Genesi (
1-11) Anno Pastorale |
La cosmogonia con cui
Mosé apre Genesi spinge la mente verso i confini di
se stessa e costringe la ragione e l'immaginazione fino alle soglie
dell'intuizione. Essa impone all'amante della Bibbia una
resa incondizionata: gli fa toccare con mano la propria piccolezza nel
momento in cui si apre il sipario sull'impensabile, l'inimmaginabile:
"In principio". Questa paroletta è
paralizzante, perché annulla d'un sol colpo tutto il creato: nulla ancora
esiste, io non esisto. Ed ecco che l'unica cosa viva è la Bibbia, grazie alla
quale sta per nascere qualcosa, essendo essa parola creante. Il Libro era
chiuso ed il Silenzio era sovrano. Improvvisamente l'ho aperto, ed ecco Berescit, in principio". |
UOMO
CUSTODE DELLA NATURA
Nel
corso della sua storia l'uomo ha sperimentato via via
la natura come forza sacra da rispettare (religioni orientali) o come potenza
minacciosa da esorcizzare (animismo magico), come
padrona da propiziare assecondandone i ritmi (civiltà contadina) o come
oggetto da manipolare (civiltà tecnologica moderna). Per millenni l'uomo si è
sentito dipendente dalla natura e impotente di fronte al suo corso,
oscillando tra l'atteggiamento difensivo e quello fatalista. Nell'epoca
moderna i progressi della scienza e della tecnica hanno rovesciato l'antico
senso di impotenza nell'opposta pretesa di onnipotenza manipolatrice,
degenerata in quell'atteggiamento di prepotenza
per un presunto diritto di uso e di abuso che è all'origine dell'attuale
crisi ecologica. Genesi
1-3 presenta il rapporto dell'uomo con la natura nel contesto dell'antica
esperienza del mondo (l'uomo minacciato dalla natura), opposto a quello
attuale (la natura minacciata dall'uomo): questo spiega l'accentuazione
polemica della dipendenza della natura e la sua aperta desacralizzazione.
Il rapporto è prospettato in due quadri distinti. Il primo richiama l'armonia
del rapporto del giardino dell'Eden, originario, ideale, che corrisponde al
progetto divino e che rappresenta la meta a cui
tendere. Il secondo fa riferimento alla conflittualità del rapporto “storico”
inquinato dal peccato. Normativo è evidentemente il primo quadro, che vede la
natura donata all'uomo e affidata alle sue cure. Questo
affidamento viene presentato nel racconto
“Sacerdotale” come dominio (Genesi 1,26-30), in quello “Jahvista”
come coltivazione e custodia (Genesi 2,15). Particolarmente significativo è
poi il contesto la solitudine di Adamo (“Non è bene che l'uomo sia solo”)
in cui è collocata la creazione degli animali e l'invito divino a dare a
ciascuno di essi un nome (segno di appartenenza). Il
“dominio” di cui parla il testo non va equivocato: è quello che l'uomo è
chiamato ad esercitare come “immagine” (ad imitazione) di un Dio che ama e
cura le sue creature. Non ha quindi nulla di arbitrario e di tirannico. Plasmato
dalla polvere del suolo (Genesi 2,7), l'uomo rimane a tal punto solidale con
la terra che, per la fede cristiana, la risurrezione finale comporterà una
“nuova terra” quale contesto di una salvezza che riguarda non solo l'anima
(ciò che nell'uomo trascende la natura), ma anche il corpo (che rappresenta
la nostra radicazione nella natura). Certo,
l'uomo non è solo parte della natura. Quale immagine di Dio e depositario
dell'alito divino (Genesi 2,7), è signore, centro e vertice di un mondo che
solo in lui si fa consapevole del dinamismo che lo sospinge alla propria
meta. Questo non significa che egli possa disporre
arbitrariamente delle cose. La natura, pur messa nelle sue mani, resta opera
di Dio, e, come tale, titolare di una dignità e di un valore “proprio”, che
l'uomo deve riconoscere e rispettare. In
quanto frutto della Parola di Dio, la natura ha infatti
anche qualcosa da dire e da insegnare al suo custode. Reca le tracce del
