L’UCCISIONE DEL MAIALE

La poesia Jennaru di Michele De Marco (Ciardullo) ricorda le tradizioni del primo mese dell'anno.
…Dici: ammazzamu! E te sienti
mpannare l'uocchi de cuntentizza,
e li pensieri trivulusi spariscianu a ruvina
cumu le neglie si lu vientu mina!
Puorcu! Gioia, ricchizza d'ogne casa,
grannizza vera, pumpusia frunuta!
Ccu lu filìettu 'mpacchi la prim'asa,
la gragagliella, mo cce vo', t'aiuta!
E all 'urtimu, quatrà, cc'e la quadara!
Cchi cc 'è allu munnu chi ssa cosa appara?....
Ad Altilia, come in tutti i comuni della Calabria, il mese di gennaio era salutato non solo come tempo di feste, ma anche di lavoro proficuo, di guadagno sicuro, così come tempo di pranzi e cene con gli amici.
L'occasione era fornita dall'annuale rito dell'uccisione del maiale che portava in ogni famiglia, nel contesto di una società agricola, la carne per la quale si era lavorato quasi un anno.
Di solito il padrone del maiale, alcuni giorni prima, chiedeva aiuto ad amici e parenti predeterminando il giorno dell'uccisione del suino.
Il giorno stabilito, la padrona di casa metteva nel camino i tripodi e le caldaie, le riempiva di acqua, accendeva il fuoco per portare l'acqua ad ebollizione e preparava il caffè per i convenuti.
L'acqua serviva per pilare il maiale, per far cuocere la cotica in modo da pulirlo di tutti i peli, con coltelli affilatissimi.
Da parte sua il padrone con i suoi collaboratori, dopo aver prelevato il maiale dalla porcilaia, lo costringevano a stare su una panca dove gli veniva tagliata la carotide con un lungo ed affilatissimo coltello. Si stava molto attenti a raccogliere, in appositi recipienti, il sangue dell'animale; dopo averlo raccolto tutto, il suino veniva collocato nella majidda, una madia abbastanza grande dove vi si versava l'acqua bollente.
Durante il corso dell'operazione, qualcuno esaminava se la cotica dell'animale era sufficientemente ammorbidita servendosi di un coltellaccio affilato che, passato come un rasoio sulla pelle, radeva il pelo dell'animale con facilità oppure no.
Se il pelo dell'animale veniva eliminato dalla sua radice significava che la cottura della cotica era al punto giusto, altrimenti occorreva versare altra acqua bollente.
Una volta eliminato il pelo, il suino veniva issato, dopo avergli forato i piedi posteriori in senso longitudinale in corrispondenza del nervo che tende il piede servendosi di un gammieddu in legno, ad una trave disposta orizzontalmente infilata in un buco di 'nnaita della muratura della casa e contrastata con cunei in legno.
A questo punto si ripulivano meglio le parti che ancora necessitavano di altra acqua bollente, indi si tagliava la testa che veniva messa sulla finestra della cucina con un'arancia in bocca. Poi venivano tolte le interiora, opportunamente lavate dalle donne per essere utilizzate il giorno seguente.
Dopo l'asportazione delle interiora, il suino veniva spaccato a metà in senso longitudinale, e portato all'interno dell'abitazione per farlo raffreddare.
Con tale procedura aveva termine il lavoro del primo giorno, ma la tradizione voleva che, dopo l'uccisione del maiale, tutti i partecipanti venissero invitati a pranzo.
Si cominciava con l'antipasto tradizionale calabrese costituito da melanzane sott'olio, capicollo, prosciutto crudo, sottaceti, per poi continuare con il primo piatto di maltagliati al sugo di carne di maiale prelevato dal collo dell'animale ucciso, con un secondo piatto di carne di maiale al sugo di pomodoro (lo stufato) e con un terzo piatto costituito da carne di maiale cotto anche nell'aceto ('u suffrittu) con contorno di insalata verde, per terminare con la frutta di stagione come arance, mandarini e frutta secca di propria produzione. Inutile dire che il tutto era innaffiato con abbondanti calici di vino del Savuto.
Al termine del pranzo, il padrone dava appuntamento ad alcuni convitati per le prime ore del giorno successivo per effettuare lo spezzonamento del maiale, necessario per selezionare la carne per le salsicce, le soppressate, il capicollo i prosciutti, accantonando le parti rimanenti quali le cotiche, il cuore, i reni, le ossa, le costole, per bollirle successivamente nella caldaia estraendone la sugna da utilizzare quale condimento per i cibi, gli scarafuogli in termine cosentino, frisuli in altiliese, le cotiche cotte e le ossa con polpa, da mangiare generalmente con cavoli. Le orecchie, i piedi, la coda e qualche altra porzione di carne magra andavano a formare un sottaceto chiamato suzu.
Trattamento a parte veniva riservato alla carne, che veniva selezionata accuratamente formando così una pasta salata sia per le salsicce tagliata in pezzatura più grossa, che per le soppressate, tagliata in pezzatura più fine, con 30 g di sale per kg, privata di nervi e di tendini, che veniva insaccata negli intestini del maiale.
L'insaccamento avveniva a mano con una specie di imbuto di legno, molto accuratamente, servendosi anche di spago di ottima qualità per separare gli spezzoni (stuocchi).
Una volta terminato l'insaccamento, le salsicce e le soppressate venivano poste sotto soppresso: pesi che facevano uscire all'esterno gli umori rimasti negli intestini, mentre la pasta contenuta si amalgamava aiutata in ciò dal sale e dal pepe rosso o nero.
I prosciutti e il capicollo venivano posti in una madia e ben curati per almeno 40 giorni per poi finire appesi alle travi del solaio della cucina o di altro locale ben aereato per asciugarsi definitivamente e maturarsi, preceduti in ciò da salsicce e soppressate. Se l'insaccamento ed il soppresso era stato effettuato a perfetta regola d'arte, senza lasciare vuoti interni e se il locale in cui venivano appese le salsicce e le soppressate era ben aerato, il prodotto certamente risultava di ottima qualità e dalle soppressate si diceva che, tagliandole, usciva la lacrima.
Il segreto era nelle abili mani delle donne che insaccavano la carne di salsiccia e di soppressata; di tanto in tanto sospendevano di inserire carne nell'intestino per pungerlo nella parte già piena con una forchetta in modo da produrre piccoli fori attraverso i quali fuoriuscivano gli umori e la rimanente parte del sangue di cui ancora era impregnata la carne durante il soppresso.
A ragione quindi il poeta calabrese Michele De Marco diceva:
Nun sau chid'è lu puorcu!
E ntra la casa quannu cc 'èd-illu
cc'è na zimpunia!
Io mo cchi sacciu, sc-camanu a 'nna rasa
e ti sienti 'nna gioia, nn 'allegria!
Li pecuraru cch 'è cerviellu sanu fa':
"Cunnituru mio ppe n 'annu sanu".
Quando gli insaccati erano pronti, il padrone assolveva al suo compito di cristiano secondo il comandamento della Chiesa "di pagare le decime secondo l'usanza" inviando al parroco 'u pignatieddu d'u grassu e ru suzu. A Pasqua, dopo la benedizione della sua abitazione, offriva uova e salsicce o soppressate.
All'amico fedele od al compare invece faceva portare la mannata costituita per lo più da una sperlonga in cui venivano sistemate cotiche (le frittole), ossa cotte con polpa, pezzi di carne magra o di rene oltre ad un piccolo quantitativo di frisuli.
"Un tuffo nel passato ovvero le tradizioni di Altilia" di Tullio Ferrari