Storia della Chiesa
L’annunzio evangelico nel mondo greco-romano
e giudaico
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Autore : Luigi Negri |
Curatore : don Pinuccio Mazzucchelli |
Fonte : Tracce |
Da : CulturaCattolica.it |
La vita della Chiesa primitiva |
La fedeltà all'origine: lotta alle eresie e scontro con
il potere |
L'annunzio evangelicoL'annunzio evangelico
nel mondo greco-romano e giudaico L'avvenimento cristiano
si pone per la prima volta dentro la storia degli uomini, di fronte a due mondi
che coesistevano senza quasi entrare in contatto: il mondo greco-romano, cioè
il mondo della cultura e quello ebraico, considerato indegno di ogni rapporto
col primo. Esisteva in verità anche un terzo mondo, costituito dai cosiddetti
barbari, ma esso, rispetto agli altri due, rappresentava solo una sorta di
preistoria. È da notare che il
cristianesimo è entrato in contatto con entrambi questi mondi - e
successivamente anche coi barbari - senza sceglierne uno contro gli altri, ma
diventando un fatto significativo per ciascuno di essi. È evidente che il
cristianesimo è un fenomeno capace di dialogo con l'umano, fin dal momento in
cui entra nella storia. Non esiste nella storia degli uomini, e in
particolare nella storia della civiltà mediterranea, un altro fatto
altrettanto "fruibile" da persone in situazioni tanto diverse. Il cristianesimo si
inserisce nell'ambito di una problematica fondamentale dell'uomo di ogni
tempo e di ogni condizione: il problema della salvezza, cioè della verità e
del significato della vita. Per i Greci, cioè per la cultura del tempo, la
sapienza coincideva appunto con la ricerca di tale significato. L'originalità
della Chiesa non consiste, pertanto, nel parlare della salvezza, ma
nell'annunciare che la salvezza è un fatto, un avvenimento. Lo conferma il
capitolo settimo degli Atti degli apostoli, quando Paolo parla per la prima
volta al mondo culturale greco, il più alto espresso dagli uomini di quel
tempo, che cercava la salvezza attraverso un tentativo di interpretazione
razionale della realtà. Nella ricerca del senso ultimo delle cose, i Greci
erano avanzati moltissimo, fino a capire che esso è di natura totalmente
diversa rispetto alla storia e alla concretezza degli elementi
dell'esistenza: è un altro mondo, il mondo dell'Essere, di Dio. La drammaticità
della vita umana consisteva nel fatto che l'uomo si scopriva
contemporaneamente parte di Dio e del suo mondo, e parte della storia del
mondo corruttibile; insieme anima e corpo. Il vertice della
sapienza greca era, quindi, l'idea di abbandonare la materia, la storia, per
rifugiarsi nell'assolutezza della vita come contenuto e fine della propria
ricerca intellettuale. Di fronte a questi due
grandi orientamenti culturali, la novità cristiana non consistette nel
proporre un'altra dottrina della salvezza, ma nell'affermare che la salvezza
c'era già, era accaduta nella storia. Ora, i cristiani,
dicendo che "il Verbo di Dio si è fatto carne ed abita in mezzo a
noi", affermano non solo che la salvezza è un fatto storico,
contingente, ma che continua a rimanere presente. Infatti il cristianesimo
non è una dottrina ma una realtà storica, un gruppo di uomini che afferma di
essere il luogo dove l'evento definitivo di Cristo continua ad essere
presente ed a influire sulla storia (il Concilio Vaticano II definirà la
Chiesa "sacramento di Cristo"). L'annuncio cristiano
della salvezza intesa come vita, morte e resurrezione di un uomo, e continua
presenza di Dio nella storia attraverso l'unità dei cristiani, fu per gli uni
follia, per gli altri scandalo. La vita della Chiesa primitivaAlla fine del II secolo
appare una bellissima presentazione del cristianesimo al mondo greco-romano,
nota come "Lettera a Diogneto": "I cristiani non si
distinguono dagli altri uomini né per territorio né per lingua, né per
costumi: non abitano in città proprie, né usano un gergo particolare, né
conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è la scoperta del
pensiero di qualche genio umano, né aderiscono a correnti filosofiche.