Creatore e ad esso rinvia (Sapienza 13,1-5; Romani
1,20). Riflesso della sapienza divina, può insegnare un po' di questa
saggezza all'uomo, aiutandolo a comprendere e a realizzare la propria
missione nel mondo. Nel
corso della storia cristiana queste idee sono state riprese nel contesto di
culture non sempre del tutto adatte a svilupparne la fecondità. Così
nell'Oriente cristiano, sotto l'influsso platonico, la natura è stata vista
come segno e allegoria del divino, ma anche come velo e potenziale ostacolo
al contatto con la vera realtà, quella trascendente, accentuando più
l'inconsistenza che il valore delle cose. L'epoca
moderna vede la natura ridotta ad oggetto che l'uomo plasma con le proprie
mani (scienza, tecnologia), producendo un mondo sempre più artificiale. Oggi
godiamo, certo, dei notevoli vantaggi della rivoluzione scientifica e
tecnologica, ma assistiamo anche al dissesto ambientale prodotto dalla violazione
dei diritti di una natura a cui abbiamo tolto la
parola. A
questo punto la fede biblica nella creazione si ripropone in tutta la sua
attualità prospettandoci una natura né da risacralizzare
(alla “New Age”) né da manipolare arbitrariamente,
ma da considerare come nostro ambiente vitale nel cammino verso la meta a cui Dio ci chiama. Una natura di cui siamo parte (in
qualche modo la natura è il nostro corpo comune), con cui siamo solidali. Una
natura di cui dobbiamo essere curatori, non despoti arbitrari, che possiede
un valore che non deriva da noi ma dal comune Creatore. Una natura che ci è
compagna (Francesco d'Assisi la sente addirittura “sorella”) e, per certi
aspetti, anche maestra. Giacomo Panteghini
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Creazione ed evoluzione
Del
cielo e della terra, delle piante, degli animali e dell'uomo possono parlare
lo scienziato, il filosofo, il teologo, ognuno secondo le sue competenze e in
base ai metodi che utilizza: le scienze naturali si basano sull'osservazione
e sulla sperimentazione, la filosofia sul concetto e sul significato
dell'essere, la teologia sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione della
Chiesa. Intorno alle origini dell'universo e dell'uomo si pongono tanti
interrogativi. Alcuni chiamano in causa direttamente la scienza: quando,
come, dove...; altri, come quelli sul perché, sul
significato, attendono risposta dalla filosofia e dalla teologia. Non sarebbe
corretto dare risposte a domande che esulano dalle proprie competenze. La
Bibbia ha osservato sant'Agostino e con lui
Galileo Galilei non ci dice la verità sul corso del sole e della luna, non
ci dice che cos'è il cielo, ma ci dice come si va in cielo. Il messaggio
della Bibbia, anche quando utilizza “generi letterari”, è essenzialmente
religioso, ci offre verità importanti intorno al significato dell'esistenza,
non è di tipo scientifico, come pretende una lettura “fondamentalista”
della Bibbia. Non
si può far dire alla scienza quello che essa non può dirci, perché non
rientra nel suo orizzonte conoscitivo, come ad esempio la dimostrazione o la
negazione dell'esistenza di Dio o dell'anima. Non si può fare dire alla
Bibbia quello che essa non vuole dirci, perché anche quando si porta su
oggetti affrontati dalla scienza, lo fa con intendimento religioso,
riutilizzando le conoscenze del tempo a cui risale
il testo sacro. Sarebbe fuori luogo cercare concordismi
con le vedute attuali della scienza. “Fede
e scienza”, ha osservato Giovanni Paolo II, “appartengono a due ordini di
conoscenza diversi, che non sono sovrapponibili... La
ragione può cogliere l'unità che lega il mondo e la verità alla loro origine
solo all'interno di modi parziali di conoscenza” (Discorso agli scienziati di
Colonia, Secondo
le attuali conoscenze scientifiche la formazione dell'universo risale a circa
