Parabole |
Marco
12,1-12 "Incominciò
poi a parlare loro in parabole: Commento Il profeta Isaia (5,5) nel suo celebre canto aveva descritto una vigna nella quale il padrone aveva riversato le più amorevoli cure, scegliendone il luogo in un terreno fertile, ripulendolo dai sassi e dagli sterpi, piantandovi la vite scelta, cintandola poi con un recinto di protezione e all'interno, in posizione favorevole, una torre dalla duplice funzione: guardia in cima e una pressa a livello di terra. Ma nonostante la cura la vigna produceva acri grappoli invece di uva dolce.
Amen,alleluia,amen. |
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IL FATTO DELLA VITA "Non capisco. Ho
pulito il selciato appena tre giorni fa. Ho sradicato tutta la gramigna. Ma è
bastata una pioggia, ed eccola di nuovo, è già rinata. Non riesco a levarla
definitivamente".—disse Giovanni all’amico che lo stava guardando. - "Proprio
così!—rimbeccò una donna che passava lì nei pressi—assomiglia ai nostri
figli. Si cerca di educarli il meglio possibile e, poi, loro ne combinano di
quelle, che non si sa da dove siano uscite. E non c’è verso di cambiarli. Il
male è mescolato al bene che esso fanno. Non si sa davvero cosa fare!". E’ vero: ci sono certe
cose nella vita che non si possono spiegare e non si sa da dove siano uscite.
Anche al tempo di Gesù, era lo stesso. Gesù parla delle
erbacce che crescono in mezzo al grano o al riso. Nessuno sa da dove vengano.
Facciamo grandi sforzi perché tutto vada bene, ma sempre salta fuori qualche
cosa che rovina la festa: dalla gramigna sul selciato alle cattiverie dei
figli, dall’influenza ai buchi della strada, dal salario insufficiente alle
baracche ammonticchiate accanto ai palazzi dei ricchi, dai mendicanti
all’opulenza dei più. Il male si mescola al bene.Nessuno sa dire dove nasca.
O meglio, nessuno se ne vuol far carico, dal momento che può turbare le
coscienze dei più. E’ impossibile separarli. Che fare? Lasciare le cose come
stanno, per vedere come va a finire? NOTA: La vita è piena
di erbacce e di gramigna; i mali sono tanti. C’è chi perde la testa, c’è chi
si accomoda. Alcuni vorrebbero eliminare i mali col ferro e col fuoco, altri
incrociano le braccia e dicono:"Tanto non ci si riesce. E’ Dio che vuole
così. Pazienza". Ascoltiamo ciò che Gesù
ci dice. DAL VANGELO DI MATTEO 13,24-30 LEGGIAMO LA PARABOLA Commento Il racconto parabolico
si basa su una serie di antitesi tra il proprietario del campo e il suo
avversario, tra il grano e la gramigna, tra il tempo presente della semina e
della crescita e il tempo futuro della mietitura, tra il granaio dove finisce
il grano e il fuoco dove è bruciata la gramigna. Ma il motivo centrale del racconto
è il dialogo tra il proprietario e i servi, più esattamente l’impazienza di
questi e l’atteggiamento paziente di quello. La parabola vuole evidenziare
l’imprevidenza dei primi e la saggezza del secondo, che comprende come sia
impossibile estirpare subito la gramigna senza danneggiare anche il grano. Che cosa intendeva dire
Gesù? Cristo aveva annunciato
la venuta del Regno di Dio. Aveva compiuto i segni miracolosi che lo
rendevano presente. L’ora decisiva della salvezza era suonata nella sua
attività messianica. Una febbrile attesa aveva contagiato gli ascoltatori.
