Il Libro di
Giobbe L’Uomo che discute con Dio Anno Pastorale 2005-2006 |
Il problema del male, del dolore, della morte, è uno dei
grandi problemi che Israele si pone. La sapienza più antica, quella contenuta
nel libro dei Proverbi, cerca una spiegazione al problema del male attraverso
l'idea della retribuzione, ovvero nella convinzione più volte affermata che
Dio premia i giusti (cf. Prov
14,26-27) e punisce i malvagi (cf.Prov 5,21-22);
così «la casa degli empi rovinerà, ma
la tenda degli uomini retti avrà successo» (Prov 14,11) e ancora «la
maledizione del Signore è sulla casa del malvagio, mentre egli benedice la
dimora dei giusti" (Prov 3,33). E senz'altro vero che l'idea della giustizia retributiva
di Dio resta, sia nel libro dei Proverbi come in gran parte della Bibbia
ebraica, un'idea molto radicata e, allo stesso tempo, del tutto agganciata
alla vita terrena; manca infatti ai saggi la fede in
una sopravvivenza dell'uomo oltre la morte, fede che si svilupperà in Israele
soltanto più tardi, a partire dal III sec. a.C. (v.
la scheda su Gb 3). Per questo motivo la
retribuzione divina appare ai saggi come un premio o una punizione che il
Signore dispensa agli uomini durante la loro vita terrena. Così "al giusto non può capitare alcun
danno, gli empi saranno pieni di mali» (Prov
12,21). Più volte i saggi richiamano questa realtà, per loro del tutto ovvia,
che cioè i giusti saranno sempre felici, mentre i malvagi vivranno
perennemente nell'angoscia: «ecco, il
giusto è ripagato sulla terra, tanto più lo saranno l'empio e il peccatore» (Prov 11,51). Le osservazioni dei saggi sulla diversa sorte dei giusti
e degli empi non nascono tuttavia da posizioni dogmatiche, quanto piuttosto
sono tratte dall'esperienza. I saggi sono convinti, infatti, che esista una
relazione molto stretta tra ogni azione umana e il suo risultato, positivo o
negativo che sia: così l'esperienza insegna che «la mano pigra fa impoverire, la mano operosa arricchisce» (Prov 10,4), e ancora che «chi scava una fossa vi cadrà dentro e a chi rotola una pietra gli
ricadrà addosso» (Prov 26,27). Ciò che accade
al giusto, all'uomo laborioso nel caso di Prov
10,4, non è altro che la logica conseguenza delle sue azioni, cosi come
avviene al malvagio, catturato dalle sue stesse trappole; è vero allora che «chi semina l'ingiustizia raccoglie la
miseria» (Prov 22,8). Si tratta di osservazioni
di carattere esperienziale che non mancano tuttavia
di valore. L'intervento di Dio a favore dei giusti o a punizione
dei malvagi non va allora inteso come una meccanica sanzione decisa da un
anonimo tribunale, che distribuisce premi e punizioni applicando un codice
rigoroso. Quando leggiamo che «il
Signore non lascia patir la fame al giusto, ma delude la cupidigia degli
empi» (Prov 10,3), l'azione di Dio è sulla
linea di quanto visto sopra a proposito di 10,4: è anch'essa una conseguenza
logica del comportamento umano. Così leggiamo ancora che " il giusto mangia a sazietà, ma il ventre degli empi soffre la
fame» (Prov 13,25). L'opera del Signore a
favore del giusto e a danno del malvagio va di pari passo con ciò che essi
hanno costruito tramite le rispettive azioni: se il bene chiama altro bene su
chi Io compie, il male commesso crea ulteriori situazioni negative per chi lo
ha fatto. Ma è proprio vero che l'esperienza della vita porta
necessariamente a tali ottimistiche conclusioni, che cioè chi fa il bene verrà premiato, chi fa il male, invece, verrà punito e
tutto ciò avverrà in questa vita? L'esperienza dell'esilio babilonese segnò
per Israele una crisi molto forte che mise in discussione simili convinzioni.
Saranno altri saggi d'Israele a mettere in dubbio queste certezze e lo
faranno in modo davvero radicale: tra il IV e il III
sec. a. C. abbiamo così prima il libro di Giobbe,
poi quello del Qohelet. Entrambi i testi lanciano
un attacco frontale all'idea della retribuzione: non sempre a una azione buona fanno seguito conseguenze positive, e
viceversa. Molto spesso, anzi, non sembra proprio che Dio intervenga in
questo mondo per punire i malvagi e premiare i giusti; la realtà appare non
di rado funzionare esattamente al contrario. Proprio l'esperienza della vita
insegna a Giobbe e al Qohelet che vi sono casi nei
quali i malvagi vivono nella felicità e nel benessere, mentre i giusti vengono colpiti da sofferenze senza fine. L'ottimismo dei Proverbi va così di pari passo con il
realismo di Giobbe e del Qohelet e di questo si
deve tenere conto. Il messaggio degli antichi saggi viene
ridimensionato; non sempre i giusti in questa vita vengono premiati e gli
empi puniti. Eppure ne Giobbe ne il Qohelet concluderanno che per questo motivo Dio debba
essere considerato ingiusto o peggio che Dio non esista; anzi, sia Giobbe che
il Qohelet inviteranno gli uomini a non trarre
conclusioni troppo rapide dalla loro ricerca sapienziale,
senza prima aver incontrato e rispettato il mistero dell'agire di Dio. Il
saggio resta un uomo di fede, anche quando contesta Dio stesso, come fa
Giobbe. |
La multiforme esperienza del male, che suscita inevitabilmente
l'interrogativo: «Perché?» Tale domanda ha trovato nel Libro di Giobbe la
sua espressione più drammatica ed insieme una prima parziale risposta. La
vicenda di quell'uomo giusto, provato in tutti i
modi nonostante la sua innocenza, mostra che «non è vero che ogni sofferenza
sia conseguenza della colpa e abbia carattere di punizione. La risposta piena e definitiva a Giobbe è Cristo.
«Soltanto nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero
dell'uomo» (Gaudium et Spes, 22). In Cristo anche il dolore è assunto nel
mistero della carità infinita, che si irradia da Dio Trinità e diventa
espressione di amore e strumento di redenzione, diventa cioè dolore
salvifico. |