15 miliardi di anni fa. L'origine della terra a 5 miliardi di anni fa. Le
prime forme viventi a 3,5 miliardi di anni fa. Nell'ambito
dei primati fossili, intorno a 4 milioni di anni fa si individua in Africa
una linea molto interessante, rappresentata dagli australopiteci,
i quali già usavano due arti per muoversi, facevano uso della mano per
afferrare pietre o bastoni, anche per difendersi da animali predatori, ma
avevano un cervello ancora non molto sviluppato. Sono conosciuti in una forma
arcaica, più antica, e in due forme, robusta e gracile, che si ritrovano in
un arco di tempo fra 3-2 milioni e 1 milione di anni fa. Due
milioni di anni fa esisteva in Africa anche un ominide più evoluto, a cui è stata data la denominazione di Homo habilis a motivo della maggiore capacità cranica, di un
certo sviluppo delle aree encefaliche per il linguaggio articolato e della
capacità di fabbricare intenzionalmente manufatti (industria su ciottolo o “olduvana”), oltre che di organizzare il territorio
attraverso insediamenti temporanei. In seguito si ritrovano forme anche più
evolute: è la fase di Homo erectus, che si sviluppa
in Africa e si irradia in Europa e in Asia in un arco di tempo che va da 1,6
milioni a circa 150-200.000 anni fa, quando compaiono i più antichi
rappresentanti di Homo sapiens (nella forma arcaica e neandertaliana).
A partire da 35.000 anni fa si ritrovano ormai soltanto forme moderne (Homo sapiens sapiens) nei vari
continenti. Anche se alcuni studiosi sollevano dubbi sul livello umano di
Homo habilis, si ammette da tutti
una continuità tra le forme habilis, erectus e sapiens. Del resto, l'elemento nuovo che emerge
già in habilis è la cultura che anche nelle sue
espressioni elementari rivela progettualità e capacità
innovative, proprie dell'uomo. In ogni caso la comparsa dell'uomo rappresenta
una direzione singolarissima dell'evoluzione (quella di maggiore cerebralizzazione) e segna un evento che trascende la
sfera puramente biologica. La
teoria evolutiva viene ritenuta la spiegazione più
plausibile delle forme fossili preumane e umane,
come pure delle piante e degli animali fossili. Un problema ancora aperto è
invece la spiegazione delle cause e dei meccanismi dell'evoluzione biologica.
Il modello darwiniano, che individua le cause
dell'evoluzione nelle variazioni della specie (modernamente intese come
mutazioni genetiche) e nella pressione selettiva operata dall'ambiente, che
nel corso dell'evoluzione si è sensibilmente modificato, è ritenuto valido da
molti studiosi, essenzialmente a livello microevolutivo, ma non sufficiente
per spiegare tutto il processo evolutivo, soprattutto le grandi direzioni che
si disegnano nel corso dell'evoluzione e ben difficilmente potrebbero
spiegarsi, anche per il poco tempo a disposizione, con modalità puramente
casuali. Ma
a prescindere dalle modalità con cui tutta la realtà viene da Dio e dal suo
sviluppo nel tempo, ci si può chiedere quali punti debbano
essere tenuti fermi e quindi sono irrinunciabili anche in una interpretazione
evolutiva della realtà e dell'uomo. Essi possono essere individuati nei
seguenti. Tutta la realtà creata viene da un Dio trascendente e personale.
L'evoluzione suppone sempre la creazione, cioè un rapporto di radicale
dipendenza da Dio non solo agli inizi delle cose, ma anche nella loro
conservazione. Ha osservato Giovanni Paolo II: “Una fede rettamente compresa
nella creazione e un insegnamento rettamente inteso dell'evoluzione non
creano ostacoli... La creazione si pone nella luce
dell'evoluzione come un avvenimento che si estende nel tempo - come una creatio continua , in cui Dio diventa visibile agli
occhi del credente come il creatore del cielo e della terra” (“Fede cristiana
ed evoluzione”, L'evoluzione
cosmica e l'evoluzione biologica si sviluppano secondo un disegno superiore.