Vivendo in città greche o barbare, come a ciascuno è toccato, e uniformandosi
alle abitudini del luogo, nel vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno
esempio di una vita sociale mirabile, o meglio paradossale". La Chiesa appare dunque
come una vita sociale che si esprime diversamente nella consapevolezza che il
fondamento della propria unità è l'avvenimento di Cristo, che perdura nella
storia come salvezza di Dio offerta a tutti gli uomini. Travisiamo
completamente il fatto cristiano se non ci rendiamo conto che è apparso come
un popolo nuovo, non più caratterizzato dalla razza o dalla cultura, ma da
un'unità profonda fra persone diverse. Il termine stesso con
cui la Chiesa si è chiamata, "ecclesia", (è il termine tecnico che
indica l'assemblea degli uomini liberi nella "polis" greca) è
insieme il più generico e il più particolare. Esso indica, contemporaneamente,
l'unica assemblea e tutte le assemblee particolari che via via nascevano. Fin
dall'inizio la Chiesa appare nel mondo come universale e particolare insieme,
e i due termini non si elidono. Chiesa è la Chiesa che si raduna nella casa
di Aquila e nello stesso tempo, Chiesa è l'unica Chiesa cattolica. La Chiesa
è dunque un'unica realtà sociale che, in forza di questa sua unità, si
esprime in modalità anche molto differenziate. Fin dai primi decenni
appare assolutamente chiaro che questa unità ha come garanzia la funzione
autorevole particolare riservata a coloro che proseguono, dentro la vita
della Chiesa, la funzione dei dodici apostoli, cioè di coloro i quali avevano
condiviso la vita pubblica di Gesù. Tra di essi esercita una particolare
responsabilità il successore di Pietro nella sede in cui l'apostolo aveva
posto la sua residenza dopo aver abbandonato la Palestina: Roma diventa guida
di tutta la Chiesa. In altre parole, l'unità
è garantita dal riferimento dei vescovi, successori degli apostoli, a "colui
che presiede l'universale carità della Chiesa" (come si esprime in una
sua lettera uno dei più antichi e famosi vescovi, Ignazio di Antiochia), cioè
al capo della Chiesa di Roma. Già alla fine del I secolo
le questioni più importanti che sorgono tra le Chiese sono risolte ricorrendo
al vescovo di Roma, che interviene senza incontrare nessuna difficoltà o
contestazione. Allo stesso modo, a partire almeno dalla seconda metà del I
secolo, diventa abbastanza consueto che l'elezione di un vescovo a capo di
una comunità locale, normalmente effettuata dal clero e dal popolo riuniti,
venga ratificato dal vescovo di Roma o da qualche suo delegato. Pertanto la
teoria secondo cui la struttura gerarchica della Chiesa è subentrata alla
Chiesa dei Vangeli attraverso una rottura successiva operata da un apparato
ecclesiastico e dalla volontà di potere di alcuni, urta contro questa realtà;
la Chiesa, fin dalla Pentecoste, si è determinata come una realtà unitaria,
universale e insieme particolare, gerarchica, garantita dal riferimento
ultimo al ministero di Pietro. Proprio questa sua
struttura agilissima ed essenziale ha permesso alla Chiesa il massimo di
penetrazione anche in contesti culturali, sociali ed etnici assai diversi, a
partire dalla consapevolezza espressa da san Paolo nella lettera ai Galati
(III, 26-29). "Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Gesù
Cristo, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di
Cristo. Non c'è più né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né uomo né
donna, perché voi tutti siete un essere solo in Cristo Gesù". La Chiesa si rivela come
una vita di popolo che sa integrare tutti. Le differenze che esistono non
sono criteri determinanti, bensì semplici condizioni della vita. Ciò che
invece definisce la persona è l'incontro con Cristo, che la coinvolge nel
rapporto con Dio rendendola veramente "uomo". Mentre nell'età
moderna le grandi ideologie al potere hanno sempre tentato di eliminare artificiosamente
e violentemente le differenze (il nostro stesso Stato unitario è nato
tentando di cancellare le differenze culturali), per la Chiesa le differenze
non negano l'unità in nome di Cristo, la quale anzi, essendo qualcosa di
assoluto, si esprime maggiormente proprio attraverso di esse. Fin dall'inizio, dunque,
