casa», l’epoca del postmoderno, tempo di pensiero debole, di avventure
della differenza, di crisi dell’ideologia; l’epoca che Hans Blumenberg legge
con la categoria del naufragio, e già Pascal diceva :«vous êtes embarqué»:
noi siamo sulla barca e siamo i naufraghi, non possiamo permetterci il lusso di
guardare la nave sconvolta dalle onde dalla sicurezza della riva.
Se
questo è il tempo nel quale siamo immersi, che fare come cristiani? Il tempo
della transizione è un tempo duro, di difficoltà, di prova. È un tempo posto
tra i tempi, tra il tempo che è stato e il tempo che verrà, perciò è un tempo
nomade che vaga tra «sentieri interrotti». È anche un tempo sconveniente? È un
tempo che non dovrebbe esserci? Un tempo al quale resistere con tutte le nostre
forze? Possiamo arroccarci sulle nostre posizioni, alzare barriere che ci
difendano dalle onde, opporci ad ogni cambiamento, oppure lasciarci prendere
dalla paura e dallo smarrimento. Ma possiamo anche cercare di abitare questo
tempo, non per rassegnazione, ma per due ragioni fondamentali: 1) perché la
Parola si è fatta carne ed è venuta ad abitare in mezzo a noi, a piantare la
sua tenda nel tempo, in ogni tempo, ha voluto risuonare non altrove, non ai
margini, ma nelle pieghe della nostra storia, delle nostre contraddizioni.
Perciò nella fede sappiamo che non c’è mai un tempo che il Padre non raggiunga,
nel quale non si faccia conoscere, non si riveli, nel quale non incontri
l’uomo, cosicché ogni epoca si manifesta come kairos (tempo strappato allo
scorrere senza senso del kronos) in grado di mettere in luce aspetti originari
dello stesso cristianesimo. 2) perché in fondo la transizione è la condizione
esistenziale naturale del popolo di Dio. È il tempo tipico, proprio,
dell’origine: «mio padre era un arameo errante» (Dt 26,5). È il tempo dell’esodo,
del «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre» (Gen
12,1), del «Passiamo all’altra riva». Il cristiano non può che essere uno che
accetta di vivere nel passaggio.
Da questo punto d’osservazione, le onde e la tempesta ci faranno meno paura, avremo forse la forza di alzare gli occhi e scorgere proprio nel cielo buio del nostro tempo (una volta che la nostra vista si sarà abituata) alcune stelle che possono guidarci nella navigazione. Proprio questo tempo che troppe volte ci appare come un giardino pieno di piante velenose, deve ricordarci che ognuna di esse ha in se il suo antidoto che può esserci d’aiuto per una fede più inserita nelle “passioni” dell’uomo postmoderno e forse, anche più evangelica. Questo tempo può essere per noi dono e opportunità. Di certo sperimentarci nella condizione del naufrago non può che portarci verso un cristianesimo essenzializzato, senza fronzoli. Il cercare queste stelle nel cielo della nostra epoca diventa allora per noi anche un richiamo ed uno stimolo alla conversione (che forse non è altro che il tempo della transizione portato nell’esistenza dell’uomo).
Alziamo allora lo sguardo e cerchiamo le stelle. Ci è chiesto uno sguardo sapienziale sul nostro tempo; già nel Primo Testamento con lo sbiadirsi delle speranze salvifiche e messianiche sopraggiunge la teologia sapienziale a guardare alle piccole cose di ogni giorno, ad allargare lo sguardo e percepire la presenza di un Dio diventato silenzioso ed anonimo. Quali stelle troveremo noi, naufraghi del secolo breve in cerca del senso perduto, senso che dia sapore alla vita e alla storia? Io (ma è una visione molto personale) scorgo tre stelle:
1)
La stella del cuore. Al
compiersi della parabola dell’epoca moderna troviamo una rinnovata esigenza di
spiritualità, a volte è una religiosità “selvaggia”, “consumistica”, “privata”,
“sincretistica”… ma che indica comunque una sete nuova negli uomini e nelle
donne del nostro tempo. Alla ragione assoluta della modernità, la ragione forte
delle ideologie, si affianca e chiede sempre maggior spazio il cuore, le
emozioni, i sentimenti. «Non di solo pane vivrà l’uomo» (Mt 4,4) risponde Gesù
al tentatore, “non di solo pane” sembra rispondere l’uomo in cerca di
nutrimento spirituale a chi vuole saziarlo di tecnica, di apparire, di cose.