Esse corrispondono a un progetto di Dio, in qualunque modo si sia realizzato
tale progetto, fosse anche per eventi casuali, che Dio ha preveduto in un
quadro di possibilità e di leggi o principi d'ordine insiti nella materia. In
tale disegno l'uomo si presenta come il punto culminante del processo
evolutivo. L'uomo
ha una trascendenza rispetto alle altre creature in forza del principio
spirituale che lo caratterizza, l'anima. Essa non può derivare da altri esseri
di ordine materiale, ma richiede un concorso particolare di Dio creatore,
analogamente a quanto avviene nella formazione di ogni essere umano. In
conclusione, la vera alternativa non è tra evoluzione e creazione, ma tra la
visione di un mondo autosufficiente, capace di crearsi e trasformarsi da sé
per eventi puramente casuali e la visione di un mondo in evoluzione,
dipendente da Dio creatore, secondo un suo disegno. Fiorenzo Facchini
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Il peccato nel mondo
L’essere
umano non cessa di stupire. Sia nel bene che nel male. Anche se bisogna pur
dire che il bene stupisce sempre assai meno del male: i giornali
scandalistici, infatti, non fanno fortuna raccontando opere buone, ma omicidi, stupri, frodi e tradimenti. In realtà
sembra che nessuno si stupisca del bene. Il bene continua sempre ad avere un
certo suo aspetto di normalità, nonostante che il male sia
così tanto diffuso. La disonestà, l'inganno e la violenza, invece, continuano
a stupire tutti, pessimisti e ottimisti. È che ciascuno lo sente d'istinto
come qualcosa che non dovrebbe mai accadere. Da
qui viene la grande domanda: perché e come mai ciò che non dovrebbe mai
accadere accade? Perché e come mai dall'interno dell'uomo, dai suoi
sentimenti, dalle sue passioni e dalla stessa sua intelligenza possono
scaturire tante cose così orribili? E ciò che meraviglia di più non sono
tanto i gravi delitti commessi da uomini perversi, quanto l'esperienza,
drammaticamente descritta da san Paolo, come pure dall'antico poeta pagano
Ovidio, dell'uomo normale, che cerca e desidera l'onestà e il bene e poi, in
realtà, misteriosamente sopraffatto dal male, commette ciò che non vorrebbe e
non fa il bene che avrebbe desiderato compiere. Questa
condizione umana ha sempre tormentato lo spirito e l'intelligenza dell'uomo:
come mai e perché? Nella tradizione della fede cristiana c'è un termine, ben
noto a chiunque abbia frequentato il catechismo, che vuol suggerire una
risposta: il peccato originale. Da un lato vuol dire semplicemente il primo
peccato commesso dall'uomo nella sua storia. Dall'altro vuol significare una
situazione di peccato in cui è rimasta coinvolta la natura umana, nella quale
l'uomo si trova ad esistere prima ancora di una sua qualsiasi libera
decisione. La
Bibbia ci descrive con meravigliosa finezza e rara penetrazione psicologica
il meccanismo perverso della colpa: l'incredibile attrazione che il male, poi
da tutti deplorato, esercita sull'uomo sembra essere dovuta
ad una potente volontà di indipendenza e alla presunzione di poter essere
legge a se stessi, invece di accettare quella di Dio. La grande tentazione
viene dal serpente, simbolo di Satana. Però si potrebbe dire che essa è anche
inscritta nella stessa natura dell'uomo: Dio ci ha resi veramente padroni del
nostro destino, dandoci l'enorme potere dell'intelligenza, della penetrazione
dei segreti delle cose e, soprattutto, quella magnifica e tremenda capacità
di poter decidere da noi cosa vogliamo fare e come vogliamo essere. Alla
suprema grandezza della creatura umana sembra così congiungersi
inesorabilmente il più alto dei rischi: essere uomini è come camminare su di
una lama di rasoio. Essere esenti, però, dal rischio
della libertà significherebbe non essere più uomini, ma animali o automi. La