la Chiesa ha affermato che la salvezza è legata ad un avvenimento storico
continuamente presente attraverso la realtà della Chiesa stessa. Quest'ultima
si presenta strutturata come organismo vivente guidato e fondato sulla regola
della comunione nel nome di Cristo (ecco la possibilità di mettere in comune
la vita, considerando con molta libertà le proprie risorse materiali e
spirituali). Non solo: la Chiesa ha anche preteso di essere il luogo dove si
fa esperienza della salvezza. L'affermazione straordinaria è, dunque, che la
salvezza accade storicamente per ogni uomo nell'appartenenza alla Chiesa,
senza alcun rinvio al futuro. Vivendo in essa, infatti, accettando questa
compagnia, la vera umanità dell'uomo si manifesta e la salvezza diviene così
esperienza. Come dimostra ancora la lettera a Diogneto: "Abitano nella
propria città, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come
cittadini, ma sono staccati da tutto; si sposano come tutti e generano figli,
ma non espongono i loro nati; hanno in comune la mensa, ma non il letto;
vivono nella carne, ma non secondo la carne; dimorano sulla terra, ma sono
cittadini del cielo; amano tutti e da tutti sono perseguitati; non sono
conosciuti e sono condannati; vengono uccisi, ma essi ne attingono la
vita". Questa diversità
dimostra che la salvezza accade per chi vive nella Chiesa. Ed ecco uno dei
documenti più significativi del tempo (metà del III secolo) scritto dal
grande vescovo Cipriano di Cartagine: "La Chiesa estende i suoi rami in
tutta la terra con esuberante fecondità e si espande su vaste regioni. Uno
solo però è il principio, una sola la sorgente e una sola la madre feconda e
ricca di figli. Nasciamo dal suo grembo, ci nutriamo del suo latte, siamo animati
dal suo spirito. Chi abbandona la Chiesa non raggiungerà mai Cristo,
divenendo un forestiero, un profano, un nemico. Non può avere Dio come padre
chi non ha la Chiesa come madre". Una posizione culturale,
quella greca, vede l'ideologia separarsi dalla storia per tentare di tornare
a Dio in vari modi, l'altra quella dei Giudei può solo sperare in
un'iniziativa finale di Dio. Invece la Chiesa si pone come luogo dove da
subito la persona fa l'esperienza della salvezza, cioè della sua umanità
vera, aderendo a questa comunità viva ed entrando in comunione con Cristo nei
sacramenti che costituiscono il tessuto della Chiesa stessa. Per questo
motivo le espressioni "i salvati", "i redenti", "i
rinati" sono tutte sinonimi della parola "cristiani". Una concezione nuova dell'uomo e della storiaL'uomo che fa questa
esperienza di salvezza sente come sua precisa responsabilità quella di
comunicarla a tutti: la salvezza è ciò che tutti gli uomini in quanto tali desiderano.
Ora, questa vita nuova
produce dei frutti fondamentali circa la concezione dell'uomo e la sua
esperienza. Innanzitutto la Chiesa afferma che ogni singolo uomo, proprio
perché è chiamato alla salvezza, acquista un valore assoluto. Non è più un individuo
in una massa anonima, ma una persona che ha come fondamento ultimo della sua
vita, quindi del suo valore, il fatto di essere figlio di Dio. Ciò rende
l'uomo infinitamente più grande di tutti i condizionamenti in cui vive e di
tutte le vicende che gli capitano. Il mondo greco-romano
non era riuscito a dare un valore all'uomo, in quanto egli, ambivalente
miscuglio di una scintilla divina e di una materia corruttibile, era
immediatamente riconducibile alla condizione sociale in cui era nato (se era nato
schiavo non aveva alcun diritto; se barbaro non gli si poteva parlare). Anche
nel mondo ebraico l'uomo è ricondotto ai condizionamenti esteriori della sua
vita. Ma se l'uomo è figlio di Dio, s'innalza libero al di sopra di tutti i
condizionamenti. Col cristianesimo, pertanto, nasce l'uomo come soggetto
responsabile, in quanto risponde a Cristo, e libero. La libertà, cioè
l'energia del proprio essere persona, è una parola ignota nel mondo
precedente, presente in esso solo come esigenza che stenta a trovare la sua
giustificazione. Si può dire, con una commovente espressione di Pasternak ne
Il dottor Zivago: "Nell'abbraccio di Cristo nasce l'uomo". Ciò che definisce la