Anche perché secondo la parola dei profeti il Messia avrebbe riunito attorni
a sé una comunità di puri e di santi, dopo avere condannato i peccatori alla
perdizione ultima. Sennonché nessuna comunità di santi era stata da lui
costruita. Né egli aveva condannato al fuoco eterno i peccatori. Anzi gli
accoglieva, rifiutandosi di fare il giudice definitivo separatore dei buoni
dai malvagi. E Gesù dovette fronteggiare tale impazienza messianica. Lo fece
con questa parabola, distinguendo fra il tempo presente, in cui buoni e
malvagi vivono gomito a gomito nel mondo, e il tempo futuro, l’ultimo della
separazione definitiva. In questo modo ha
indicato il significato del nostro oggi come tempo di coesistenza di buoni e
malvagi, di puri e peccatori, di bene e di male. Non solo, è esclusa una
comprensione della storia in cui sia possibile operare la netta separazione
tra bene e male. Sarebbe confondere la nostra era con il giorni ultimo. Il
presente storico significa semina del buon grano e,purtroppo, della gramigna;
crescita dell’uno e dell’altra indissolubilmente vicini. Vale a dire che nello
stesso campo opera il seminatore che sparge buon seme e l’avversario che
semina gramigna. Dal racconto emerge anche che Gesù è colui che getta le basi
del Regno di Dio; e che adesso è il tempo della misericordia,
dell’accoglienza dei peccatori, della conversione proposta a tutti, della
liberazione donata agli schiavi del peccato. Fatta questa premessa,
entriamo nel dettaglio della parabola. Essa prende l’avvio da
una constatazione: con stupore i contadini si accorgono che nel campo del
padrone è cresciuta anche la gramigna. Il dialogo si articola in due battute,
botta e risposta. Il punto di forza della parabola va cercato nel dialogo,
non nella storia. Tuttavia è la storia a
provocare le due domande che i servi pongono al padrone. La narrazione si
distende su tre tempi: il momento in cui avvengono le cose sulle quali poi, i
servi e il padrone discorreranno; il momento del dialogo in cui il padrone e
i servi confrontano i loro rispettivi punti di vista; il tempo futuro della
mietitura e del giudizio. Il primo momento è
l’antefatto, presente come problema, ma del tutto passato come avvenimento.
Nell’economia della parabola rappresenta ciò che l’ascoltatore deve sapere,
non ciò su cui deve fermare la propria attenzione. Questo primo momento è del
tutto funzionale al secondo. Anche il terzo momento
è relativo al secondo: Gesù anticipa ciò che accadrà non perché vuole che l’ascoltatore
vi si concentri, ma per prospettare una ragione che possa fargli accettare
l’inatteso atteggiamento del padrone. Il tempo centrale, sul
quale la narrazione indugia costringendo l’ascoltatore a fare altrettanto, è
il secondo. Infatti i verbi della parabola sono tutti al passato, eccetto il
futuro "vi dirò" con il quale il padrone anticipa l’ordine che, a
tempo opportuno, impartirà ai mietitori, e il presente "dicono" che
introduce la seconda domanda dei servi. Gesù qui è ricorso al presente per
sottolineare l’intensità di questa domanda. "Mentre gli uomini
dormivano, venne il suo nemico e seminò gramigna in mezzo al grano e se ne
andò". La presenza della
gramigna nel campo di grano, anche se i servi mostrano di esserne sorpresi,
non è il tratto più inatteso del racconto. Il padrone, infatti, non ne è
sorpreso, e risponde semplicemente:"Un nemico ha fatto questo". Né
è inattesa l’affermazione che alla fine, al tempo della mietitura, grano e
gramigna saranno accuratamente separati: il grano accolto nel granaio e la
gramigna gettata nel fuoco. La vera meraviglia
dell’ascoltatore e del lettore, e quindi il vertice della tensione drammatica
della narrazione, nasce alla seconda risposta del padrone, che ordina di non
strappare la gramigna, ma di lasciarla crescere insieme al grano. Ma perché il padrone
vuole diversamente? Ad una lettura del
racconto, scopriamo che la punta del dialogo è il secondo botta e risposta.