salvezza dell'uomo è la grazia. Cioè il fatto che Dio non l'ha creato così
per divertirsi, ma perché solo con una creatura così gli sarebbe stato
possibile avere un dialogo e uno scambio d'amore. È grazia, quindi, che Dio,
oltre che essere sopra di noi, ci sia vicino. E fu grazia, quella dei
primogenitori descritti dalla Genesi, destinata a garantire un futuro per
l'uomo, nell'armonia dei suoi rapporti di amore con i fratelli e con Dio. Il
peccato dell'origine non fu quindi solamente la caduta nella presunzione di
essere i padroni del bene e del male, ma allo stesso tempo ignoranza e
rifiuto di una condizione, che potremmo definire di
privilegio, nella quale la mano tesa di Dio rendeva possibile all'uomo, in un
quadro d'amore, camminare sul filo del rasoio della sua nobiltà, senza
scivolare nella follia del suo orgoglio. Secondo
la Bibbia così comincia la storia dell'uomo. E tutto ciò che segue ne resta
irrimediabilmente segnato. Certamente nessun uomo nasce colpevole, però
nessuno nasce in una umanità innocente. La natura
umana è rimasta in possesso della ricchezza della sua libertà, ma spogliata
del dono che le avrebbe reso possibile goderne gioiosamente, senza il tarlo
dell'orgoglio e della ribellione. Ecco perché abbiamo bisogno di Gesù: egli è
venuto a riportare nel cuore della natura umana, che ha fatto propria,
l'apertura dell'amore e della dedizione. L'aspetto deplorevole della
condizione umana non è che l'uomo sia libero, ma che egli tenda
nell'esercizio della sua libertà a ripiegarsi su se stesso, a fare di sé la
meta dei suoi desideri, a porre se stesso in cima a tutte le cose. La
salvezza di Cristo non per nulla è tutta lì, in quell'esito
impensabile e conturbante della sua opera messianica che è la sua croce.
Gesù, infatti, è l'anti-Adamo: in Adamo l'uomo
presume di essere dio, in Gesù il Figlio di Dio si fa uomo; Adamo afferma se stesso mentre Gesù si nega a se stesso per darsi agli
uomini e al Padre. Poche sentenze di Gesù sono così cariche di significato
quanto questa: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà
la propria vita per me la salverà”. Sembra assurdo eppure è chiaro: è dandosi
che ci si ritrova, con Dio e con i fratelli, nell'amore; mentre, cercando se
stessi non si può trovare altro che la propria solitudine, come Adamo ed Eva
che dopo aver preteso di essere come Dio si ritrovarono nudi. Severino Dianich
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DIO
VIDE CHE CIÒ ERA BUONO
II
racconto biblico della creazione come abbiamo già detto, non ha intenzioni
scientifiche nel senso che noi diamo oggi a questa espressione,
ma intenti missionari nel senso che anche oggi noi diamo a questo
termine. Rispecchia
le cognizioni del tempo e riflette la rappresentazione cosmologica
dell'antichità e in modo particolare degli Assiro-Babilonesi. Occorre
perciò distinguere tra « rappresentazione » e « rivelazione ». La
rappresentazione riflette fatalmente la cultura dell'epoca. La rivelazione
concerne le verità permanenti. La prima è figlia del tempo; la seconda è
figlia dell'eternità. Che
la terra fosse piatta e il cielo curvo, che l'Oceano
contornasse l’arida e il sole pendesse come una lampada, riguarda la
rappresentazione del cosmo, e non fa parte della rivelazione religiosa, la
quale riguarda invece le credenze mitiche e idolatriche del tempo, contro cui
la Bibbia afferma in maniera nettissima resistenza d'un solo ed unico Dio;
d'un solo ed unico Creatore. La
rivelazione perciò riguardava non l'astronomia, che faceva parte della «
rappresentazione » del tempo, ma il « monoteismo »,che
è verità permanente di tutti i tempi, e doveva essere stabilito dinanzi a
tulle le false credenze mitologiche e idolatriche. Le