persona non è più la sua posizione nella piramide sociale o politica
(l'imperatore Diocleziano era arrivato al punto di fissare ognuno alla
propria condizione sociale, per rafforzare anche dal punto di vista politico
lo Stato), ma l'appartenenza a Cristo, che investe e trasforma tutto
(l'essere "Giudeo o Greco", "schiavo o libero",
"uomo o donna"). Se in primo piano c'è la
persona, la prima conseguenza dell'incontro con l'avvenimento di Cristo è che
"all'uomo è rivelata tutta la verità di sé" (cfr. Giovanni Paolo
II, Redemptor hominis): gli è rivelato di essere figlio di Dio e perciò di avere
un valore infinito e una precisa responsabilità di fronte a Dio, a se stesso
e al mondo; di essere quindi un soggetto che conosce e ama e che, nella
conoscenza e nell'amore, è chiamato a costruire la sua personalità. Tutto il mondo è
debitore al cristianesimo del concetto nuovo di persona, le cui conseguenze,
di fondamentale importanza, sono documentabili storicamente. Il termine
stesso di persona, che nel mondo greco indicava la maschera dell'attore,
viene totalmente risignificato nel contesto cristiano indicando per la prima
volta il soggetto umano in quanto fruisce della comunione con Dio che gli dà
valore assoluto e capacità di agire nella storia. Per quanto poi riguarda la
responsabilità degli uomini negli avvenimenti, la mentalità greca era andata maturando
nel tempo. L'immagine di una grecità che fonda la vita su un ideale di
bellezza e di equilibrio, così come ce l'hanno presentata gli illuministi, è
deformata e parziale, perché ignora il dramma di uomini chiamati a vivere
entro grandi fatti di dolore e di morte senza sapere essi stessi se come
responsabili o come vittime del fato. In quanto pone questo problema, la
tragedia è il punto di maggior crisi del mondo greco. Euripide certo intuì
che l'esperienza umana non poteva essere compresa dal mondo greco, che
pensava di arrivare alla salvezza esclusivamente attraverso la dottrina. L'altro grande elemento
di valorizzazione della persona nella concezione cristiana è il potenziamento
della sua capacità di ragione e di affezione. Viene rinnovata l'intelligenza
che può conoscere il vero e, anzi, deve ricercarlo continuamente
(l'affermazione che la salvezza è Cristo non elimina certo la ricerca delle
verità che si celano dentro il mondo e la realtà nelle sue varie dimensioni)
e viene rinnovata la capacità di amare. Una seconda conseguenza
è che si dà inizio in maniera cosciente alla storia, intesa come campo di
espressione di questa libertà e di questa responsabilità. Per i Greci la storia, essendo lontananza assoluta da Dio, trovava un minimo di comprensibilità solo se intesa come ciclo, cioè come un eterno ritorno degli avvenimenti che si ripetevano, meccanicamente e senza alcuna responsabilità da parte degli uomini dopo un determinato periodo (secondo gli Stoici dopo "un anno", inteso con una durata corrispondente a diecimila anni). Solo l'idea di questo eterno ritorno poteva, in un certo senso, avvicinare la storia alla divinità di Dio. Ma:"I vostri cicli
sono esplosi!" dirà sant'Ireneo di Lione (fine del II secolo). La
storia, con il cristianesimo, non è più un ciclo ma una costruzione in cui si
compone la libertà di Dio, che ha salvato gli uomini in Cristo e guida la
storia, e la libertà degli uomini, che possono impostare la vita come
risposta a lui o come rifiuto, esprimendo la loro personalità nelle
condizioni personali e sociali in cui vivono. In sintesi ad un uomo
drammaticamente spaccato fra anima e corpo che ignora dove sia la sua
consistenza ed è quindi facilmente preda del potere e ad una storia che è
solo ripetizione meccanica di eventi determinati fatalisticamente, subentrano
un uomo che ha la consistenza in Dio, ed è perciò più grande del mondo
intero, ed una concezione della storia come ambito dell'espressione
dell'uomo. La fedeltà all'origine: lotta alle eresie e scontro con il potereSe l'avvenimento di
Cristo è presente nella Chiesa attraverso la sua stessa vita, la sua
predicazione di Cristo e la sua pratica di Cristo (il Sacramento), la Sacra
Scrittura è uno strumento fondamentale, interno alla Chiesa, per rendere
sempre più chiara e matura questa coscienza di lui. Ha cioè valore in quanto