Tuttavia, anche la prima domanda è molto seria, e la meraviglia dei servi
giustificata:"Signore, non hai seminato buon seme nel tuo campo? Donde
proviene la gramigna?". Nella sua genericità
questa domanda è universale e antica quanto l’uomo: se Dio è buono, perché
esiste il male nel mondo? Ma collocata nel contesto specifico del Vangelo, la
stessa domanda acquista un senso del tutto particolare: se il tempo
messianico è giunto, perché ancora il peccato nel mondo, persino nella
comunità cristiana? Che Dio permetta al male di convivere col bene lo si
sapeva. Lo sconcerto è che anche l’ultimo intervento di Dio, quello che si
immaginava diverso, non abbia cambiato le cose. Non doveva essere il tempo in
cui Dio avrebbe finalmente instaurato la giustizia nel mondo? E invece anche
il tempo messianico continua a sembrare un tempo in cui Dio promette
soltanto. La presenza del Regno sembra ancora nell’ordine dei segni, o della
profezia, non del compimento. All’interrogativo dei
servi, che vogliono conoscere il perché della presenza della gramigna (il
male), il padrone risponde laconicamente:"Un uomo nemico ha fatto
questo". Come a dire: non è colpa mia. Non aggiunge altro, perché
l’essenziale è detto. Cioè, la domanda più
importante non riguarda l’origine del male (che risale al gesto di superbia
dell’uomo nei confronti di Dio), ma come vivere nella storia, dove il bene e
il male crescono insieme. Il primo è un problema tecnico, il secondo è un
problema pratico. La parabola indugia su quest’ultimo. In ultima analisi la
presenza della gramigna non è volontà del padrone, ma dispetto di un nemico,
non sarebbe logico strapparla? Così pensano i servi:"Vuoi dunque che
andiamo a raccoglierla?". Ma il modo di ragionare del padrone è diverso. In definitiva Gesù non
vuole che i suoi discepoli si assumano il compito di mietitori, semmai quello
di seminatori. Gesù, come il padrone, non nega la necessità della
separazione. Dice semplicemente che il tempo non è giunto, e che il compito
di separare non spetta agli uomini. La presenza della
gramigna nel campo è opera di un nemico, ma permettere che essa cresca
insieme al grano è precisa volontà del padrone. La novità della parabola sta
qui, in questo comando del tutto inatteso, accompagnato da una
giustificazione non priva di ironia: "Perché non abbiate a distruggere
il grano insieme alla gramigna". Il bene e il male, i
santi e i peccatori crescono insieme, in un groviglio che non è facile
sciogliere. La morale è che non
dovremmo comportarci come i farisei del tempo di Gesù che pretendevano di
costruire il popolo santo di Dio (con le loro regole) separato dalla
moltitudine dei peccatori da accogliere e indicare loro la strada. SPIEGAZIONE DELLA PARABOLA MATTEO 13,36-40 LEGGIAMO. Come abbiamo letto e
meditato, Gesù lascia le folle, entra in casa e la sua parola è riservata ai
discepoli. Il brano si divide nettamente in due parti. I vers.37-39 sono una
specie di arido vocabolario che identifica sette elementi della parabola: il
seminatore del buon seme è Gesù, il campo significa il mondo, alla buona
semente corrispondono i figli del Regno, alla gramigna i figli del maligno,
nell’avversario si identifica il demonio, nella mietitura la fine del mondo,
i mietitori simboleggiano gli angeli. La seconda parte
vers.40-43 è una sintetica descrizione di carattere apocalittico del giudizio
ultimo, quando con gesto sovrano il Figlio dell’uomo opererà la separazione
definitiva tra gli uomini, assegnando agli uni la vita eterna e agli altri la
condanna. Soltanto il Figlio
dell’uomo e gli angeli sono rappresentati sempre dal proprietario e dai
mietitori; al campo della semina invece fa riscontro rispettivamente il mondo
e il Regno del Figlio dell’uomo, così ai figli del Regno corrispondono coloro
che fanno la volontà di Dio, mentre ai figli di Satana corrispondono coloro
che sono infedeli alla Parola di Gesù. Non solo, la parabola
della gramigna, che contraddice l’impazienza messianica del popolo e dei
discepoli, diventa ora una presentazione del giudizio nel suo esito opposto
di condanna e glorificazione, descritto con immagini forti. A questo punto il