mitologie orientali infatti narravano fantastiche
storie di divinità in lotta fra di loro: di un dio della Luce e di una dea dell'Oceano
; di potenze celesti e terrestri ; di geni del bene e del male, che si
contendevano il dominio del mondo, ognuno col proprio nome, ognuno con una
propria sovranità, ognuno con un proprio dominio. Il
libro della Genesi, in polemica con tutte queste credenze, affermava che
tutta la creazione era opera d'un solo Creatore, e che a lui solo
appartenevano ciclo e terra, da lui solo dipendevano la luce e gli astri, il
giorno e la notte, la vita delle piante e quella degli animali; e che
nessuno, al di fuori di lui, aveva potere sull'universo. Questo
è il significato del primo libro della Genesi, che narra in maniera <
rappresentativa > i giorni della creazione, facendo giustizia di tutte le
mitologie, di tutte le idolatrie, di tutte le superstizioni, e affermando
l'esistenza d'un unico Dio, spirituale, trascendente ed eterno, le cui opere
erano tutte « buone ». «
In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era disadorna e
deserta, c'erano tenebre sulla superficie dell'abisso e lo spirito di Dio
aleggiava sulla superficie delle acque». Già
in queste parole e affermata la spiritualità di Dio, che non aveva nulla di
materiale o di umano come nelle altre mitologie. «
Dio disse i — Sia luce ! - E la luce fu. E Dio vide che la luce era
buona. E Dio separò la luce dalle tenebre. E Dio chiamò giorno la luce e
chiamò notte le tenebre. Poi venne sera, poi venne mattino
: un giorno ». Il
procedimento narrativo è addirittura poetico, e volere dare alle parole della
Genesi conferme o smentite scientifiche sarebbe come commentare Omero con la
fisica nucleare e Dante con l'astronautica. Le
strofe di questo poema sono scandite in giornate. Poco importa se le giornate
della Genesi debbano intendersi di 24 ore o di anni, di secoli o di millenni. «
Dio disse : — Vi sia il firmamento in mezzo alle
acque e separi le acque dalle acque. — E così avvenne. Dio fece il firmamento
e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle
acque che sono sopra il firmamento. Dio chiamò cielo il firmamento. Dio vide
che ciò era buono. Poi venne sera; poi venne mattina: un secondo giorno ». Qui
sono evidenti gl'influssi dell'antica cosmologia, che « rappresentava » la
terra come una vasta platea, popolata di piante e d'animali, sorretta da
pilastri, immersi nelle acque dette «
inferiori ». Sopra
la terra s'incurvava la volta celeste, a protezione delle acque dette «
superiori ». Gli astri pendevano da quella volta come lampadari accesi di
giorno e di rotte. «Dio
disse: — Le acque, che sono sotto il cielo, si ammassino in una sola massa, e
appaia l'asciutto --. E, così avvenne. E, Dio chiamò
terra l'asciutto e chiamò mare le masse delle acque. E Dio vide che ciò era
buono ». «Dio
disse: —La terra verdeggi di verdura... —E così avvenne... E
Dio vide che ciò era buono, Poi venne sera, poi venne mattina : un terzo giorno ». «
Dio disse : — Vi siano luminari nel firmamento del
cielo per separare il giamo dalla notte, e divengano segni per le feste, per
i giorni e per gli anni. E così avvenne. Dio fece i due
luminari maggiori: il luminare grande per il giorno; il luminare piccolo per
la notte; e le stelle. E Dio vide che ciò era buono. Poi venne sera,
poi venne mattina : un quarto giorno ». Per
ogni strofa della durata d'un giorno, scandita da mattina a sera, un
ritornello sempre uguale : « E Dio vide che ciò era
buono ». Il
Creatore riconosce come buona la propria opera. Egli ispira lo scrittore
sacro a rendere testimonianza alla creazione, che non rinnega, anzi difende
ed esalta come opera buona, da rispettare ed amare. Da:
Il racconto della Bibbia, di Piero Bargellini |