è stata fissata dalla Chiesa come regola per l'interpretazione esatta
dell'avvenimento di Cristo. Non ha perciò senso per il cristiano leggere la
Scrittura al di fuori della Chiesa. D'altro canto quello che la Chiesa dirà
di Cristo non potrà mai essere in contrasto con ciò che dice il Vangelo; anzi
per rendere sempre più vero l'annuncio di Cristo, la Chiesa dovrà
continuamente riproporre e approfondire il Vangelo. Alla prima generazione
cristiana, Cristo ha affidato questa straordinaria avventura: la
responsabilità di fissare la regola della fede. Non c'è "parola",
quindi, fuori dalla Chiesa. Il contenuto della salvezza non è quella parola,
bensì l'avvenimento di Cristo presente nella Chiesa attraverso la
predicazione e i Sacramenti. L'ortodossia è accettare che l'intelligenza che
abbiamo dell'avvenimento di Cristo e, quindi di noi stessi, maturi
nell'appartenenza. Ciò che è accaduto e vive nella Chiesa giudica
l'intelligenza, il modo normale di percepire le cose. Viceversa non ci si può
accostare a Cristo e giudicarlo a partire dalla filosofia, o dalle religioni
orientali o dal modo greco-romano o ebraico di concepire l'uomo. Occorre che
l'avvenimento di Cristo sia il criterio di giudizio, non il contenuto che
viene giudicato. Questa è la differenza tra l'ortodossia, cioè il modo esatto
di sentire la fede, e l'eresia, che è sempre il tentativo di leggere
l'avvenimento di Cristo a partire dalla mentalità mondana. La prima terribile
eresia fu la gnosi, cioè l'insieme delle dottrine relative alla salvezza
unificate. Fu come una grande ideologia comune del mondo greco-romano nei
primi secoli del cristianesimo. Il tentativo degli gnostici fu di inserire il
cristianesimo in questo patrimonio comune, riducendo Cristo a una dottrina.
Tra le fine del II secolo e l'inizio del III, l'eresia più diffusa fu
l'arianesimo, che rappresentava il tentativo di leggere la realtà di Cristo a
partire dall'ideologia, cioè dalla dottrina greca, che metteva un abisso tra
Dio, essere assoluto, e il mondo. Che un uomo, Cristo, fosse figlio di Dio
era assurdo: semmai poteva essere la più alta delle creature. L'arianesimo fu
quindi il tentativo di "filosoficizzare" l'avvenimento cristiano. Tutte
le eresie hanno in comune il tentativo di cambiare il punto di partenza, di
sceglierlo (eresia = scelta), mentre il punto di partenza è l'avvenimento di
Cristo così come permane e si sperimenta nella vita della Chiesa. Per questo
una coscienza esatta dell'avvenimento cristiano, e quindi della realtà del
mondo - anche in senso culturale - è frutto non solo dell'intelligenza, ma
anche dell'affezione. L'appartenenza a Cristo
nella Chiesa è un atteggiamento che impegna l'intelligenza e il cuore ed ha
il suo punto più acuto nell'obbedienza a chi guida la comunità. C'è una
conseguenza: l'avvenimento cristiano, conscio della sua originalità, è
diventato subito capace di dialogo e di valorizzazione, sentendosi erede
della sapienza greca. Quello che i filosofi cercavano, l'aveva portato
Cristo. Pertanto tra Cristo e tutta la filosofia ci fu rottura ma anche
continuità. La Chiesa, infatti, autocosciente e lanciata in un dinamismo
missionario, si sentì in grado di dialogare senza complessi d'inferiorità con
le tradizioni culturali precedenti, scegliendo più la filosofia che la
religione, perché le religioni ufficiali erano molto più una corruzione del
senso religioso che un'espressione di esso. I motivi dello scontro politico
tra la Chiesa e lo Stato romano vanno capiti bene. L'accusa mossa ai
cristiani fu di empietà (cioè di non aderire ad una precisa religione) e di
anarchia (cioè di rifiutare di tributare culto all'imperatore). La
storiografia più recente ha dimostrato che non fu mai emanata una legge
particolare contro i cristiani, in quanto bastavano ad accusarli le leggi
normali. Lo Stato romano, infatti, per la sua stessa struttura giuridica, non
poteva non perseguitare i rei di questi due delitti. Lo scontro frontale con
lo Stato, estremamente violento, dura per tre secoli, attraverso le
persecuzioni che falcidiano migliaia di persone. I cristiani, infatti,
rifiutano l'assolutismo politico romano; rifiutano cioè che la dimensione (e