centro di interesse viene spostato dal presente, che il racconto di Gesù
intendeva come tempo di coesistenza di buoni e malvagi, al futuro. In primo
paino non appare più la semina, né la crescita simultanea di grano e
gramigna, ma la mietitura che raffigura la separazione definitiva degli
uomini. Il tempo, fratelli e sorelle, ha spento gli entusiasmi delle origini, e di fronte ai peccati e alle defezioni la comunità dei credenti rischia di diventare indifferente: non più la meraviglia e lo scandalo, ma l’adattamento e la modernizzazione. Non più la tentazione della rigidezza, ma quella della confusione. L’appartenenza alla comunità cristiana non garantisce in sé la salvezza finale. Il giudizio non avverrà infatti in base ai criteri di carattere religioso o confessionale, ma secondo il metro significativo del comandamento dell’amore al prossimo. E’ nostro dovere combattere la falsa sicurezza dei cristiani che, fiduciosi negli elementi istituzionali e sacramentali della Chiesa, trascurano concretamente l’insegnamento di nostro Signore Gesù Cristo e non confidano nello Spirito Santo di Dio, la terza persona che impersona l’amore per eccellenza. Amen,alleluia,amen |
IL FATTO DELLA VITA Riso e fagioli, tutti i
giorni: però non ci si stanca e non viene a noia, perché il condimento li
rende sempre differenti. E’ il condimento che dà gusto e sapore. Perfino nei
cocktail succede la stessa cosa (quelli a base uguale), sono le aggiunte che
li rendono di cento e altri sapori. Cibo senza sale, motore
senza benzina, candela senza stoppino, stanza senza luce, radio senza pile:
tutte cose che non vanno bene. Come nella vita. Sono sempre le cose più
piccole quelle che fanno funzionare le cose grandi. Un po’ di sale è sufficiente
per dare sapore a molti chili di riso e fagioli. Oggi, come al tempo di
Gesù. Da buon osservatore Gesù sapeva approfittare di tutte le cose,
trasformandole in mezzo di comunicazione del suo insegnamento sul Regno di
Dio. Nota: Spesso, la nostra vita somiglia al riso e
fagioli senza condimento: tutti i giorni sono uguali. Una routine che nessuno
sopporta. Non c’è gusto: sempre la stessa cosa, lo stesso lavoro, gli stessi
bambini che piangono, la stessa scuola, la stessa strada, la stessa gente, lo
stesso autobus. Non succede niente di interessante. Tanta gente ne soffre. Ascoltiamo cosa ci dice
Gesù. DAL VANGELO DI MATTEO 5,13-16 E LUCA 11,34-36 leggiamo le
parabole Commento Gesù in questi due
brani del Vangelo dice che cosa rappresentano i discepoli per l’umanità. Il
confronto dei credenti non si fa più con la rivelazione delle esigenze
divine, ma con la propria responsabilità nei confronti del mondo. L’accento cade sulle
buone opere che i discepoli sono chiamati a compiere per essere luce e sale
della terra. Questa prospettiva etica permette un certo collegamento con il
Discorso della Montagna che abbiamo meditato. Non solo, il quadro di
pensiero che sta dietro sembra essere sapienziale. Infatti il sale era
immagine della sapienza e il sale diventato insipido raffigurava una persona
diventata stolta e insipiente. Con ogni probabilità
Gesù quando ha rivolto queste parole ai discepoli, in realtà, forse
esprimevano la perdita di significato del giudaismo, e rivolte ai capi
giudei, intendendo sottolineare la loro grave responsabilità di custodi
infedeli della parola del Signore, per cui che essi non commettessero lo
stesso errore. Come possiamo ben
comprendere non è difficile scoprire il tema di fondo di questa raccolta
redazionale. I discepoli sono responsabili nei confronti di tutta l’umanità.
Sena entrare nel merito della missione della Chiesa, bensì al significato che
ha nel mondo la sua presenza come testimonianza di vita vissuta. Lo scopo è
di portare gli uomini a riconoscere il Padre. Egli si rivela nell’esistenza
operativa di coloro che fanno la sua volontà. Le buone opere non sono certo
limitate a momenti religiosi e cultuali, ma sono l’espressività concreta
propria dei discepoli che, imitando Dio nell’amore verso tutti, anche verso i
nemici, si dimostrano figli suoi. Sale e luce del mondo.