Del resto uno dei pensatori cristiani più acuti del XX secolo, K. Rahner, aveva
profeticamente affermato che «l’uomo del XXI secolo o sarà un mistico o non
sarà religioso». Seguire la stella del cuore è dare spazio all’interiorità, ad
un incontro personale e profondo con il Dio del silenzio che parla al cuore
dell’uomo, è scoprire e vivere la dimensione contemplativa della vita come
riserva per una vita umana autentica ed integrale. È accogliere con coraggio
nell’esistenza il primato di Dio.
2)
La stella della debolezza.
In un tempo in cui l’uomo percepisce la sua debolezza, la sua vulnerabilità, il
“rischio” dell’esistenza (per Giddens il rischio è una categoria prettamente
moderna), anche Dio deve assumere questa forma. Il messaggio scandaloso della
croce è riportato al centro. Dopo il secolo che è passato attraverso i campi di
concentramento ed ha ascoltato il silenzio di Dio, è la concezione tradizionale
dell’onnipotenza di Dio che dobbiamo ripensare. La figura del Dio onnipotente
che domina tutto, che si trova al di sopra di tutto, che tutto controlla è
difficilmente annunziabile oggi, non c’è più il Dio che interviene con forza
nella storia: Dio deve essere annunziato in modo nuovo, forse più adeguato al
cristianesimo. Egli è il “Dio che viene”, ma viene nella nostra sofferenza, non
nel nostro potere, è il Dio ferito (il trafitto a cui tutti volgeranno lo
sguardo), è il Dio che nella debolezza si fa accanto, compagno di viaggio e di
patimenti del suo popolo (come il Dio d’Israele che al tempo dell’esilio —
altro tempo di transizione — lascia il tempio, luogo della sua gloria e della
sua potenza, per seguire il popolo prigioniero in terra straniera), è il Dio
sofferente che in Cristo ci aiuta non per la sua onnipotenza, ma per il suo
consegnarsi nelle mani degli uomini e per la sua passione, per la sua kenosi,
il suo abbassamento, il suo svuotarsi, il suo farsi debole. Cosa può voler dire
però seguire la stella della debolezza? È attenzione a ciò che è debole, a ciò
che non si impone, alle piccole cose, è vicinanza con chi è nella prova, è
saper com-patire. Ma è anche il non attendere ancora con nostalgia una Chiesa
forte, una Chiesa di maggioranza, una Chiesa che alza la voce e la cui voce
viene ascoltata. Mi ha fatto pensare in questi giorni il documento della
Congregazione per la Dottrina della Fede in cui si ribadisce che “la Chiesa è
necessaria alla salvezza”. È un tema che avrebbe bisogno di tempo e di mille
precisazioni, ma a me colpiva perché avevo invece davanti un libro il cui
sottotitolo è: Le Chiese diventano superflue?. Allora, Chiesa superflua
o necessaria?… Non è che anche noi nella nostra impostazione pastorale abbiamo
ancora un’immagine di Chiesa necessaria e non una Chiesa che è il corpo del
Cristo debole e crocifisso? «Dobbiamo ancora imparare — diceva d. Mauro nella
sua relazione al convegno di giugno — che cosa vuol dire essere chiesa che sta
come lievito in un mondo che è più grande di lei».
3) La stella dell’“altro”. La logica occidentale si è costruita sul principio aristotelico dell’uguale che conosce l’uguale, è il principio dell’uguaglianza, dell’omogeneità, dell’analogia. In realtà questo principio porta a riconoscere nell’altro solamente un riflesso di noi stessi, vedere solo l’immagine che di lui ci facciamo, comprimerlo nelle nostre rappresentazioni. Conoscere è solamente riconoscere ciò che già conosciamo. Oggi dobbiamo passare al principio della differenza e della diversità secondo il quale solo l’altro conosce l’altro e la comunità si costruisce solamente nella diversità. [pensiamo cosa può voler dire questo cambio di paradigma in una società multietnica, pensiamo al problema degli immigrati…]. Il principio della differenza mi porta ad avere maggior interesse per ciò che mi differenzia dall’altro rispetto a ciò che mi è affine e mi porta verso una libera adesione all’altro attraverso una amore personale. Il principio del riconoscimento dell’altro in quanto altro è il principio religioso che ha nell’incarnazione il suo paradigma: lì il divino e l’umano — l’alterità più grande che possiamo immaginarci — si riconoscono, si incontrano e si uniscono senza confondersi, senza distruggersi, senza rivalità. E come alla base di una società di uguali si trova l’amore per il prossimo (nel senso ristretto di colui che mi è vicino come era inteso dagli ebrei), così in una società di diversi alla base ci sarà l’amore per i nemici. È l’utopia di Gesù, il suo sogno per l’umanità. Seguire la stella dell’“altro” nella “folla delle solitudini” della postmodernità significa testimoniare da cristiani la possibilità di essere insieme, di dar risposta alla nostalgia di unità che ci attanaglia. È uscire dal chiuso della nostra vita, della nostra esistenza, della nostra barca, dal “nostro”, per guardare oltre; è renderci interessati ed accoglienti verso l’altro che mi rivela un frammento di quel Totalmente Altro che sempre mi cerca…