quindi la struttura) politica sia la definizione ultima della persona. A
tanto era arrivato il mondo greco-romano; non potendo pensare all'evento di
Cristo, e tanto meno ad un fatto come la Chiesa, esso aveva dovuto rendere
assoluta la convivenza sociale. La "polis", intesa come insieme di
rapporti politici, non è l'espressione del valore ma costituisce tutto il
valore dell'uomo che vale appunto in quanto inserito in essa. Il culto
dell'imperatore nasce da questa concezione del potere come unica cosa che dà
assolutezza alla vita, senza la quale non ci sarebbe che la disperazione
universale. Lo Stato greco-romano
propose ai cristiani di sacrificare all'imperatore e di inserire la loro
religione nel "pantheon" dei culti ammessi, dei culti, cioè, che
accettavano di essere ridotti a opinioni private all'interno
dell'affermazione che lo Stato era tutto. I cristiani, che
concepivano invece la vita sociale come espressione del valore della persona
(che è ultimamente costituito dalla sua dimensione religiosa), non
accettarono né di inserire la loro religione nel "Pantheon" né di
sacrificare all'imperatore, anche quando il sacrificio era più formale che
sostanziale. L'uomo infatti o dipende da Dio o dipende dalla struttura del
potere: sono due logiche inconciliabili. Proprio per questo il cristianesimo
lottò contro le altre religioni che avevano accettato la propria riduzione e
dialogò invece con la filosofia che aveva resistito alla concezione
assolutistica dello Stato, soprattutto dopo la nascita dello Stoicismo. Il cristianesimo, sia
ben chiaro, non rifiutava lo Stato come autorità politica, bensì il culto
dello Stato. Anche per i cristiani la convivenza sociale è una dimensione
naturale, ed è giusto organizzarla, purché il potere non pretenda di essere
Dio, di avere un valore assoluto. Tertulliano:"L'imperatore
è grande ma è sotto Dio". Il valore assoluto va riconosciuto solo alla
persona, in forza del suo rapporto con Dio. Pertanto la convivenza sociale e
il potere devono dare spazio alle persone e alla loro libertà. È notevole a questo
proposito il fatto che attorno al 150 un gruppo di cristiani, chiamati
apologisti, abbia scritto all'imperatore chiedendo libertà per tutti (per i
cittadini, per i gruppi, per le religioni, per i popoli) e dando l'immagine
di una vita sociale assolutamente non anarchica, bensì articolata, non certo
simile ad un monolito che subisce i contraccolpi del personalismo
dell'imperatore. Questo dimostra come il cristianesimo non si sia posto in
posizione di rottura nei confronti dello Stato negando le esigenze della struttura
sociale-politica, ma ne abbia già agli inizi rifiutato la logica
assolutistica, che riduce la persona alla vita sociale e al potere statuale.
L'uomo è tale non in quanto ha una posizione sociale ma in quanto è figlio di
Dio. Per questo san Paolo nella Lettera a Filemone, rimandando lo schiavo al
padrone, gli dice: "Ti rimando lo schiavo che è tuo fratello". Appare chiaro che il
cristianesimo, pur non discutendo subito la struttura della società, pose
dentro di essa una società diversa. Col secolo IV finì lo
scontro frontale col potere, ma non lo scontro politico in quanto tale
perché, anche quando gli imperatori furono cristiani, tentarono di mettere il
vino nuovo del cristianesimo nelle botti vecchie dello statalismo romano,
esercitando una pesante protezione nei confronti della Chiesa. Il vecchio assolutismo adoperava ormai il cristianesimo come ideologia. Così nei secoli IV e V, soprattutto in Oriente, la Chiesa dovette difendersi anche dagli imperatori cristiani. Da sempre la Chiesa ha difeso la libertà della persona e della sua coscienza chiamando lo Stato, non a determinare, ma a servire l'uomo e la sua libera espressione. Le testimonianze di questi scontri sono raccolte e documentate dal grande storico della Chiesa Hugo Rahner nel volume Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo dove si dimostra che, mentre la Chiesa ha sempre sostenuto la relatività dello Stato alla persona, la tendenza dello Stato romano, anche se guidato da imperatori cristiani, fu costantemente di porsi come valore assoluto.
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