Però sussiste il pericolo che si venga meno al grande compito, che si
distrugga con le proprie mani la significatività dell’essere cristiani. Può avvenire che non si
mandi più fasci di luce a illuminare gli uomini e che non si insaporisca più
l’esistenza. Il rischio, sempre incombente, è che non dica più niente di
fecondo e illuminante per tutti, perché non si opera nella linea
dell’esistenza propria dei figli di Dio che testimoniano con gesti d’amore
disinteressati. Ecco che Gesù scuote
allora come oggi, soprattutto le comunità sparse nel mondo contro la
stanchezza e la pigrizia. Le immagini sono molto chiare: il sale che diventa
insipido, la luce nascosta, contengono in sé una chiara minaccia.
L’abdicazione pratica dei credenti al loro compito di evangelizzare, di
amare, di ricercare il "tesoro" con ogni mezzo, priva il mondo del
beneficio della testimonianza cristiana, ma ha conseguenze gravissime anche
per i credenti, saranno condannati nel giorno ultimo. Amen,alleluia,amen. |
I farisei avevano sentito dire che Gesù battezzava e faceva più
discepoli di Giovanni. Quando Gesù lo seppe, lasciò il territorio della
Giudea e se ne andò verso la Galilea. (Non era Gesù, però, che battezzava;
erano i suoi discepoli). Per andare in Galilea, Gesù doveva attraversare la
Samaria. Commento L'episodio della
Samaritana è il più lungo dialogo riportato tra tutti i Vangeli. Anzi, questo
quadro della vita di Gesù, comprende, in realtà, due grandi dialoghi,
inquadrati da alcuni versetti narrativi. E' importante che ha parlare con
Gesù sia una donna, e che l'interlocutrice riunisca in sé una triplice
irregolarità: è donna, poi è samaritana, quindi malvista; la sia vita,
infine, non è stata irreprensibile. I dialoghi si
sviluppano secondo lo schema letterario dell'evangelista Giovanni:
l'alternanza delle rivelazioni di Gesù e l'incomprensione degli uomini. Il
colloquio è tutto un gioco che mette in luce la fatica intellettiva e del
cuore dell'uomo di fronte al mistero di Dio, e la pazienza di Dio che non
solo soddisfa le attese dell'uomo, ma le suscita. Non dobbiamo
dimenticare che tra Ebrei e samaritani non correva buon sangue da quando
questi ultimi si erano formati un regno ed un culto autonomo. Erano degli
scismatici, e per di più mescolati con coloni stranieri (assiri) praticanti
culti pagani. I rapporti erano improntati ad ostilità: condannati quelli
personali, evitato persino l'attraversamento della regione, situata tra
Giudea e Galilea, seguendo un percorso ben più lungo, pur di evitarli. L'episodio narrato è
ambientato al pozzo di Giacobbe: infatti, tutto il racconto prende le mosse
dall'A.T. (Rebecca e l'incontro con Isacco, Genesi 24, 10-67). Gesù le dice:"Dammi un po' d'acqua da bere". La donna si meraviglia
che un giudeo le chieda dell'acqua. Come ho già rammentato i Giudei non
andavano d'accordo con i samaritani. Per un Giudeo non vi era insulto più
grave che essere paragonato ad un samaritano. Dunque la donna si meraviglia
di questo Giudeo che non si comporta come gli altri. Ma il paradosso sta
altrove. Sta nel fatto che Gesù chiede dell'acqua, mente dovrebbe essere il
contrario. E', se ben ci pensiamo, il paradosso di un Dio che si fa bisognoso
e mendicante. Cioè il mistero di un Dio che si è fatto uomo, per avere il
pretesto di incontrare l'uomo e di donare loro l'acqua che disseta. E' la
meraviglia di un Dio che chiede per dare. In tal modo l'accoglienza di una
donna samaritana da parte di un giudeo appare segno dell'accoglienza
dell'uomo da parte di Dio. Gesù le dice: "Tu non sai chi è che ti ha chiesto da
bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui. Se tu sapessi,
saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva". La donna ha sentito la
domanda di Gesù, ma la sua preoccupazione va a ciò che la separa da lui: essi
appartengono a due popoli diversi e antagonisti. Sembra che il dialogo tra
loro non sia possibile. Inoltre la donna non sembra minimamente intenzionata
a dissetare Gesù, affaticato e senza mezzi per attingere acqua. Eppure i due,
poiché si sono scambiate alcune parole, hanno già infranto le barriere. E