Siamo partiti
domandandoci: come abitare la transizione? Per attraversare questo tempo tra i
tempi credo potrebbe essere di grande aiuto la capacità di narrare, di
narrarsi. È una caratteristica dei popoli nomadi: tramandare oralmente
raccontando storie che uniscano le varie generazioni all’unica grande storia
del popolo. Anche il popolo dell’esodo racconta continuamente le storie delle
origini perché ogni israelita si senta lui stesso tratto fuori dall’Egitto e
passato attraverso il Mar Rosso. Ed anche Gesù è un narratore di storie, ha
narrato e ripetuto racconti, anche racconti non inventati da lui, come quello
della pecorella smarrita già presente in Ez 34,5-6. Poi Gesù da persona
narrante è diventato persona narrata quando nella Chiesa si è iniziato a
raccontare le storie su Gesù, i vangeli. Alla sequela di Cristo, del narratore
narrato di Nazareth, ci si può dunque raffigurare il cristianesimo simile ad
una catena senza fine di racconti che si tramandano di generazione in
generazione, un narrarsi per renderla sempre viva ed attuale la “memoria
pericolosa” di Gesù: fides ex auditu (Rm 10,17). Ma la narrazione è
anche il linguaggio più adatto a seguire le tre stelle che abbiamo intravisto
nel cielo oscuro del nostro tempo perché è un linguaggio del cuore dove i
contenuti sono trasmessi attraverso i sentimenti e le emozioni che suscita; è
un linguaggio debole che non ha la forza dell’argomentazione razionale; è
infine anche un linguaggio dell’alterità perché una storia si racconta sempre a
qualcuno che ci sta di fronte, perché narrare è sempre un cercare di far
entrare l’altro nella storia che racconto. È linguaggio adeguato al Totalmente
Altro che non si lascia definire astrattamente, ma si può solo concretamente
narrare. Il narrare però ci chiama a metterci in gioco totalmente poiché la
narrazione appartiene al genere letterario della testimonianza ed è dalla
narrazione che nasce la Chiesa che è comunità narrante: «Ciò che era fin da
principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri
occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo
veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era
presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito,
noi lo annunziamo anche a voi [noi lo raccontiamo, lo narriamo
anche a voi], perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Gv 1,1ss).
Secondo questo testo di Giovanni il narrare sta all’origine della Chiesa: la
comunione della comunità nasce dal raccontarsi l’un l’altro l’esperienza
personale del Verbo della vita. Alla base dell’essere Chiesa c’è dunque un
racconto, ma non il racconto di una barzelletta o di qualche storia più o meno
bella ed edificante, c’è il narrarsi di un’esperienza personale che tocca il
midollo dell’esistenza: l’esperienza concreta di Dio nella mia vita. Senza
questo racconto reciproco non c’è Chiesa. (Non c’è nemmeno annuncio e catechesi?).
La fede cristiana è rivelazione storica di Dio, è un’esperienza di relazioni
nuove e liberanti con sé, con gli altri, con l’Altro, che si esprime in
avvenimenti da ricordare e da raccontare perché altri a loro volta ascoltando,
sperimentino, ricordino, raccontino…
È Gesù stesso che nella
regione dei geraseni, dopo aver liberato l’uomo posseduto da uno spirito
immondo (Legione) gli dice: «Va’ a casa tua, dai tuoi, e annunzia loro ciò che
il Signore ha fatto per te» (Mc 5,19). Certo, se il narrare è così centrale
nella trasmissione della fede, non può essere un narrare qualsiasi, deve
coinvolgere con una forza vitale narratore e ascoltatore, deve essere un
narrare che possa essere d’aiuto: ecco per concludere una storia riportata da
M. Buber tra le storie Chassidiche:
Mio nonno era paralitico. Un
giorno gli si chiese di narrare una storia del suo maestro. Ed allora prese a
raccontare come il santo Baal Shem, quando pregava, saltasse e ballasse. Mio
nonno si alzò in piedi e raccontò. Ma la storia lo trasportava talmente che
doveva anche mostrare come il maestro facesse, saltando e ballando pure lui. E
così, dopo un’ora era guarito. È questo il modo di raccontare le storie.