Gesù continua a farlo; e anche la donna, ribadendo parola su parola. Ad un
certo punto Gesù parla di un'altra acqua, e la sua parola fa comprendere alla
samaritana di non sapere chi è colui che le parla. Eppure avrebbe bisogno
di conoscerlo e di conoscerlo come il dono di Dio o come uno che, conosciuto
e accolto, può donarle un'acqua viva. Perché è lei, la samaritana, che si
trova in una situazione d'assetata ( la vera tentazione d'ogni credente è
sempre quella di chiudere il dono di Dio entro la propria attesa; tuttavia
Dio non si lascia ridurre a questa pretesa dell'uomo e porta il discorso in
altre direzioni). "Sei tu forse più grande del nostro padre
Giacobbe?" I versetti che seguono
sono giustamente considerati il punto centrale del dialogo. La domanda della
donna era una curiosità motivata dal fatto che giudei e samaritani
discutevano molto su quel punto.. Sta di fatto che Gesù si serve della
domanda per fare una rivelazione più importante. La domanda della donna è
racchiusa nel passato, Gesù la costringe a guardare al futuro e a prendere
coscienza che nel mondo è arrivata la novità tanto attesa e che questa
rinnova il problema dalle fondamenta. Ecco perché la problematica del luogo
non ha più senso, perché Gesù afferma l'universalismo, quindi non è questione
di adorare Dio qui o là, ma perché addirittura il culto si è compiuto con
lui. Lo Spirito, a questo
punto, non è una realtà spirituale che si oppone al corpo, una realtà
interiore che si oppone alla realtà esteriore. Perciò il culto dello Spirito
non è il culto interiore, spirituale, individuale, in contrapposizione al
culto esteriore e pubblico. Lo Spirito è la realtà divina che solleva l'uomo
dalla sua impotenza, dalla sua cecità secolare. E la Verità è la rivelazione
di Dio manifestatasi nelle parole, nella storia e nella persona di Gesù.
Quindi il culto "in spirito e verità" è il culto dell'uomo nuovo
che ha gettato l'abito vecchio, colui che ha accolto la Parola ed è stato
rinnovato dallo Spirito. E' importante sottolineare, per quanto detto, che il tema posto dalla donna non è stato tralasciato, ma che la risposta di Gesù tratta del luogo del vero culto, del vero Tempio che è Gesù stesso il nostro tempio che sostituisce da quell'istante il santuario del mente Garizim e quello di Gerusalemme, perché solo lui è la porta attraverso la quale si arriva al Padre celeste. La donna dice: "So che deve venire il Messia"; e
Gesù: "Sono io il Messia, io che parlo con te". I versetti contengono
un'esplicita autorivelazione messianica di Gesù. I samaritani descrivevano il
Messia come una figura umana, mortale e pensavano che sarebbe stato sepolto
sul monte Garizim. Essi si ispiravano in particolare al Deuteronomio
18,15-18, un passo dove Mosé dice al popolo che il Signore Dio susciterà per
essi, tra loro, tra i fratelli un profeta simile a sé medesimo; e che
dovevano dargli ascolto. Ecco perché i samaritani attendevano il Messia quale
nuovo Mosé, un Mosé redivivo: che come lui sarebbe stato profeta, avrebbe
indicato la verità svelando ogni cosa che era nascosta. Inoltre avrebbe
insegnato la Legge (ovviamente quella samaritana) ai giudei e a tutto il
mondo: vale a dire che sarebbe stato lo strumento che portava al mondo la
vera Legge e la restaurazione religiosa e politica in Israele. Nella prospettiva di
questa attesa messianica tipica dei samaritani, comprendiamo meglio le
affermazioni disseminate nello svolgersi del dialogo tra Gesù e la donna: il
riconoscimento di Gesù come profeta; la proclamazione del nuovo culto, le
parole della donna "so che deve venire un Messia chiamato Cristo, quando
verrà ci annuncerà ogni cosa". Con la sua solenne
proclamazione messianica: "Sono io, io che ti parlo", Gesù dichiara
di essere colui che compie le attese dei samaritani. Egli è il profeta, il
rivelatore, il restauratore del vero culto. "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello
che ho fatto". "Che sia egli il Cristo?" E' rea confessa, se ben
ci pensiamo. Nulla è detto di un perdono concessole. Eppure era il pentimento
che a Gesù soprattutto interessava. Ma Gesù sa valutare e attendere. Possiamo
supporre che quella donna non avesse il senso del peccato; nessun accenno o
gesto in merito. Tuttavia il fondo religioso manca, lo si comprende dalla
problematica che imposta e dal fatto che al sopraggiungere dei discepoli,
mossa dalla rivelazione e dall'inizio del senso di peccato, va a fare
"pubblica confessione" ai concittadini, ritenendo che Gesù possa
essere il Messia, il rappresentante di Dio e invita a chiarire un aspetto
tanto importante. Certamente non può
essere stata lei a guidare a Gesù quanti cedettero alle sue parole. E se
costoro lo trattengono per due giorni, indubbiamente Gesù ha annunciato
l'avvento del Regno di Dio. E la donna è con loro ad ascoltarlo. Infatti,
alla fine dichiarano: "Non è più per la tua parola che noi crediamo, ma
perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il
Salvatore del mondo", è segno che la donna ha sostenuto la parte di
protagonista nel condurre a Gesù i concittadini e seguirli. L'incontro con Cristo
si fa contagioso, e l'incontro si fa testimonianza. In questo dialogo Gesù
vuole dirci, come del resto in tutti i Vangeli, che la salvezza è per tutti.
Le barriere del giudaismo sono crollate. Infatti, questo episodio è
prefiguratore dell'universalità della Chiesa per via della conversione dei
samaritani. Inoltre si tratta del primo significato missionario e quindi
prefiguratore dell'universalismo cristiano. Gesù dice ai suoi che la messe è
pronta. Per dire che l'attesa
di Israele è compiuta e la missione è urgente. Per sottolineare che la
missione si muove in un contesto di umiltà e gratuità: è Cristo che ha
seminato, ma è lo Spirito che ha fatto maturare. Una situazione di grazia che
si riflette nella Chiesa: altri è chi semina, altri è chi miete. L'episodio
della samaritana termina ricordando la conversione dei samaritani e
l'accoglienza fatta a Gesù. Tutto questo è veramente l'anticipo della
conversione dei non giudei, di cui la comunità farà in seguito esperienza. Ma dobbiamo
sottolineare il concetto di fede: la fede si fa contagiosa, l'incontro con i
testimoni di Cristo è solo il primo passo. La vera fede sorge quando si
incontra personalmente il Cristo. Fratelli e sorelle,
come la samaritana, tutti noi dovremmo essere umili e chiedere al Signore il
dono dell'acqua che sgorga dal suo cuore e che ha il potere di renderci
felici per la vita eterna. Sono certo che nella misura in cui ci impegneremo
nella ricerca di quest'acqua, il Signore Gesù ci ricompenserà, anzi, ci darà
molto di più di quanto osiamo sperare, come ci ricorda l'apostolo Paolo:
"Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria
futura che dovrà essere rivelata in noi "(Rm.8,18). Amen,alleluia,amen. |
"Poi Gesù
raccontò un'altra parabola per alcuni che si ritenevano giusti e
disprezzavano gli altri. Disse: "Una volta c'erano due uomini: uno era
fariseo e l'altro era esattore delle tasse. Un giorno salirono al tempio per
pregare. Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così tra sé: "O Dio,
ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini: ladri, imbroglioni,
adulteri. Io sono diverso anche da quell'esattore delle tasse. Digiuno due
volte alla settimana e offro al tempio la decima parte di quello che
guadagno". Commento Gesù narrando questa
parabola ci parla ancora della preghiera. Egli c'insegna che la preghiera è
un'esperienza spirituale d'intensa intimità con Dio che ci è Padre: una
preghiera che non guarda al cielo per scordare l'umanità, ma al contrario le
schiude l'orizzonte di una salvezza totale e definitiva. Non vi siete mai
chiesti come mai oggi le sètte e i movimenti religiosi esercitano tanto
fascino? Una delle ragioni è senz'altro la proposta di verità indiscutibili e
una prassi cultuale precisa che diano sicurezza, dispensino dal dubbio e
dalla faticosa ricerca personale. Per questo nelle sètte e nei movimenti
religiosi tutto è demandato al "capo carismatico". Il fariseo dichiara la
verità. E' vero che osserva attentamente la Legge e ha grande spirito di
sacrificio. Addirittura non si accontenta dello stretto necessario, fa di
più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescritto, ma due.
Egli sta in piedi, con le braccia alzate e la testa rivolta verso l'alto.
Ringrazia Dio, nella forma canonica della preghiera biblico-giudaica: la lode
e il ringraziamento a Dio per essere esente dai vizi degli altri uomini, e
poi perché è ricco d'opere meritorie. Osserva attentamente la Legge e il
compimento della volontà di Dio, anzi completa le prescrizioni rituali con
pratiche supplementari. Formalmente, come
possiamo notare, si tratta di una preghiera irreprensibile, non è una
caricatura, perché si tratta dello spirito del fariseismo. Il suo torto non
sta nell'ipocrisia, che Gesù smaschera senza mezze misure, bensì nella
fiducia nella propria giustizia. Egli si ritiene in credito presso Dio: non
attende la sua misericordia, non si aspetta la salvezza come un dono, ma come
premio che gli è dovuto per il bene fatto e per avere seguito le norme
rigidamente. Egli fa risalire a Dio,
in un certo modo, la propria giustizia. Ha perso per strada la sua originaria
dipendenza da Dio. Tant'è vero che , a parte il "Ti ringrazio"
iniziale, non prega, non guarda a Dio, non si confronta con Lui, non attende
nulla da Lui, né non gli domanda nulla. Si concentra su se stesso e si
confronta con gli altri, emettendo giudizi piuttosto duri. E' in questo suo
atteggiamento che non c'è nulla della preghiera. Si batte il petto come
un disperato, supplica istintivamente perché si sente peccatore che non è in
grado nemmeno di elencare le sue colpe, sussurra, infatti: "Dio, abbi
pietà di me peccatore". E' consapevole di
essere un peccatore, sente il bisogno del cambiamento, di una rinascita e,
soprattutto, ha la consapevolezza di non poter pretendere niente da Dio.
Nulla ha da vantare e nulla da esigere. Può solo sperare. Fa affidamento su
Dio, nella sua misericordia, non su se stesso. Questa è l'umiltà di cui parla
la parabola, l'atteggiamento che Gesù loda: non elogia la vita del pubblicano,
come non ha disprezzato il fariseo. Conclusione La morale della
parabola è chiara e semplice: l'unico modo corretto di porsi di fronte a Dio,
nella preghiera e nella vita, è quello di sentirsi costantemente bisognosi
del suo perdono e del suo amore. La giustizia che il fariseo vantava davanti
a Dio come conquista di uno sforzo personale, il pubblicano l'ha ricevuta
come dono misericordioso dal Signore. Ovviamente Gesù non
afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano. Le sue opere
sono buone, e tali restano (ci mancherebbe!). Non sono le sue azioni ad
essere criticate, ma il modo di considerarle. E non perché egli le
attribuisca a se stesso, come a volte si dice. In realtà le attribuisce a
Dio. L'errore sta nel fatto di guardare Dio alla luce delle proprie opere.
Per Gesù invece lo sguardo deve sempre andare da Dio a noi, non da noi a Dio. Fratelli e sorelle, la
nostra vita è stata pensata e voluta da Dio come una faticosa ricerca della
verità, mettendo in conto anche il rischio di sbagliare. Dio non vuole
semplicemente dei figli "obbedienti" (in ogni caso importante), ma
dei figli capaci d'amare. Il cristiano non è perfetto, ma un perdonato. Solo chi si sente amato e perdonato sa amare e perdonare gli altri a sua volta. Conseguentemente è giustificato, cioè salvato. Amen,alleluia,amen. |